Sono entrata in un negozio di dischi di Nanluo Guxiang, un hutong di Pechino rimesso un po’ a nuovo ma ancora abbastanza autentico. Suonavano i Velvet Undergorund, ragione per cui mi sono fermata, oltre al fatto in realtà che era il primo negozio propriamente di musica che vedevo (tutti vendono un miliardo di cianfrusaglie e magari anche cd di qualche copia locale di Cindy Lauper: questo vendeva solo dischi, e ben ordinati).
Insomma, sono entrata e ho iniziato a conversare con il commesso, non con il mio metodo consueto – io parlo italiano, l’altro cinese e vediamo se abbassa il prezzo o se mi molla nel posto giusto – bensì in inglese.
Il ragazzo, oltre ad avere una discreta conoscenza musicale – discreta per uno che non può accedere a YouTube perché è bloccato dal governo – aveva anche una certa padronanza linguistica, quindi gli ho chiesto di farmi vedere un po’ di roba cinese.
Mi ha messo su qualche disco e alla fine uno mi ha persino convinto (una versione pechinese e molto peggiore dei Sonic Youth ma comunque con un suo piccolo perché) e ho deciso di comprarlo.
Mentre tiravo fuori i soldi, non proprio pochissimi, mi sono chiesta a chi sarebbero finiti: alla band, all’etichetta (assolutamente sconosciuta), al partito?
Quindi, con una certa ingenuità, gli ho chiesto: Hey ma come funziona con la musica qui? È come la stampa? Deve passare attraverso la censura?
Lui ha preso a guardarmi inebetito senza parlare. Ho pensato non avesse capito.
No, dico, i musicisti, devono passare qualche controllo, chessò, c’è un ufficio apposta?
Silenzio.
Voglio dire, uno suona quello che vuole? Sono liberi?
Intanto è entrato un cliente. Scusa, il mio inglese non è così buono.
Pechino Dispacci #8
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