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Il lockdown e il telefono
Posted by gea in gea and the city on April 16, 2020
Mi sono ripromessa di usare questo lockdown per diventare una persona migliore, ma al telefono proprio non ho voglia di rispondere. Anche se sono amici.
Lo so, sembra un dettaglio, e invece non lo è affatto.
La mia allergia al telefono si fa più accentuata ogni giorno, a talvolta quasi sfiora il ridicolo.
Passo le giornate a desiderare il momento in cui potrò spegnere il cellulare (normalmente, tra le nove e le dieci di sera), e nel frattempo quando squilla smoccolo tra me e me pensando a una scusa; rispondo a una telefonata su tre, a volte schiacciando rifiuta e inviando contestualmente un vocale (dunque tradendo un’ipotetica giustificazione: «Perdonami, non ho visto la chiamata»).
Lo faccio perché provo a essere sincera, a spiegare agli amici per quale ragione non mi va di passare mezz’ora a parlare di nulla, o perché non mi va in quel momento lì: perché vorrei invece leggere, o fare yoga, o cucinare, o pulire il bagno. O anche niente. Perché, semplicemente, sono stanca di occupare una parte rilevante della mia capacità cerebrale e dell’energia che mi è data nella chiacchiera fàtica (quanto ho sempre adorato che si chiamasse così una delle cose che mi costa più fatìca al mondo), e perché, pur avendo provato a organizzare al meglio possibile la mia vita, tutti i giorni arrivo a sera e mi è mancato il tempo di fare qualcosa.
Va poi anche detto che non è che mi interessi esattamente moltissimo di sentire quotidiane lamentele sul lockdown, sul lavoro che non c’è o su quanto stiamo mangiando: lo so già, lo vivo, lo vedo ogni volta che apro Twitter, Facebook, la televisione. Infatti, preferisco prendere un libro e immergermi in cose e mondi che non conosco, classici che mi sono rimasti indietro, che possano magari darmi stimoli per il futuro o farmi comprendere meglio il presente: ho letto I promessi sposi perché volevo capire come Manzoni descrivesse la peste a Milano quattrocento anni fa, e devo dire che l’ho trovato un documento storico molto interessante (nonché un romanzo pedagogico invecchiato maluccio).
Ma non è che voglia uscirne come una persona migliore di quella che sono: sono anni che mi succede, anche da molto prima che iniziasse questa bulimia di contatti mediati dalla tecnologia. Spesso semplicemente mi annoio a parlare, non ho nulla da dire di significativo e non ho voglia né di raccontare mie banalità né di ascoltare quelle altrui, anche se voglio un gran bene a chi chiama.
A mia parziale discolpa, posso dire che se che qualcuno vuole davvero raccontarmi qualcosa, o non lo sento da tempo, o ha bisogno di parlare, allora rispondo con gioia, ci sono con felicità, richiamo, scrivo, mi faccio viva.
Ecco, tutto per dire che in definitiva questa storia del telefono è davvero uno specchio di questi tempi troppo pieni anche quando sembrano vuoti, della necessità di dismettere la bulimia con cui affrontiamo la vita. E non riesco a sentirmi in colpa: avevo programmato di dedicare il 2020 a sfrondare, a dedicarmi con più intensità a quello che mi fa stare bene e mi piace. È toccato iniziare dal telefono, e tutto sommato mi sembra un ottimo modo per fare pulizia.