Archive for category gea and the city

muri #1

Milano, corso Venezia

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May God bless you all

Dopo ti amerei ma sei come una sorella, credo di amarti ma ho troppa paura di perderti, vorrei amarti ma non sono capace, ti amo ma siamo troppo uguali, pensavo di amarti invece era solo attrazione fisica, ecco farsi spazio a spintoni anche ti amerei se potessi.
Ed è subito sera.

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Quattro gin tonic e un matrimonio

Ieri mattina mi sono presentata così rappezzata e in ritardo alla prima prova per l’abito da sposa di una cara amica che le altre due, vedendomi, mi hanno salutato amabilmente: Ma come sei messa, sembri Paris Hilton dopo una delle sue serate. Invece venivo solo da un turno al giornale finito troppo tardi nella notte, con successivi incubi legati alla visione coatta della finale di Sanremo – ho ancora una coscienza, io, e mi punisce per quello che faccio – e da un bagno di pigrizia vestito di pantaloni neri, maglione nero, stivali neri, cappotto nero, occhiali da sole giganti e, rigorosamente, neri.
Ho ordinato un doppio caffè e poi ancora un caffè e poi una bottiglietta d’acqua per diluire il confronto con le altre; infine ho pagato con elegante mancanza di senso (qualcuno la chiamerebbe generosità; il direttore della mia banca preferisce invece incapacità di tenere sotto controllo le spese) il conto di tutte e ci siamo infilate in questo negozio chic di San Babila.
Dieci minuti dopo affondavo in una poltrona di pelle così comoda che avrei potuto addormentarmici e invece continuavo ad allungare il collo per cogliere di sorpresa le rughe che iniziano a darmi qualche pensiero, nonostante mattina e sera mi spali il contorno occhi con la cazzuola, come fosse stucco.
Nel frattempo la futura sposa vestiva il suo sogno d’amore di taffettà, organza e seta, con tanta grazia da riuscire a fare sentire anche noi sempiterne cornute e mazziate come giovani pronte a schiudersi ai sogni.
Tanto che un moto di vita mi ha raddrizzato la spina dorsale e ho iniziato a vagare per il negozio accumulando accessori da provare: cerchietti con giganteschi fiori, cappelli a falde larghe, ombrellini di merletti in stile Quattro matrimoni e funerali.
E a quel punto eravamo così galvanizzate che per rendere tutto più british ho pensato di girarmi e chiedere alla signora che ci facesse arrivare dei gin tonic, proprio come le signore della Upper London.
Dopo eravamo così felici della trovata che non mi sentivo nemmeno più rappezzata: nella vita, alla fine, l’entusiasmo basta saperlo trovare.

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I can’t get no reputation

C’è quella roba che chiamano reputazione online, o qualcosa di simile. Significa come la gente parla di te su Internet – al bar, ormai, non ci si va più nemmeno per lamentarsi: troppa fatica schiodare le chiappe dal divano – e ci sono persino aziende che te la calcolano: mica a noi sconosciuti qualunque, ma a quelli fichi e famosi che twittano, bloggano, friendfeedano eccetera.
Io su Facebook c’ho messo sempre e solo delle demenzialità, qualche citazione di Bob Dylan nelle mattine di pioggia (ispirano) e le attività della gloriosa Cani&Porci’s League, il mio personale surrogato al non aver fatto un figlio negli ultimi anni. Di Twitter non ho mai capito un emerito, né peraltro mi ha interessato. Mi sono iscritta quando il direttore ha iniziato a tendermi dei tranelli – Ma hai visto cosa ha cinguettato tiziocaio? Guarda che ti brucia sui tempi – appena un attimo prima che il giornalismo italiano si reinventasse sul social network, in un agonismo à la page che, onestamente, mi imbarazza parecchio.
Comunque, insomma, mi sono iscritta e per due anni mi sono limitata a rilanciare roba di altri una volta ogni tre settimane, più inutile dell’ultimo disco di Vasco Rossi (sì, sì, questa l’ho messa apposta, autocitazione, pardon moi). Poi, nelle ultime settimane, ho scritto anche qualche idiozia più articolata, ma comunque poca roba. Ciononostante, qualche pazzo che forse mi legge in posti migliori ogni tanto pensa di seguire i miei presunti tweet: oggi, per dire, un collega di un altro giornale.
Mi sono presa la briga di cercare informazioni su di lui e sono capitata su una pagina personale in cui la parola più semplice è esegesi e la più difficile non so nemmeno pronunciarla e mi sono sentita in imbarazzo:  se gli altri fanno lo stesso con me e finiscono su geolina probabilmente pensano che l’ho rubato il mio posto di lavoro.

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Gente banale

La mia migliore amica (una delle, che altrimenti le altre si offendono) è stata lasciata da un uomo e passa le giornate ad ascoltare Adele piangendo (se volete essere radical chic il giusto, pronunciate togliendo la e finale).
La banca l’ha chiamata facendole presente uno scoperto da qualche centinaia di euro e lei ha scritto una missiva al direttore della filiale che più o meno recita: “Il mio moroso mi ha lasciata e se lei non ha nemmeno il cuore di farmi un po’ di credito per farmi bere qualche birra la sera o comprare qualche maglioncino il sabato mi condanna all’infelicità eterna”.
Il direttore non ha colto. E io, che sono ragazza generosa con 19,37 euro sul conto, e soprattutto appena lasciata dall’uomo che amo, ma che dice di amarmi*, perché se no mica è divertente, pago le birre che entrambe dobbiamo bere per dimenticare.
Essendo le due però – lei e io – discrete bevitrici, la cosa inizia a costarmi parecchio. Quindi a breve il direttore chiamerà anche me. E va bene, chissenefrega. Una volta il Delille mi disse: “I soldi non è come li fai, ma come li spendi”. Io quel concetto lì in effetti ce lo avevo sempre avuto dentro, ma non avevo mai saputo esplicitarlo in un pensiero compiuto. Edo me lo ha offerto su un piatto d’argento, e da allora ho anche la perfetta giustificazione di ogni mia intemperanza.
Quindi alle nove e mezza di un martedì qualunque mi trovo sbronza e a mandare messaggi al mio ex moroso (ex ex: non l’ultimo, che ancora non riesco a mettergli l’ex davanti, quello prima). Uno con cui avrei anche messo su casa, prima che la casa metaforica crollasse. Ma il ragazzo – incredibilmente – non porta rancore, e riesce persino a darmi consigli. Tipo: Non bere troppo. O forse sì.
Che vuole dire che tutto sommato non sono cambiata molto. O che mi conosce ancora molto bene. O che forse le storie sono tutte uguali: uno ti dice ti amo, poi scappa, poi sta da solo un po’, poi incredibilmente scopri che ha messo su famiglia con qualcun’altra.
Nel frattempo il direttore della banca continua a chiamarti per l’annosa questione dello scoperto. I bancari. Loro sì che sono gente banale.

* Ahahah, risate a fondo sala. Forse, forse, sarà stato un ti voglio bene. O magari solo bene. 

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Per fortuna che hanno già scritto tutto, e io devo solo ascoltare

If you should go skating
On the thin ice of modern life
Dragging behind you the silent reproach
Of a million tear stained eyes
Don’t be surprised, when a crack in the ice
Appears under your feet
You slip out of your depth and out of your mind
With your fear flowing out behind you
As you claw the thin ice

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Non avevo tempo da perdere, tu tempo da dare

Cercavo le parole, ma sono già tutte qua. Le aveva già cantate. Se solo lo avessi ascoltato.

Era solo per ricordare 
l’ultimo verso dell’Infinito 
e i tuoi occhi come lo stagno 
e una carezza sul tuo vestito 
che certamente non aveva senso 
o aveva senso trovarci allora? 
Se tutto quanto era già stato detto 
o c’erano cose da dire ancora? 
Ma non avevo tempo da perdere 
e tu tempo da dare 
E per non darti un dispiacere 
per non farmi notare 
per guardarti dormire

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Bansky rulez

banksy

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Total eclipse of the head (oppure due donne allo sbando in una giornata qualunque)

A un certo punto ieri volavano talmente tanti stracci tra il mio Io, Es, SuperIo e quegli altri brutti ceffi che si agitano lì dentro che ho pensato di fare l’unica cosa intelligente che sia in grado di fare: darmela a gambe. Non sola, bensì con una delle due persone al mondo che conosce e rispetta tutta la mia banda di energumeni interiori, e per qualche ora riesce anche a fargli fare pace (l’altra, purtroppo, abita a troppe ore di volo da qua).
Jessi, partiamo stasera?
Carico gli sci su un taxi e arrivo. Tanto la valigia non l’ho ancora disfatta dall’ultima volta.

(A vivere in un monolocale, in effetti, si impara a razionalizzare gli spazi).
Poi il direttore editoriale ha deciso di farmi un mazzo quadrato perché non stavo seguendo la conferenza stampa di Monti – e sì che era tanto, tanto, tanto interessante – l’Europa stava implodendo e tutti gli aspiranti stagisti del mondo avevano inviato un Cv da leggere supplicando di farlo in fretta e, insomma, ci è toccato posticipare la partenza all’indomani ed è finita che alle 22 occupavamo un tavolo d’angolo nella pizzeria dove solo la notte precedente avevo ingollato lacrime-quattro-stagioni durante una conversazione amorosa che Woody Allen potrebbe comprarmi i diritti.
Comunque, dicevo. Abbiamo puntato la sveglia alle sei e mezza, con l’abbigliamento tecnico già pronto, la voglia di montagna a rinfrancare l’umore e quella strepitosa giacca da sci di Pucci a ricordarci che due anni prima, in analoghe circostanze, non avevamo rischiato di morire sotto la peggiore tempesta di neve che il Monginevro ricordi per niente (bisognava scegliere tra comprare la giacca o le catene e, sul serio, non c’era davvero partita).
Alle sette e mezza imboccavamo con sicurezza la direzione autogrill: ogni buon viaggio inizia con una abbondante colazione, come universalmente noto.
Peccato che siamo arrivate che stava giusto iniziando il radiogiornale e, siccome una parte di me non reagisce ai miei stessi comandi, ho pensato bene di ascoltarlo interamente prima di entrare. Alla terza notizia, più o meno, un mastodontico autobus a due piani del gruppo vacanze ragionieri-del-Veneto ha oscurato la linea dell’orizzonte, riversando il suo improbabile carico di umanità alle case del bar.
Così, dopo rapida ricognizione delle meravigliose, fragranti e inviolate brioche appena sfornate, ci siamo mestamente rimesse in macchina verso il successivo punto di ristoro. Non prima, comunque, di aver perso il mio cappello di cachemire marrone, il terzo in due inverni, per la ragguardevole cifra di 240 euro complessivi, giusto per non lasciare la ragioneria solo agli altri.
Quaranta chilometri oltre, quando il sole era almeno abbastanza tenue da permettermi di calcare enormi occhiali da sole senza troppo imbarazzo, un autogrill ha allietato il percorso. Stavo perfezionando il parcheggio, avendo preso l’ingresso in contromano – forse in effetti era ancora troppo buio per gli occhiali da sole – quando un altro autobus in stile pentole-e-gita-in-Lombardia si è parato proprio di fianco; con il guizzo di un salmone che risale la corrente avversa la Jessi è sgusciata fuori dall’abitacolo e si è letteralmente messa a correre abbattendo qualsiasi cosa le si parasse di fronte per guadagnare il primo posto alla cassa: trenta secondi di puro agonismo da colazione, e dire che ancora non aveva indossato i pantaloni da sci di foggia militare che le sono valsi il glorioso soprannome di P.A. Baracus.

Finalmente, due ore dopo, stavamo viaggiando tra strette vallate che avrebbero dovuto essere innevate e invece di neve nemmeno l’ombra – ma noi ci sforzavamo di far finta di niente per non rimanerci male. Avevamo già rispolverato tutto il repertorio fiorellamannoiesco e vascorossiano dei nostri viaggi della speranza, quando un cd dimenticato nella selva dei sedili posteriori ci ha aperto un universo.

Total eclipse of the heart. Bonnie Tyler. 1983.
Vetri che tremano. Ugule roventi. Balletti. Commozione. Risate. Catarsi. La macchina che sbanda.
Once upon a time I was falling in love, now I’m just falling apart.
Acuti. Lacrime. Applausi a scena aperta. Bene, brave, bis.
Alle 11, con un’ora di ritardo sulla tabella di marcia e Bonnie che aveva ululato Tomorrow is gonna start tonight almeno 15 volte, eccoci arrivate all’ovovia.
Centimetri di neve: zero.

Ehm, Jes, magari saliamo ancora un goccio?
Eh, sì, meglio.
Non è che ci sia tanta neve.
No, ecco, tanta tanta no, direi. Ma otto impianti sono aperti, l’ho letto.
Sì sì certo, saliamo.

Saliamo.
Mezz’ora dopo stavo parcheggiando la macchina in mezzo a uno sterrato di fango di fronte alla biglietteria del ghiacciaio, intorno alla quale si muovevano goffi energumeni vestiti da sci in modo quantomeno inopportuno, visto il paesaggio circostante: più o meno come noi, insomma, ma senza la giacca di Pucci, che in effetti fa sempre la differenza.

Quindi?
Chiediamo?
Ehm, signora scusi ma quante piste ci sono aperte, a parte la baby?
Tre.
Ah.
E si può fare il pomeridiano?
No.
Ah.
E i punti quanto costano?

Quanto il giornaliero.
Ah.
Scusi ma la tavoletta di cioccolato me la regala anche se non compro lo skipass?

No, questo la Jessi non mi ha permesso di dirlo, visto che la signora era così cordiale.
In compenso, P.A. Baracus per sollevarci l’umore ha subito sfoderato il piano B, di una semplicità abbacinante. Andiamo in un ristorante e ordiniamo tutto il menù. Ma tutto proprio. Voglio mangiare tantissimo. Praticamente una versione appena un po’ edulcorata di Die Hard.
Comunque ho appoggiato il piano. Tanto sai con tutto questo moto quanto bruciamo?
Non avevo ancora messo la retromarcia che P.A. stava già consultando ferocemente la guida ristoranti dell’iPhone.
Gea, non possiamo sbagliare. Non possiamo. Voglio mangiare benissimo, senza badare a spese.
E così ci siamo rimesse in cammino, con Totale eclipse of the heart a ricordarci perché ci trovassimo lì.

Senti questo menù: gnocchi verdi del cuoco su un letto di cipolla ricoperti di fontina.
Non male. Poi?
No no ascolta la recensione: Ambiente rustico ma dosi abbondanti – dosi abbondanti, hai capito? questo è importante – ottima scelta di selvaggina
Ma io la carne non la mangio
Non rompere i coglioni con sta cazzata, senti qui: ragù di cervo e polpette di cavallo su fonduta di formaggi tipici.
Jes, scusa, abbassa un attimo la radio che ho sentito un rumore strano.
Torta di cioccolato assolutamente consigliata e una selezione di amari…
Jessi, si è accesa una spia…
…Conto contenuto rispetto alla qualità, 10 euro per i primi, 13 per i secondi…
Jessi, aspetta che leggo cosa significa la spia..
….Ottimi anche gli amari della casa, da provare la grappa...
Ecco, lo schermo dice M-o-t-o-r-e i-n-a-v-a-r-i-a…

Cosa?
Motore in avaria…
MOTORE IN AVARIA!

Tre minuti esatti di risarella incontrollata. Sgomento. Almeno due incidenti mortali sfiorati.
E nessuna variazione al piano B.

Proviamo ad arrivare fino al ristorante.
Dici?
Dico.
Occhei.

Nei pressi della baita, ci eravamo già in effetti dimenticate della spia, diventata rumore di fondo. E dopo venti minuti, avevamo ordinato – esattamente come da programma – tutto il menù. Ma solo dopo una mia lunga tiritera sugli effetti nefasti della globalizzazione, per cui quella fantastica bottiglia di liquore sul bancone – Davvero è l’ultima? Me la metta subito via, la compro di sicuro – così tipico della zona e che avrei regalato a qualcuno a Natale magari poi mia cognata l’avrebbe trovata dal droghiere sotto casa, perché è così che si perde il senso della tradizione locale.
Alla seconda portata – un conglomerato di formaggio e cipolla e gnocchi di patate e burro – il mio stomaco ha iniziato a dare segni di cedimento. Ma abbiamo proseguito fino alla terza. E alla quarta.
Dopo la torta budino di cioccolato, un conato mi ha attraversato lo stomaco e fulminato sul tavolo.

Mi sa che devo vomitare Jessi.
Vai in bagno che se no viene da vomitare anche a me.
Sì bè non pensavo di vomitare sul tavolo.

Sto malissimo.
In bagno non c’è la carta. Andiamocene. Penso che potrei morire fra tre minuti.
Occhei. Il liquore lo prendi?
Certo, lo regalo a qualcuno per Natale.
Gea, ma il pistacchio non è roba di montagna.
Cazzo, hai ragione.

In effetti, mentre la signora mi incartava l’ultima bottiglia rimasta e l’etichetta rivelava Pesaro Urbino come provenienza, constatavo amaramente che la globalizzazione mi aveva fregato ancora una volta. Ma ormai era troppo tardi ed ero troppo sfinita dal cibo per tentare di resistere.
Così siamo rotolate fuori dal ristorante con il sacchetto contenente il liquore truffaldino e ci siamo sedute su un muretto a secco, esanimi.

Credo che dovremmo camminare, altrimenti inizio a vomitare.
Non so se ci riesco.
Su, sforziamoci.
Ma un pisolino in macchina invece?

Tanto, ovviamente, la macchina non ripartiva: c’era sempre quel problemino di avaria al motore. E io nel frattempo avevo perso la sensibilità della frizione – oltre che delle papille gustative e del cervello – e quasi bruciato il motorino d’avviamento.
Ma a Milano ci siamo ritornate ugualmente, dopo un po’ di tentativi. Perché ignorare le spie, su un’auto o nei rapporti, è un’arte: basta essere ostinati abbastanza. E sperare che tutto esploda quando tu sei già al riparo da un’altra parte.

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Hanno fatto capolino sulla mia scrivania

E’ arrivato il pony stamane e se tutto va bene riuscirò a non perderli fino al prossimo 3 luglio. Se tutto va male invece li perderò tra il 20 giugno e il 2 luglio, come mi è successo l’estate scorsa con quelli di Lou Reed, salvo poi spuntare dentro al mio passaporto la mattina stessa del concerto, quando ormai avevo una crisi di nervi in corso e gridavo insulti irripetibili contro qualsiasi cosa, animata o inanimata. Come ci fossero finiti i biglietti dentro al passaporto, comunque, non l’ho mai scoperto: forse nel sonno avevo inconsapevolmente meditato una fuga subito dopo lo spettacolo (e non quella che in effetti c’è stata, ma questa è un’altra storia).
In ogni caso.
Suonano i Radiohead a Bologna e per me è come la chiusura di un percorso umano, astrale, simbolico e tutte queste robe qui: la città e il gruppo. Se mi riconcilio con tutto l’anno prossimo mi danno il Nobel (alle intenzioni). Se non ce la faccio avrò visto i Radiohead in piazza Maggiore, che comunque non è mica male.

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