Beirut/Dispacci #3


Da due giorni Beirut è sovrastata da una cappa di smog e umidità che ingiallisce il paesaggio. Questa mattina alle sette e mezza, mentre raggiungevamo la fermata del bus che ci avrebbe portato a Jbail, quaranta chilometri a nord, mi sentivo già appiccicosa come se avessi fatto il bagno nella colla di pesce: un ottimo modo per presentarsi all’intervista con un promettente musicista alternowell, figlio di una dei più grandi compositori arabi (ma questo l’abbiamo capito una volta lì, vedendo le locadine del suo concerto alla Scala di Milano – ovviamente gli avevo già chiesto, Scusa, Kalif chi?).

I trasporti pubblici a Beirut si chiamano service e sono alternativamente vecchie auto scassone anni ’80 che ti tirano su in qualche parte della città e per duemila lire ti fanno fare un pezzo del tragitto insieme ad altra gente – sorvolo sull’odore di umanità all’interno dell’abitacolo – oppure minivan ancora più scassoni che fungono da bus e percorrono distanze extraurbane. L’autista del nostro bus – canotta bianca, pantolone corto con qualche wrestler disegnato sopra e sigaretta perennemente in bocca – ci ha fatto salire già in corsa, e ha prontamente confermato tutti i sospetti che avevamo macinato sulla guida mediorentiale: l’unica regola è che non esistono regole.  Qualsiasi segnalazione si realizza con il clacson: che si tratti di dire che si parte, si arriva, si gira o ci si immette su un’altra strada, nessuno si ferma, usa una freccia o almeno rallenta: basta suonare. Tra il rombo di vecchi motori che avrebbero bisogno di un po’ di manutenzione e i clacson pigiati senza soluzione di continuità, alle otto di mattina avresti già voglia di infilarti in una camera di decompressione.

A Jbail la casa del nostro ospite, per quanto ricco e famoso, non si discostava in alcuna maniera dai canoni estetici del paese: una colata di cemento con un giardino sostanzialmente di cemento, affacciata su una strada in cui il rumore talvolta sovrastava le nostre voci; quando costernato il giovine ci ha raccontato di quanto si vergogni per il McDonald’s che gli hanno appena costruito in zona, deturpando l’ambiente, ci siamo guardati trattenendo le risate.

Chiacchierata e shooting sono stati comunque gradevoli – sua madre ci ha offerto caffè e acqua di rose da sogno –  e il tizio ci ha gentilmente mollato nei pressi della spiaggia, dove mi sono rapidamente spogliata degli abiti civili e buttata in mare. Nuotata, abbrustolimento, pranzo in un baracchino e poi via su un altro minibus in direzione Beirut, per un altro lavoro – questa volta l’autista decideva arbitrariamente dove e quando fermarsi in base alle proprie esigenze: comprare acqua, fumare una sigaretta, inscenare gag con gli amici che fingevano di buttarsi sotto.

Sono arrivata al secondo appuntamento cotta dal sole; ho guardato Edoardo supplicandolo di fare prima le foto, che non riuscivo ad articolare una frase nemmeno per errore, e mentre lui studiava la location mi sono addormentata cinque minuti sulla terrazza di questi. L’intervista successiva non è stata splendida, ma nemmeno la peggiore che abbia mai fatto.

I prossimi giorni sono pieni di cose: altre foto e interviste, e poi i campi, il viaggio al confine con Israele, un altro nella Beqaa. Mi sto creando un’idea su questo paese, ma aspetto qualche giorno per esprimerla pubblicamente. In ogni caso vorrei scrivere a quelli dell’inserto di viaggi del NYT che a settimane alterne lo pompano come la meta perfetta per un week end da sogno e spiegare loro che non basta avere mangiato in un paio di locali chic di Gemayez per essere stati a Beirut.

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    #1 by marti on July 31, 2010 - 12:21

    ahah , che spasso (questi dispacci!)

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