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Ho un debito con la primavera | Spring and I

Ho un debito con la primavera, o forse è lei che vuole qualcosa da me. 
Abbiamo un rapporto intimo, carnale, quasi ossessivo: speranza, appartenenza, rifiuto. Come due ex amanti.

Questa è la seconda primavera che passo in isolamento: oggi è il coronavirus; l’anno scorso un incidente. 

Ero sotto a un respiratore, l’anno scorso, uno di quelli che ti salvano la vita quando i tuoi polmoni non funzionano più, quelli che oggi scarseggiano e vengono rimpiazzati dalla maschere da snorkeling di Decathlon grazie al genio di un gruppo di ingegneri. 

Lo so come si sta sotto a quel casco, me lo ricordo bene. Me lo ricordo anche se stavo prendendo svariati grammi di morfina al giorno e un cocktail di altri farmaci sufficienti a stendere un cavallo. C’è caldo e c’è un rumore infernale, lì sotto. E pesa, il casco, è difficile indossarlo, specie se hai tutte le ossa del corpo rotte come ce le avevo io l’anno scorso. E devi essere bravo, non lasciare mai che la paura che hai da qualche parte, addormentata dai sedativi, si svegli e ti chieda che diavolo ci fai con una cosa da astronauta in testa, che ti immobilizza, che ti spara aria addosso, da cui sai di non poterti liberare. 

L’anno scorso mi hanno liberato il 25 aprile. Mi hanno mandato a casa e con mio fratello abbiamo sorriso della mia nuova festa della liberazione. Poi i sorrisi sono finiti, perché è iniziato il lungo periodo in cui non ero più in ospedale ma ancora non stavo bene, e vedevo scorrere i giorni e le settimane, sentivo la primavera palpitare fuori dal vetro della cameretta in cui stavo rinchiusa, e sapevo di non poterla vivere.

Ci ho messo un paio di mesi l’anno scorso, a rimettermi in piedi. E quasi quattro per stare decentemente: 18 costole e una clavicola rotta, due polmoni collassati, un orecchio riattaccato e punti ovunque ti segnano a lungo. 

Avevo messo in programma una festa, in questi giorni, per celebrare l’anniversario dell’incidente, la vita che mi sono tenuta stretta, l’amore degli amici che mi ha curato più dei farmaci.
Il coronavirus la impedirà: ci sta tenendo in casa, confinati, in rapporti scarnificati e al contempo sovrabbondanti, inondati di chat e dirette instagram, di paure nuove e di congetture su come sarà il mondo prossimo futuro. 

Compivo 40 anni il 23 febbraio, il giorno in cui l’emergenza è scoppiata e si è deciso che avrebbero chiuso Milano. È passato un mese e una settimana, è arrivata la primavera, la sento che profuma sul balcone e corteggia le piante: si sta svegliando la mia gerbera, che precisa come un orologio a cucù ogni inverno se ne va in letargo ma ogni marzo, a dispetto del gelo dell’inverno e delle mie cure non sempre sufficienti, si stropiccia un po’ per poi alzarsi eretta e splendente. 

È arrivata un’altra primavera e non la vedrò: questa volta saremo in tanti a non vederla. Quando ci libereranno, forse, sarà quasi estate. 

E io penso che ho un conto sospeso con la primavera, con la gioia che mi dà attenderla, viverla, lasciare che mi entri dentro e mi scuota, risvegli i miei sensi e scacci via la pigrizia; ho un conto in sospeso con il desiderio di musica e parchi e di primo sole, con le birrette bevute in terrazzo quando le giornate si allungano nella sera, e la luce oscura il telegiornale e il rito dei televisori che si accendono all’unisono.

Ho un conto sospeso con la primavera, ma va bene così. Mi piace anche sapere che abbiamo una relazione speciale, noi due.

I owe to the Spring, or maybe she wants something from me. 
We have an intimate, carnal, almost obsessive relationship: hope, belonging, rejection. Like two former lovers.
This is the second spring I spend in isolation: today is the coronavirus; last year it was an accident. 

I was under a respirator last year, one of those helmets that save your life when your lungs don’t work anymore, those so scarce today, so hard to find that they were partially replaced by Decathlon snorkeling-masks, thanks to the genius of a group of engineers. 

I know how it feels to be under that helmet, I remember it well. I remember it even though back then I was taking several grams of morphine a day and a cocktail of other drugs strong enough to knock out a horse. It’s hot and it’s noisy as hell down there. And the helmet is heavy, it’s hard to sustain, especially with every bone in your body broken like mine last year. And you have to be good, you never can let the fear that you buried somewhere, thanks to the sedatives, wake up and ask you what the hell you’re doing with an astronaut thing on your head that immobilizes you, that shoots air at you, that you know you can’t get rid of. 

Last year I was released on April 25th. They sent me home and my brother and I smiled at my new liberation day. Then the smiles ended, because we entered the days when I was no longer in the hospital but I was still very ill, and I could see the days and weeks go by, I could feel the spring beating outside the glass of the bedroom where I was locked up, and I knew I couldn’t live it.

It took me a couple of months last year to get back on my feet. And almost four to recover almost entirely: 18 ribs and a broken collarbone, two collapsed lungs, one ear cut off and stitches everywhere leave their mark. 

I had planned a party to celebrate the anniversary of the accident, the life I’ve been holding on to, the love of friends who treated me more than drugs. 

The coronavirus will prevent it: it’s keeping us at home, confined, in bare and at the same time superabundant relationships, flooded with chat and direct instagram, with new fears and conjectures about what the world will be like in the near future. 

I turned 40 on February 23, the day the emergency broke out and it was decided to quarantine Milan and Lombardy. A month and a week has passed, spring has arrived, I can feel it perfuming on the balcony and courting the plants. My gerbera is waking up: precise as a cuckoo clock, every winter she goes into hibernation, but every March, in spite of the winter frost and my feeble carecare, it crumples a little and then gets up erect and shining. 

Another spring has come and I won’t see it: this time there will be many of us who won’t see it. And when we’ll finally regain something similar to freedom – – but just similar – perhaps, it will be almost summer. 

And I think that I have an unfinished business with spring, with the joy I feel waiting for it, with its ability to pervade and shake me, to awaken my senses and drive away my laziness. I have an unfinished business with the desire for music and parks and the first sun, with the beers on the terrace when the days get longer in the evening, and the light obscures the news and the rite of the televisions turning on. 

I have a score to settle with spring, but that’s okay. I also like knowing that we have a special relationship, the two of us.

 

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Darsena ed Expo, cronistoria fotografica

Da quasi dieci anni vivo sopra la Darsena, a Milano: se mi affaccio alla finestra della stanza vedo tutto il panorama del quartiere, da piazza XXIV Maggio a piazza Cadore.
All’inizio trascorrevo lunghe mezz’ore a guardare fuori dal vetro, anche se quello che fu nel suo momento di splendore il terzo porto per movimentazioni merci del Nord Italia (dopo Genova e Venezia) era già in uno stato di avanzatissimo abbandono.
Ai tempi del mio arrivo in via Vigevano la Darsena era ridotta a uno stagno casuale, formatosi per il residuo delle piogge, nel quale avevano traslocato un certo numero di nutrie e una serie di uccelli tipo anatre – dico tipo perché non è che fosse il laghetto di Central Park, con specie da curare: più facile che si trattasse di qualche piccione transgenico – nascosti tra giunchi ed erbacce. Un inverno vennero a trovarmi amici spagnoli e passarono metà del tempo a raccontare di quanto fosse sorprendente la natura fuori dalla mia finestra: ma si capisce, la bolla economica aveva già fatto esplodere Madrid e il ritorno al pauperismo naturalista sembrava quasi un rifugio obbligato.
In realtà anche così malconcia la Darsena aveva un suo fascino, anche se non tale da oscurare il sollievo quando, a Expo assegnato, annunciarono che l’avrebbero risistemata.
Per i cinque anni successivi ho atteso un segno, chessò, un progetto da guardare, qualche cartellone affisso vicino a casa, magari persino l’inizio dei lavori: nulla di nulla. Di sera gli adolescenti continuavano a lanciare dentro le lattine di birra vuote (quando non rottami di scooter); gli ubriachi si sporgevano fuori dalla balaustra per fare la pipì e quelli che speravano nell’apprezzamento del mercato immobiliare potevano solo continuare a sperare.
Infine, l’anno scorso, meno sedici mesi all’inaugurazione dell’Expo, un pomeriggio è successo tutto: gli operai sono arrivati, hanno bloccato la circolazione del quartiere, circondato tutta l’area di paratie oltre le quali fosse impossibile sbirciare, annunciato che per mesi qualche strada nei pressi sarebbe stata chiusa “causa lavori” e poi se ne sono andati, lasciando in dono le immagini della stupenda Darsena che sarebbe diventata.
Io stavo partendo per il Brasile e per un fugace istante mi sono illusa: «Che fortuna essere via proprio quando devono trivellare e fare casino». Ma 40 giorni dopo, al mio ritorno, non era successo assolutamente nulla.
Ho iniziato ad andare e venire da Milano frequentemente, e ogni volta che rientravo in casa la prima cosa che facevo era guardare in giù, verso la Darsena, per verificare l’avanzamento del cantiere: da sotto, al livello della strada, era impossibile, ma da quassù si poteva capire come andavano le cose. O, meglio, come non andavano le cose.
Così, ho iniziato a scattare foto e a condividerle sui social. La prima è stata questa:

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(per vederle tutte, andate su @geascanca su Twitter o @bellagea su Instagram).

Son passati i mesi e la situazione non è cambiata granché: almeno non apparentemente. Nel frattempo è venuto fuori il pasticciaccio delle infiltrazioni ‘ndranghetiste e anche il cantiere della Darsena è risultato essere inguaiato, finché non lo hanno dovuto commissariare. Tuttavia, almeno a vederlo dall’alto, tra il pre-commissariamento e il post-commissariamento cambiava solo il numero delle piramidi di sassi abbandonate in mezzo allo spiazzo, nonché la posta sulle scommesse sulla possibilità di finire davvero l’opera: ça va sans dire, se fosse stata terminata il fortunato scommettitore avrebbe incassato una fortuna, giacché gli ottimisti non sono mai stati molti.
A tre mesi dall’inaugurazione dell’Expo, ossia il 5 febbraio, a guardare fuori dalla finestra il panorama era il seguente: capirete perché il banco pagasse altissimo la chiusura lavori.

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Poi, però, è successa una cosa strana.
Due sabati fa, il 24 marzo, ero in partenza per la Toscana e, nonostante fossi di pessimo umore, mi sono ricordata di scattare la consueta foto di aggiornamento. Quel giorno, anzi, ne ho fatte due, la seconda da una prospettiva diversa, mentre camminavo verso la macchina.

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Esattamente cinque giorni dopo ero a cena ad Arezzo da un amico che ha seguito il mio cronoreportage sulla Darsena. «Incredibile, ho visto che hanno finito i lavori», ha buttato lì mentre sbocconcellavamo l’insalata. «Macché, figurati», ho risposto scettica, mostrando gli ultimi scatti sul telefono. «Ma allora questa cos’è?», ha chiesto perplesso, aprendo a sua volta la foto qui sotto. L’aveva postata un’amica comune, su Instagram: piena di filtri sì, inusitatamente romantica certo, ma indubitabilmente immortalava quello che centoventi ore prima, minuto più minuto meno, ancora era – e appariva – impossibile da credere.

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Non ho saputo rispondere, se non alzando le spalle e invocando il consueto miracolo italiano. Ma ho fatto fatica a credere alla fine degli lavori finché non sono rientrata a Milano.
Mi sono precipitata alla finestra appena entrata in casa: certo, senza il tramonto, i filtri e i cirri nel cielo il paesaggio era un po’ meno Sturm Und Drang, ma la Darsena era quasi finita. Mancavano i contorni, ma c’era l’acqua ed erano sparite le tonnellate di detriti.

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Mi sono chiesta come avessero fatto, anzi, ne ho anche diffusamente parlato con alcuni amici e scherzando abbiamo buttato lì l’ipotesi che avessero semplicemente aperto i rubinetti, versando l’acqua sopra a tutto il resto (non è andata così, certamente. Spero).
Poi oggi al tigì ho sentito che è stato un intenso week end di giri perlustrativi al cantiere principale dell’Expo: sabato è andato il sindaco Pisapia, che si è detto ottimista sulla possibilità di finire quasi tutti i lavori prima dell’inaugurazione, e ieri è andato Cantone, che invece non si è espresso.
In coda al servizio, il cronista ha spiegato anche che da oggi in poi il sito sarà chiuso ai giornalisti: in questi ultimi 23 giorni nessuno potrà entrare a vedere come procedono i lavori. Per sapere bisognerà aspettare il giorno dell’inaugurazione, il 1 maggio.
Mi è balenato il sospetto che forse l’idea che abbiano semplicemente riempito la Darsena nottetempo, mentre nessuno vedeva, non è poi così bislacca. Magari faranno lo stesso col sito principale: monteranno le cose in modo da coprire quelle non finite. Una specie di cantiere nel cantiere, fuori perfetto, dentro sottosopra. Senza che nessuno controlli e possa segnalarlo.
Ma sicuramente mi sbaglio su tutta la linea.

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