Vetri


Guardo il mondo dal finestrino. Non nel senso che sto alla finestra; nel senso che salgo su aerei, treni, taxi, pulmini e pigio il naso contro al vetro, per vedere meglio cosa c’è fuori.

Milano-Gressoney, su una Punto. Poca neve e tanto freddo, in queste valli che sanno reinventarsi come i migliori trasformisti: d’estate vivono sulle correnti del Sesia, che stuoli di giovani in cerca di emozioni solcano su kayak o gommoni; d’inverno accolgono altri pazzi – questi veri – che si buttano giù dalle cime del Monte Rosa senza protezioni, lavorando di lamine e fantasia.

Rientro a Milano dopo la mia prima giornata di snowboard: non ci sono maestri disponibili e opto per il fai-da-te, confidando sui soliti similcampioni desiderosi di insegnarti, tacchinarti, dare sfoggio di sé. Non sbaglio, infatti. A sera affondo nel sedile della Mini di amici col coccige dolorante e la schiena che urla, scoprendo che esistono anche gli autogrill politically correct, quelli che non vendono riviste porno dopo le 22: forse non gli va che i camionisti gettino fazzoletti farciti di liquido seminale nei loro parcheggi.

Milano-Napoli, l’indomani. A Linate il mio aereo ha un’ora e mezza di ritardo causa nebbia; la hostess capisce e mi fa imbarcare su quello precedente, con il gate giù quasi chiuso. In prima classe ci sono solo coppie annoiate che non si rivolgono la parola e affondano nei rispettivi quotidiani; cambio posto per pigiare il naso contro il finestrino e scopro che se si potessero bucare le nuvole con uno spillone ne uscirebbe il sole. A dieci minuti di altitudine il grigio cenere che avvolge la città lascia spazio a un sole morbido e caldo, che mi rallenta i movimenti e sembra farmi galleggiare sopra i pensieri e gli sguardi. Le ali tagliano nuvole soffici; penso che potrei stare in volo dieci ore e stare bene. Ma il volo è invece corto, a Napoli si atterra tra le case, la traiettoria sfiora la scalcinata autostrada e a terra la cantilena locale e il profumo di caffè accolgono in un abbraccio luciferino.

Napoli-Ercolano, in taxi. Siamo in Italia, in Libia o ancora in Vietnam? Mi sento come se avessero messo un filtro seppia sul finestrino, con le case che virano all’ocra, i palazzi scalcinati e i segnali stradali ammonticchiati gli uni sugli altri, confusi e superflui. Il taxista vuole sapere cosa ci faccio a Napoli, “ma il tuo fidanzato ti lascia muoverti da sola?”, vaglielo a spiegare che tocca uno dei nodi cruciali di un’intera esistenza, non proverò però a intavolare con lui una discussione sull’indipendenza e la necessità di spazi vitali e di essere se stessi trascinati dalla corrente, che se gli altri vogliono fermarmi stanno cercando di soffocarmi, e quanto ci vuole a capirlo, ci ho messo 30 anni io, non basta certo il tragitto Napoli-Ercolano, ecco. “Sono qui per lavoro”, “Allora ti compro un regalo per te”. Al casello della tangenziale un tizio vende cornetti portafortuna, l’oggetto più napoletano che si possa immaginare, il taxista me lo dona in mezzo a un mare di cemento, con il Vesuvio imbiancato alle spalle e il mare quello vero che brilla in lontananza, la sagoma di Capri a profumare di primavera. Mi schernisco imbarazzata, ma in fin dei conti sono contenta, finché non lo perdo lo guarderò con tenerezza.

Ercolano-Napoli-Verona. All’aeroporto bevo caffè su caffè, non importa se poi non dormirò, è uno di quelle godurie a poco costo che riempiono l’anima (e non ingrossano le chiappe, a differenza delle sfogliatelle di Gambrinus). All’imbarco rifletto su come siano perfettamente riconoscibili gli uomini di mezz’età della Napoli bene, sembrano fatti con lo stampino: chiome ancora folte e curate, tra il grigio e il bianco, volti abbronzati, lineamenti morbidi anche quando i volti sono squadrati. Hanno buone maniere che confinano con un manierismo un po’ posticcio, e occhi brillanti che tradiscono il desiderio delle carne senza bisogno delle boutade brianzole così in voga dalle nostre parti.

Verona, stazione ferroviaria. Il vetro della biglietteria. “Mi dà un biglietto per Bolzano?”. “Non posso signorina, non riesco a prenotarlo, prenda quello dopo”. “Non posso, ho un appuntamento, come devo fare?”. “Salga sul treno e prenda la multa”.

L’intercity è troppo sporco per attaccare il naso al finestrino, ma il paesaggio che scorre si intuisce anche se puntinato del marrone di vetri non lavati da mesi. Lo trovo desolante: la montagna senza neve mi sembra brulla e triste, senza ragione d’essere. Il cemento di casette regolari e razionali e mortificanti si insinua tra le valli, lasciando intuire lo scorrere ordinato di vite regolate col misurino.

Milano-Barcellona, il giorno del mio trentesimo compleanno. Per la famosa teoria del battito delle ali di una farfalla a Pechino che causa un uragano in Africa – più o meno, diciamo – uno sciopero dei controllori di volo francesi mi costringe a sette ore di attesa sugli striminziti sedili di plastica di Linate, l’aereporto meno accogliente d’Italia, fatta eccezione per Malpensa, ovviamente. Pochissimi negozi, un paio di mediocri ristobar, bagni che differiscono poco da quelli dello stadio di San Siro e soprattutto un linoleum consunto che ogni volta mi ricorda l’aeroporto di Bogotà dove ho passato una notte qualche anno or sono. Nonostante sia affollato da business man che non cessano un attimo di parlare al telefono – è quasi sera quando penso di chiedere a uno che telefono abbia, che io una batteria così me la sogno, infatti il mio iPhone è già attaccato in carica tra un bidone dell’immondizia e l’ingresso della toilette – Linate è una delle cose meno business del mondo, a partire dalla triste considerazione che pur distando cinque chilometri in linea d’aria dal centro cittadino praticamente l’unico metodo per raggiungerlo è il taxi.

Seduti affianco a me due colleghi, che non conoscevo fino a poche ore prima, e con i quali si chiacchiera fitto fitto, in quelle classiche situazioni da film in cui due sconosciuti per l’irriverenza del caso finiscono per diventare protagonisti di una giornata che probabilmente mai dimenticherai – quella in cui compi trent’anni, per l’appunto.

Quando finalmente il volo parte è sera, e il mio posto vicino al finestrino non serve a molto, se non a evitare l’invadenza di quelli che si sentono in obbligo di scambiare due chiacchiere a tutti i costi. Accendo l’iPod e appoggio la testa contro il vetro: black out.

L’albergo che mi ospita a Barcellona è un finestrino integrale, uno di quei posti tremendamente di design, firmato da un architetto con cachet milionario, che si affaccia direttamente sulla baia e al posto di muri di cemento ha immense vetrate. Sfarzoso tanto da farti sentire inadeguato, specie dopo una giornata trascorsa in aeroporto, restituisce tutto con gli interessi di prima mattina, quando ti sveglia la luce del sole – che a Barcellona ha sempre una certa intensità – e mentre ti stropicci gli occhi ti rendi conto di essere sospeso sopra un lembo infinito di sabbia e mare. Mi sono chiesta se mai nella vita potrò permettermi un lusso così pagandolo di mia tasca (la risposta è no al 90%, dando un’occhiata al listino), e quanto faccia bene al corpo, oltre che all’umore, un risveglio di questo tipo. Credo moltissimo.

Dei colori, della gioia, dell’allegria della città che secondo me non ha un solo problema significativo ho già scritto molto; il piacere di fare una corsetta sulla Barceloneta all’alba o al tramonto è invece una cosa da provare in prima persona: fa sentire un po’ hollywoodiani, ma anche tremendamente umani e semplici. Niente è più vero del mare.

Barcellona – Milano – Bergamo. Dall’aeroporto di Barcellona a quello di Orio al Serio ci sono in mezzo un paio di ere geologiche di sviluppo, ma anche la democratizzazione dello spazio aereo che mi ha permesso di portare a Londra con poco meno di 300 euro una decina di amici.

La mia tesserina Blue Sky frequent flyer non può nulla sui voli Ryan Air: la corsa ai posti a sedere è come quella del primo giorno di scuola negli ultimi tre anni del liceo, in cui alle 7.30 sei già a fare la posta davanti ai cancelli per conquistare un ultimo banco che potrebbe salvarti l’intera annata. I low-cost sono anche un’ottima finestra su spaccati umani e sociali, occasione irripetibile di entrare in contatto con persone che nel tran tran quotidiano non incontreresti mai. La categoria più frequente, e imbarazzante, è quella dei vacanzieri che si esprimono in dialetto e normalmente si lasciano andare alle considerazioni più colorite su hostess e affini, parlano a voce sempre troppo alta, hanno bagagli per cui dovrebbero pagare sovrapprezzi che non vogliono pagare e si danno di gomito ogni volta che una si alza per andare alla toilette. C’è del classismo in questa descrizione, lo so. Però provate a prendere un Ryan Air per Londra o Praga e poi ditemi se non è vero.

Londra Stansted. A Stansted il servizio di navette che porta in città è gestito nientepopodimeno che da ragazzi romani. Un esercito di romani. Che, per di più, l’inglese lo mastica ancora in modo approssimativo. E dire che con gli autobus di soldini devono averne fatti, forse un corso intensivo di lingua farebbe fare un salto di qualità al business. A pigiare il naso sul finestrino si vede poco – è notte – ma appena il bus approccia Liverpool station, cuore della City, nonostante siano le 3 di mattina di un giorno piovoso (strano, eh), fiumi di persone spuntano da tutte le parti.

Ragazzi bianchi, meticci, scuri, asiatici; ragazze bionde e brune, senza calze, con i sandali che noi indossiamo a luglio, con magliette strette nonostante ventri non proprio piatti, che ondeggiano pericolosamente sotto l’effetto di litri di birra.

Londra, dove negli ultimi mesi ho avuto la fortuna di andare spessissimo, è il vero melting pot, in questo momento. Non New York, non Berlino, non Pechino: Londra, che dagli anni 80 a oggi è cambiata più di qualsiasi altra città al mondo. L’aria che tira oggi sulle sponde del Tamigi è quella che gli Scorpions vent’anni fa avrebbero cantato in Wind of Change; è un posto che sta letteralmente fermentando, in cui ogni giorni nascono teatri, negozi, quartieri, mercati. Ho amici, parecchi, che sono andati a vivere lì nell’ultimo anno: seduti a pranzo in una bio-grocery, un supermercatino sensibile al biologico con tavoloni di legno chiaro, ritmi brasiliani di sottofondo e una connessione wi-fi aperta a tutti, mi hanno raccontato meraviglie di un posto che fino a una decina d’anni fa era uno dei meno accoglienti d’Europa. Gente che si sa rinnovare.

Tutti hanno provato a convincermi a strasferirmi lì, e non è che non lo farei al volo, se il Guardian mi chiamasse. Non è detto che non ci vada, con o senza telefonata.

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    #1 by Chicco on March 8, 2010 - 18:54

    Gira che ti rigira…il viaggio verso casa tua te lo sei dimenticato.

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    #2 by gea on March 8, 2010 - 22:48

    tesoro, sembri la mia mamma quando mi dici così 🙂

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    #3 by La Vane on April 8, 2010 - 15:19

    Gran bel pezzo e grandi verità. Se l’Italia avesse tante Gea come modello di riferimento e non tante decerebrate sculettanti, sarebbe un posto migliore.
    E noi non dovremmo trasferirci a Londra.

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    #4 by gea on April 8, 2010 - 16:43

    Ciao, LaVane, che vane sei?
    Grazie per il commento, fin troppo generoso. Io in realtà mi limito a fare qualche appunto mentale sulle cose che vedo. Per esempio, oggi a chicago nevica!!!

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