soundtrack: Everything in its right place
Abbiamo iniziato a lavorare, con una massima in testa: “I soldi non è come li fai, è come li spendi”. Ogni ulteriore interpretazione è lasciata ai singoli (ma senza spingersi troppo in là con la fantasia). Intanto, per spianare la mia carriera e diventare presto la firma di punta del NYT, mi sono assicurata di rompere lo specchio del bagno stamattina. Mentre giravamo per il quartiere alla ricerca di uno nuovo ci siamo imbattuti in una signora preoccupatissima per gli anni di disgrazia che mi sarebbero piovuto addosso; costernata e animata, in un inglese stentato ma gentilissimo, mi ha spiegato che avrei potuto evitarli solo andando in casa e recitando la seguente formula magica: Miciomiciobaubaucasa. Queste esatte parole, dette da una libanese. Io ed Edo ci siamo guardati increduli, traducendo come due cretini per lei: cat cat, dog dog, house house. Ovviamente appena rientrati ho preso in braccio il gatto, Asfur, e ho ripetuto il mantra con massima convinzione. Non sia mai che funzioni.
Beirut mi piace, sempre di più. La mia fascinazione per i posti disordinati e ammonticchiati è portata all’estremo dai palazzi sventrati accostati alle case dei primi ‘900, quelli che valsero alla città il nome di Parigi del Medioriente. I libanesi cavalcano la nomea cercando di usarla da traino per riportare qui i turisti; ho il sospetto che in merito le statistiche ottimistiche distribuite dal ministero mentano, perché se ne vedono davvero pochini, forse tre o quattro finora. Ieri avremo fatto quindici chilometri a piedi, fermandoci a parlare qui e là con personaggi di ogni lignaggio; oggi abbiamo mangiato il miglior felafel della città lungo la green line, la strada che divideva la città in due negli anni della guerra; poi, in un baretto arabissimo Edo ha giocato a backgammon con un libanese, battendolo. Per i cinque minuti successivi abbiamo temuto che tornasse indietro con una pistola per regolare i conti, invece si è limitato a sparire, per non subire l’onta della sconfitta.
In casa l’elettricità salta tre ore al giorno e non si può buttare carta nel water, il che non è proprio simpaticissimo, ma dopo i bagni della Cambogia giuro che non mi impressiona più quasi nulla. Continuo a sperare di incontrare Robert Fisk per strada, e che con un semplice sguardo capisca che potrei diventare la migliore corrispondente che l’Ap abbia mai avuto. Per il momento incontro invece gli sguardi arabi, che non sono propriamente delicati. Ah, la frase del secolo è: War is oldfashioned. Ce l’ha detta un tizio assurdo che vive in una vecchia mercedes dotata di tutti i confort su la Corniche, il lungomare; anche questo temo non sia vero – qui si aspettano un nuovo attacco per settembre – ma di cose serie parleremo più in là.
#1 by momo on July 22, 2010 - 09:20
IMO il miglior felafel sta di fronte all’American University…
#2 by gea on July 22, 2010 - 09:33
A detta di libanese – e anche del mio palato, che però non è forse sufficientemente educato – è questo buchetto tra achrafiye, preciso sulla green line. Comunque anche ad hamra non deve essere male in effetti.
#3 by momo on July 22, 2010 - 09:43
voglio dire, alla fine e’ come andare a Napoli e mangiare la pizza – mi scusino i partenopei per il paragone azzardato
#4 by gea on July 22, 2010 - 09:56
hihiihi si io comunque cerco di limitarne il consumo; qua comunque si mangia discretamente bene, molta verdura, roba sana. Voglio dire, oltre al felafel.
#5 by momo on July 22, 2010 - 10:07
si? niente agnello, shawarma, shish tauk e intingoli vari? si ci stanno le insalate, ma non e’ proprio leggerissima sta cucina..
meglio cosi, buon divertimento!
#6 by maddy on July 22, 2010 - 14:21
ciao gea, tornerò a leggerti qui, ancora buon viaggio, mi pare che l’inizio ti sia riuscito più che bene:)