Siamo entrati a Sarajevo di notte, ascoltando questa. (The Edge con la pedaliera in confronto è un dilettante).
E con il buio, la neve, i vialoni larghi, i palazzoni sforellati e la gente vestita troppo poco per il freddo che fa, ho pensato di essere nel posto giusto al momento giusto.
In realtà la città prêt-à-porter è un’altra, e il contrasto mi ha reso la vita difficile. Il quartiere turco, intorno a cui si snoda la Sarajevo delle guide, è bella e ben sistemata: moschee, musei, bazar, negozietti, localini, una piazzetta raccolta. Troppo per me: negli ultimi anni ho sviluppato una fascinazione per i posti ruvidi e sconquassati, dove i conti con la storia sono ancora aperti.
Ho avuto la sensazione che tutto sia pronto per il turismo di massa, per infiocchettare i giorni dell’assedio nel menù servito ai veneti che arrivano a fiotti, complice il marco bosniaco che impallidisce di fronte all’euro.
Sono voluta scappare dalla città bella, alla ricerca del resto.
Il resto c’è. Ed è una distesa di cimiteri interrotta qui e là da minareti, case e chiese. Dovunque ci sia uno spazio libero, sulle colline arrampicate intorno alla conca così come nei parchi cittadini, i bosniaci hanno sepolto i propri morti: decine di migliaia. Lapidi bianche, con nomi incomprensibili, sobrie e dignitose, affondate nella neve alta mezzo metro: uno spettacolo che rompe il fiato.
Intorno, l’atmosfera è quella dell’alba atomica: crudele e stupenda. Saliti in cima ai palazzoni di Nova Sarajevo, Nicola e io non siamo riusciti a vedere cosa ci fosse sotto: tutto avvolto dal fumo delle ciminiere con cui gli europei stanno succhiando alla gente del posto ogni minerale che la terra abbia prodotto.
Il 1 gennaio, mentre nel gelo di un campo sperduto guardavo un video sui giorni dell’assedio, ho pensato a che figata deve essere stato fare il corrispondente durante l’ultima guerra dell’epoca moderna. L’ultima senza attacchi aerei, con la Nato tristemente immobile, i cecchini sui palazzi e le donne che correvano per attraversare le piazze, i bambini abbarbicati addosso e qualche patata infilata nelle tasche. Nella mia testa, ho proprio usato proprio la parola figata. E mi sono spaventata: come quando capisci che per il tuo istinto vanesio la guerra diventa un’immagine da raccontare.
#1 by bios on January 11, 2011 - 01:09
Sì hai usato la parola figata. E sono qua alleggerirti. Le cose succedono, le cose brutte non finiranno mai, e non ci si può fare proprio niente se uno nel cervello nasce con germe malsano di voler esplorare il male.
Questa è la figata che ci condanna dritte alla forca. ma sta’ tranquilla, per fortuna siamo in minoranza. E comunque il germe malsano si innesta. e qualcuno ce l’ha messo nel cervello. non lo abbiamo mica chiesto né tanto meno ce lo ha ordinato il dottore.
Una cosa vera: non saremo mai capaci di indignarci, noi. Facciamocene una ragione.