Sono andata a vedere la mostra di Steve Mc Curry, in extremis: doveva chiudere il 31 gennaio e l’hanno prolungata due volte, vista l’affluenza sensazionale.
Basta un’occhiata d’insieme alla sala per capire perché: i colori fanno festa, mentre la profondità di sguardi ti inchioda alle pareti mentre passeggi tra una foto e l’altra. E non sei tu a guardare i soggetti ritratti: sono loro a guardare te. Non so quanto Mc Curry post produca le immagini – alcuni si lamentano, pare che lavori troppo sul colore – ma se è anche così poco importa. Il risultato complessivo è quello di un viaggio lunghissimo, che vorresti durasse di più.
C’era qualche scatto asiatico simile ai miei: la madre cambogiana col bambino, il piccolo per terra con gli occhioni sgranati, i bambini davanti a Angkor che si tuffano nelle pozze. Mi è venuto da sorridere: è bello sapere cosa ha provato il fotografo in quel momento lì, cosa c’era intorno, come profumava l’aria, quanto doveva aver camminato per arrivarci. Ti senti un po’ a casa tua guardando una foto fatta dall’altra parte del mondo.
E poi, come sempre, mi si è riaccesa la chimera del viaggio per il viaggio: farne uno stile di vita, al posto che uno strumento di lavoro. E’ un tarlo che mi lavora da mesi. Non so conciliarlo con tutto il resto ma non riesco nemmeno a mandarlo via, e questo qualcosa deve significare.