Posts Tagged terra del fuoco

Patagonia Dispacci #7 e 1/2

Da quattro giorni non ho accesso a Internet o al telefono. Vivere senza wifi si può (almeno per un po’).

(Sì, questo diarietto è scritto offline e andrà sul web tutto insieme)

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Patagonia Dispacci #7

Conversazioni standard degli americani a bordo, tra un Martini cocktail e l’altro (dice il barista Leandro che i gringo li riconosci perché bevono solo Martini e Bloody Mary, azzannando Pringles come se fosse appena finita la guerra e avessero anni di carestie da recuperare). 

– What was the name of the place we were today?

– Neta

– Nittta?

– No, sir, Neta

– Meet ya?

– No, sir, it’s spanish: Neta

– Dee tha? Whatever. What time is lunch served?

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Patagonia Dispacci #6

E certo che una nave da crociera – per quanto piccola ed ecosostenibile e impegnata nella navigazione più avventurosa immaginabile per un mammut di acciaio da migliaia di tonnellate – non è troppo diversa da una caserma di maschi disperati: ho fatto l’errore di entrare una volta nella stanza di comando e di mettermi a chiacchierare con qualche sottufficiale e ora praticamente mi inseguono nei corridoi. Ogni volta ne spunta fuori uno nuovo che si sente in dovere di consigliarmi cosa mangiare o invitarmi a vedere qualcosa o di raccontarmi la storia dello Stretto di Magellano dal 1520 in poi, con ampie digressioni sul ruolo della propria famiglia di avventurieri nell’attuale configurazione della regione. Ieri il capitano in persona – una specie di Tom Cruise dei poveri immobile davanti al timone con le gambe larghe, i Ray Ban e un giacchetto di pelle nera che gli arriva appena in vita – mi ha mostrato come si fa il migliore caffè del mondo, direttamente sul ponte di comando. Ovviamente faceva schifo, ma a dirglielo rischiavo di  rovinare il gene del machismo che a queste latitudini (e alle nostre) da duemila anni fa andare avanti il mondo.

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La Patagonia Dispacci #5

Infine il vento si è affievolito, in corrispondenza del canale di Beagle: 30 nodi, una bazzecola rispetto agli 81 delle raffiche che qualche ora prima avevano spinto mezza fiancata sott’acqua. La nave fantasma è tornata a brulicare di vita e di appetiti: a ora di cena, americani e canadesi premevano contro la sala ristorante come gli ultras che si arrampicano sulle barriere allo stadio. 

Dopo essersi (esserci) abbondantemente rifocillati, il personale di bordo ha fatto scattare il karaoke nel bar in cui qualche indomito inglese aveva continuato a sorseggiare whiskey incurante della tempesta. E si sa, al karaoke io non posso resistere, tantomeno dopo ore di penitenza sul letto della cabina. Mentre gli altri si chiedevano se fossero sufficientemente intonati per intrattenere un pubblico – domanda superfluea per me: mi hanno cacciato da un bar di Beirut tanto ero patetica nell’esecuzione sbronza di Time after time – avevo già in microfono in mano per il primo pezzo: It’s been a hard days night, and I have been walking like a dooooog (non ringrazieremo mai abbastanza i Beatles, ricordarlo sempre).

Mentre gli altri si scaldavano, ho buttato lì anche Like a prayer e nel dimenarmi goffamente un’epifania mi ha colto mostrandomi il talento intramontabile della Ciccone (nonché i muscoli che ha sulle braccia mentre simula la crocifissione: non possono essere umani). Finché una canadese sui 60 anni che avevo osservato tutto il giorno per uno strepitoso cappello a forma di maiale degno della Cani e Porci’s League degli anni migliori si è esibita in un remake di Edith Piaf, col marito che affondato in un bicchiere di gin tonic le gridava Ti prego, non farlo. E’ bastato questo per farmela applaudire con insana convinzione, e al termine del suo giro è venuta a propormi un duo: gli Eurythmics. A questo punto la gente e lo staff ci guardavano già col terrore negli occhi, più o meno supplicando chiunque altro in sala di prendere in mano il microfono al posto nostro. Un paio di ragazzi dello staff, barista incluso, sono stati gettati in pasto ai pesci, producendosi in improbabili ballad pop sudamericane alla melassa che, diciamocelo chiaro, sarebbe da toglierli il diritto di espressione della Costituzione finché fan ‘sta roba. 

In ogni caso io e la canadese col cappello a forma di maiale ci siamo impossessate della scena e abbiamo prima cantato una stupefacente Sweet Dreams – io facevo cori e tappeti, oltre alle mie parti cantate – e poi I gotta a feeling, e a questo punto la canadese era ingestibile e oltre a saltare sul posto come in una lezione di educazione fisica ha iniziato a suggerire che saltassimo giù dal divano (Jump off the sofa) del bar salone. 

Vi dico solo che  è finita con lei che gridava Viva l’Italia e io che che rispondevo Quebec libre! Lei, quantomeno, poteva addurre come attenuante l’aver bevuto. 

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Patagonia Dispacci #3

Di che religione siete?
Stamattina non sono di nessuna religione. Il mio Dio è il Dio dei viandanti. Se si cammina con abbastanza energia, probabilmente non si ha bisogno di nessun altro Dio.

(Bruce Chatwin, In Patagonia)

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Patagonia Dispacci #2

Sveglia alle 6.00, per essere pronti allo sbarco sul Cabo de Horn per le 7, appena in tempo per il sorgere del sole, una manciata di minuti dopo. E sarà stata l’emozione, o sarà che a bordo non ci sono né internet né telefoni, lasciandomi per la prima volta in dieci anni davvero sola con me stessa e con la natura, ma ero carica di energia come se non avessi attraversato tre continenti in 10 giorni.

Fuoricoperta il vento tagliava la faccia e in testa piovevano goccioloni, anche se non era chiaro se arrivassero dai  nuvoloni sopra la testa o se fossero trascinati fin qui dal furioso mare di Drake. Se il cielo non fosse stato così coperto questa sarebbe stata l’alba più emozionante di una vita intera – più giù di qua c’è solo il ghiaccio vecchio di millenni. 

Sul Capo non c’è nulla, a parte il faro e un monumento ai caduti in mare piazzato proprio sulla punta, tra l’Atlantico e il Pacifico. Quando i cileni l’hanno posato, impiegando un mese, nel 1992, avevano studiato che fosse in grado di resistere a venti fino a 200 chilometri orari; il mese scoso, una folata se ne è portato via metà. Il guardiano del faro ci ha aperto casa sua, e la nostra pattuglia di giornalisti era pronta a costringelo a raccontarci il miracolo (o il supplizio) della vita alla fine del mondo, quando il capitano della nave ci ha richiamato a bordo con massima urgenza. Abbiamo tardato comunque, facendo arrabbiare l’equipaggio. Ma se anche avessimo fatto prima probabilmente non saremmo scappati alla furia del vento a 80 nodi e delle onde alte sei metri.

Ho passato la giornata sdraiata in cabina, senza neppure riuscire a leggere e senza tentare di alzarmi: lo so com’è il mare, quando s’intestardisce a comandare lui. Mi è tornata in mente quella notte in rada a Porto Vecchio, in Corsica, quando la Happiness sbatteva come un uovo nella centrifuga e io son scivolata in dinette tagliandomi il mento: mio fratello ha dovuto passare la notte a tenermi appiccicati i due lembi, perché non si poteva sbarcare per metterci dei punti. 

Bloccata nella cabina di questa imbarcazione, a ben altra latitudine, guardavo ipnotizzata le onde alzarsi e schiacciarsi ostinatamente contro il mio oblò, largo quanto il letto, come a schiaffeggiarlo rumorosamente. La potenza del mare è la cosa che più d’ogni altra mi mette in contatto con la vita senza i sovrappiù di cui l’abbiamo riempita. Incluso le tonnellate di cibo che, in quello stesso momento, i miei compagni di viaggio stavano restituendo al mare piegati sulle tazze del water.  

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