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Rio/Dispacci #11
Posted by gea in Dispacci, gea and the city, musica, personaggi, viaggi on April 13, 2014
Subtitle: Dov’è il Grande Gatsby?
Per non finire incasellati nello stereotipo “giornalisti europei che passano le loro giornate in favela”, rischio peraltro abbastanza recondito, ieri abbiamo accettato l’invito a un pool party ; meglio a una festa in piscina in magione coloniale circondata da foresta semi tropicale di proprietà di francesi – che l’avranno comprata per noccioline dieci anni fa – a due passi da casa nostra (due passi che ho percorso scalza, tanto per precisare).
Orario di inizio della festa fissato alle 14, ci siamo presentati alle 17: gli unici vestiti bene – anzi: vestiti tout court – dell’intero party. Ed è stato chiaro che non era il solito pacco quando hanno chiuso gli accessi dietro di noi, lasciando fuori stormi di americani calamitati dal loro habitat naturale: donne (ma anche uomini) con un filo tra le chiappe, petti depilati, ciambelloni di gomma in acqua, lattine di birre a bordo piscina. In altre parole: un video di 50 cents nel cuore di Rio.
Ci siamo avvicinati al bancone del bar senza indugi: Prendiamo due cahipirinha? No, facciamo subito quattro, dai. Perché lesinare, in effetti.
Poi in realtà ci è voluta mezz’ora solo per avere le prime due, che si è pur sempre a Rio, e il banchetto del bar era organizzato con sette persone: due a fare i cocktail, due a prendere gli ordini, tre a fare niente. In compenso la cahipirinha non era inserita tra i cocktail bensì tra le bebida insieme con la coca cola e il guaranà: una specie di dissetante naturale, insomma, come fosse acqua.
Alle 18.33, due bicchieroni di cachaca e lime dopo, ho estratto il telefono dal borsa convinta che fosse mezzanotte: ho guardato Gabri incredula, mentre ogni tipo di cicaleccio usciva dalla piscina e orde di ventenni limonavano durissimo in geometrie variabili (uomo-donna-uomo; uomo-donna-donna; donna-uomo-uomo). O ne beviamo subito un’altra o ci lanciamo anche noi in acqua…
Così, alle 18.40, vagamente alticci, sprezzanti dell’ultimo Tachiflu assunto a ora di pranzo e con un mio piede sanguinante – 24 ore dopo non mi è ancora chiaro cosa ho pestato per bucarmi il tallone, e probabilmente è meglio così – ci siamo tuffati in mezzo a stormi di ragazzetti, qualcuno con la metà esatta dei nostri anni, disinibiti ai confini della molestia.
Accanto a noi liceali in perizoma agitavano le chiappe scatenando tempeste ormonali, mentre la comunità omosessuale, in tanga e catenazze d’oro, squittiva sotto al dj.
Alle 20, quando secondo il nostro fuso orario dovevano essere ormai le 2 della mattina, è comparso il primo topless: vietatissimo qui, dove il moralismo impone la regola “anche una striscina, purché tappi il buco”.
Siamo andati a brindarci sopra con una terza cahipirinha, una sorta di bomba atomica di cachaca. Alle 21 un tizio interamente nudo e con un cappello in testa ha iniziato a girare tra la gente, intrattenendosi a chiacchierare qui e li come se fosse in smoking.
Un altro tale nel frattempo mi aveva detto che quell’enormità di casa non era di proprietà del Grande Gatsby, bensì di due francesi. E a furia di guardarsi intorno Gabri era convinto di averli trovati: Guarda sono quei due sicuro, hanno proprio la faccia da francesi e poi sono come noi, gli unici un po’ più vecchi e diversi dagli altri.
Erano così diversi che il tizio, ovviamente un brasiliano, ovviamente assolutamente non il proprietario di casa, in piedi su un lettino in stile Rimini ha insistito a tutti i costi che facessimo un selfie e che glielo inviassi dal mio telefono, benché ne avesse fatto uno uguale anche lui (si sospetta che volesse avere i miei contatti per qualche giro losco, infatti mi ha già spedito una mail per sincerarsi di quanto stiamo a Rio).
Alla fine, quando anche la 18enne con le mutande bianche bordate di pizzo e un culo che nemmeno se lo avesse scolpito il Canova era sparita dalla vista, ci siamo levati di torno pure noi, con addosso il peso di una nottata brava importante. Erano le 22.
Rio/ Dispacci #2
Così, dopo aver passato la mattina a fare foto ai turisti che fanno foto al Cristo sul Corcovado e il pomeriggio a fare foto con un drone su Ipanema, ieri sera ci siamo buttati via al Plataforma, un posto di samba e capoeira che negli anni 70 certamente deve aver fatto la sua fortuna, ma per evitare il fallimento oggi raccoglie turisti dell’Est Europa e del Sud del mondo incanalati da tour operator scadenti.
Odore di muffa e stantìo, cahipirinhe calde (calde, sì) e carta da parati penzolante facevano da contorno a uno spettacolo in cui anche i migliori sembravano scimmiette ammaestrate nell’attesa del colpo grosso, qualcosa tipo il nano mirabolante o la donna cannone. E invece, due ore di ballerine di samba con le calze, per di più rotte, dopo, il colpo grosso si è presentato sotto forma di un pasciuto intrattenitore, con uno frack liso rosso e nel taschino due parole in ogni lingua, arrivato infine a salutare il pubblico in ceco, russo, bulgaro, ucraino. E quando è toccato all’italiano, con uno scatto da anguille Gabri, Edo e io siamo corsi verso il palco – esiste un video, ma lotterò per tenerlo segreto – a cantare Volare, più freak dei freak, con tanto di ombrellino alla Fred Astaire che Gabri ha recuperato non so dove nel tragitto tra le poltroncine di legno e il palco.
Penso che alla fine ci abbiano persino gridato Bravo, ma forse me lo sto inventando: trance da palcoscenico. E cahipirinha calda.
Rio / Dispacci # 1
All’aeroporto di Rio nessuno sembra essersi accorto che fra due mesi iniziano i mondiali e milioni di persone si riverseranno nella stanzetta col lineoleum consumato, sei sportelli di numero a fare il controllo passaporti e i doganieri che parlano tra di loro mentre stampano il foglio di ingresso.
A prima vista fiumi di parole sui massicci investimenti infrastrutturali per accogliere i visitatori paiono soltanto un’operazione per rassicurare noi ansiosi occidentali (e magari affidare qualche appalto).
Gli unici operai che ho visto al lavoro – ma sono appena arrivata – sono quelli che stamane alle sei hanno iniziato a trivellare fuori dalla mia finestra. Mi sono sporta a guardare rintronata dall’umidità e dal jet lag. Erano in sette: sei fermi immobile a chiacchierare e uno dietro alla macchina. Ahì Sudamerica.