Pastorale americana


(subtitle: Scarni appunti di viaggio).

Il mio rapporto con l’America oscilla da sempre tra il “te l’avevo detto” e “solo gli stolti non cambiano idea”. Ovvero, tra il rassegnato e l’entusiasta.
Da qualche giorno sono a Chicago per lavoro: non fosse che mangiare un’insalata verde è più difficile che trovare dieci dollari per terra, potrei innamorarmene.

(Il fatto che sia la città di Obama ha il suo peso, ma se fosse nato a Milwaukee dubito che mi avrebbe fatto lo stesso effetto).

La mattina mi sveglio alle cinque per il jet lag – sto invecchiando, una volta non mi succedeva – e gironzolo sotto la luce abbacinante del Lago Michigan lungo Millenium Park, dove stanno girando un film: cinque persone diverse vedendomi con una cartina in mano mi chiedono se ho bisogno di aiuto. Mentre pago dei libri da Barneys and Noble la commessa si complimenta sulla scelta dei titoli e chiacchieriamo un po’. In coda per entrare alla Sears Tower la signora davanti a me si offre di comprarmi il biglietto mentre vado a cercare un bagno. In qualsiasi negozio, all’entrata c’è qualcuno che ti saluta e chiede come va, e così all’uscita, anche se non hai comprato niente e magari hai anche sporcato il pavimento.

Poi, c’è lo sport. Tutto quello che c’è da sapere sull’America si può scoprire durante una partita di basket. Meglio dei libri di sociologia, degli articoli di fior fior di corrispondenti, di film che hanno segnato la storia. Ho imparato una cosa: dovunque capiti negli States, la seconda cosa da fare è comprare il biglietto per una partita – c’è sempre un big match, in qualsiasi città americana – e arrivarci un’oretta in anticipo (la prima è leggere il New Yorker, ovviamente).

Dall’obesità come modo di essere, ai marine che si esibiscono nel lancio acrobatico del fucile – giuro, giuro – durante l’intervallo; dai lustrascarpe all’ingresso, alle cheerleader biondissime che firmano poster; dalla musica assordante anche durante la partita, ai ragazzi che girano con i cartelli “Make some noise” per incitare la squadra; dalle famiglie con bambini – tutti rigorosamente sportivi, sorridenti, affabili – ritratto della media, operosa borghesia con il pick up in garage, alle coppie miste che si scattano foto davanti alla panchina dei Bulls. In un big match c’è dentro tutto. Gigantesco, rumoroso spettacolo: l’America stessa.

Eppure. Eppure ci vogliono gli anticorpi per reggere gli States. E un cuore perfettamente funzionante per non avere un’ipercolesterolemia alla seconda settimana di permanenza.

Cose che non tollero. Perché, nonostante gli anni trascorsi, le discussioni a livello mondiale, l’evidenza empirica che la loro alimentazione non funziona, gli americani non riescono a mettere nel piatto del cibo-come-dio-comanda? Mi sento quasi anoressica in un ristorante americano: “Scusi, la carne è cotta nel burro? Ecco no, allora non ce lo metta. E poi un’insalata. No, no, niente condimenti: non è che ha dell’olio normale? E il pane no, senza formaggio fuso sopra. Anzi, lasci stare il pane va, che tanto è cotto nello strutto”. Il cameriere mi guarda pensando a quanto sono rompicoglioni; vorrei dirgli di guardare le sue coronoraie.

Poi c’è questa cosa che da qualche tempo sto cercando di smettere di mangiare carne. Carne di allevamento, e cioè tutta, praticamente (vedasi: Eating animals, Jonathan Safran Foer). Negli States, ancora più che a Londra, questa cosa è sostanzialmente impossibile: perché la bistecca è l’unica cosa in qualche modo sana che si possa ordinare. Qualsiasi altro piatto arriverà cosparso di burro e formaggio fuso e asparagi fritti (anzi, deep fried come sta scritto nei loro menù, come se fried da solo non fosse sufficiente).

E ancora, il buco nero culturale in cui si può sprofondare appena girato l’angolo. Una tizia ieri stava cercando di convincermi che il surriscaldamento globale è solo un’invenzione di chi vuole vendere più pannelli solari a scapito dei petrolieri (per danneggiarli, no?); Sarah Palin va in Tv a dire che Obama non può parlare di nucleare perché non è un tecnico (come se Kissinger fosse stato un ingegnere dell’atomo) e decine di mentecatti la acclamano come se fosse Jordan sotto canestro. Un collega l’altro giorno mi ha detto: “Cosa volete saperne voi dell’America, abbiamo più giornali noi a New York che voi in tutta l’Italia”: un superomismo sciovinista condito probabilmente con una robusta dose di ignoranza – quando andavo a scuola qui il 97% dei miei compagni non sapeva collocare l’Italia sulla cartina geografica: per la statistica è altamente probabile che qualcuno di questi sia finito a fare il giornalista.

Poi però ti sintonizzi sulla Cnn e senti il Presidente parlare, vedi gli occhi emozionati della speaker nel presentarlo – occhi che brillano di orgoglio – e pensi che solo un posto immensamente grande poteva eleggere una persona così alla Casa Bianca. E per un po’ puoi anche dimenticarti dei panini al burro, della carne da allevamento e del supertestosterone di molti americani.

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    #1 by momo on April 12, 2010 - 08:27

    gli americani hanno un concetto Fichtiano del mondo (USA, non-USA), ma la loro forza sta tutta li… insieme alla loro ignoranza.
    tutti uniti e coesi, normale facciano il culo ai passeri.
    Nazione nata da una banda di outcast, vivono da 200 anni anni col mito del minute-man.

    Sono fighi per questo; sul mangiare, nella mia piccola esperienza devo ancora trovarlo un posto dove si mangi come in Italia. Forse il giappone, ma mangiare del pesce crudo a tutto spiano mi fa venire la cagarella al 3 giorno.

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    #2 by gea on April 12, 2010 - 10:03

    e poi, purtroppo, anche il pesce crudo rientra nella categoria di quelle cose che cerco di non mangiare troppo per via di quei moderni sistemi di pesca. La verità è che se inizi a porti delle domande diventa un casino maledetto, non riesci sostanzialmente più a mangiare nulla con serenità. A parte la pasta al pesto, ovviamente 🙂

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    #3 by nicolizzo on April 16, 2010 - 09:38

    o un’aragosta alla UNION OYSTER HOUSE di Boston….bollita senza nulla sopra….raramente goduto così tanto per del cibo….

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