Atto primo
Mi son svegliata e l’occhio mi faceva male, più male della sera precedente. Ma ci ho messo un po’ a realizzarlo, perché nel frattempo mi faceva male anche un sacco di altra roba: la schiena, avendo dormito su un asse di legno con sopra un materasso spesso quattro centimetri; la gola, nonostante, incurante del ridicolo, mi fossi avvolta una sciarpa intorno al collo per averla vinta contro il bocchettone dell’aria condizionata posizionato a 30 centrimetri dal letto; le narici, perché a metà della notte di Chennai (come oggi si chiama Madras) dalle finestre aperte ha iniziato a salire quell’olezzo di discarica così frequente in India, mescolato a diesel non raffinato euro 1 e a frittura d’uova; l’apparato gastrointestinale, interessato da reazioni chimiche paragonabili alla fissione del nucleo grazie alla cena a base di chappati in salsa di fagioli gentilmente offerta dalla nostra ospite.
Tra una constatazione di indolenzimento e l’altra, ha fatto in tempo anche a salirmi la paranoia delle possibili pulci dentro alla coperta in cui avevo dovuto rifugiarmi a metà notte, sempre per via del famoso bocchettone del condizionatore (un’altra botta di animali pruriginosi e Cirri mi avrebbe preso per i fondelli pubblicamente per l’eternità, oltretutto).
Alla fine, insomma, e solo dopo aver declinato una generosa dose di riso piccante e spezie alle 8 della mattina, ho capito che la cosa peggiore era l’occhio, gonfio come una pallina da ping pong. Un orzaiolo, con ogni probabilità. “Mancanza di igiene”, ho letto su Internet tra le possibili cause: eppure, seppur in bagni indiani, appena trovo dell’acqua mi ci butto sotto.
Quando tre giorni dopo ho visto le scimmie giocare e sfregarsi col bucato appena fatto, asciugamani inclusi, tutto è parso più ovvio.
Atto secondo
Abbiamo comprato banane e biscotti e siamo salite su un autobus per Tiruvannamalai, città della montagna sacra, di ashram, di pellegrini, di spiritualità diffusa e permeante.
Fuori da Chennai, superate le discariche a cielo aperto e l’umanità abbandonata alla polvere e ai rifiuti, il paesaggio rigoglioso, puntellato di palme, mucche e scolaretti vestiti a tinte pastello, ispirava una quiete insolita per questa parte di mondo. L’autista del bus, ferraglia arrugginita vecchia probabilmente 40 anni e milioni di persone affondate nei sedili rotti, si è impegnato a spezzarla ogni 25 secondi circa, suonando il clacson con una violenza tale che ho dovuto mettere i tappi per le orecchie: anche così ne sono uscita frastornata, rimbambita dal rumore, dal caldo micidiale e dalla polvere sollevata dal carrozzone.
Atto terzo
Al terzo giorno l’occhio ha iniziato a farmi seriamente male, e né l’ascensione alle sei della mattina alla montagna sacra né l’energia ipnotica delle preghiere in uno degli ashram più noti d’India sono bastati a farmene dimenticare.
Chiaramente, il mio orzaiolo era poca cosa rispetto alla vastità delle situazioni di Tiruvannamalai: su Pradakshina road, la strada che cinge la montagna per 14 chilometri (e che andrebbe percorsa da ogni pellegrino) i saddhu vestiti d’arancione siedono tramortiti dal caldo, forse dalla fame, probabilmente dal divino, possibilmente qualcuno dall’oppio; gli occidentali girano vestiti di bianco inamidato, entrano ed escono dagli ashram e dai supermercatini che paiono assemblati apposta per loro, con le farfalle DeCecco e le spezie già pronte in busta; l’elefante ammaestrato è costretto a impersonare Ganesh e a benedire i fedeli con un buffetto della proboscide, previo incameramento nella stessa di qualche moneta di buon auspicio; le scimmie saltano fuori da ogni tettoia, pronte a rubare ogni cosa incustodita; le capre schiattano sotto al sole bollente legate su piastre di cemento da proprietari non esattamente sensibili al benessere di animali che non siano vacche; e al ristorante più frequentato del villaggio un italiano narra distrattamente di cobra soliti attraversare le stradine nei pressi (“No, è un po’ che non si vedono in giro, stanno nella boscaglia perché qui c’è troppo caldo”, risposta dei locali).
Il mio orzaiolo, però, faceva male ugualmente, a dispetto di mondi molto più complessi di me. E iniziavo a pensare che forse non fosse solo un orzaiolo.
Dopo aver valutato la soluzione ayurvedica fai da te, e aver scartato l’ipotesi di una farmacia locale, Cristina ha intuito che la soluzione migliore fosse il medico dell’ashram: chi meglio di colui attorno al quale ruota una comunità con centinaia di persone e relativi disagi?
Ci siamo messe alla ricerca del dispensario, sfinite dalle indicazioni degli indiani: un cenno del capo dall’alto verso il basso può voler dire destra, sinistra, vai dritto o non lo so, ma se anche fosse così non sarei intenzionato a fartelo sapere. Abbiamo girato a vuoto, chiesto a un americano, superato una casupola sormontata da un cartello e infine, scalze come d’obbligo, siamo entrate nel dispensario.
L’infermiera indiana scalza e in sari mi ha fatto scrivere su un foglio nome ed età, poi le ha riportate su un foglio a macchina: Gea, femmina, 37.
Poi mi ha fatto sedere in attesa del medico, che è arrivato quasi subito e del santone aveva poco e niente: alto, semplice, spiccio come il medico condotto d’un villaggio di gente che può veramente avere bisogno, m’ha guardato un nanosecondo e prescritto due farmaci, scrivendoli sul foglietto diligentemente compilato dall’infermiera.
Stavo ringraziando sentitamente chiedendo quale fosse la farmacia, quando ha tirato fuori due confezioncine di cartone spiegando che qui non si compra ma si distribuisce a chi ha bisogno.
E avrei potuto blaterare che il mio percorso spirituale è parecchio indietro, quindi più che gli antibiotici per occhi mi serve un distillato d’asharam, ma come al solito l’occhio mi faceva abbastanza male da condurmi velocemente al sodo: namasté namasté, e ora mettiamoci le gocce.
Più facile a dirsi che a farsi: la medicina cruciale deve essere stata confezionata da crudelissimi ingegneri brutalisti della DDR, e al posto del contagocce sinuosi di cui è provvisto qualsiasi collirio ha una specie di beccuccio rigido tipo caffettiera impossibile da utilizzare. Dopo svariati tentativi, e dopo che l’infermiera in sari ci aveva dimostrato con uno sforzo sovraumano che in fin dei conti non era poi così difficile far scendere le gocce, Cristina e io abbiamo optato per l’unica soluzione possibile: tagliare il dannato beccuccio.
Da allora, le gocce scendono quasi copiose. L’orzaiolo o quello che è, invece, non se n’è ancora andato.