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Undressed, l’ecstasy della tivù

E così adesso c’è una casa. Fate finta che non sia passato un anno tra l’ultimo post e questo, un anno, sei mesi in un bilocale imprestato, tre in un circa monolocale che se fosse arrivato un giorno Salvini avrebbe subito invocato le ruspe scambiandolo per un campo rom, e parecchie notti qui e là.
Tirate una linea dritta che scavalchi appartamenti e mesi e mi avrete sul divano grigio – Ikea in via di estinzione, m’ha detto il commesso consigliandomi di comprare più fodere prima che escano di produzione: se ne vanno sempre i migliori – in questo delizioso sottotetto, di fronte alla tivù.
Ho comprato una televisione, sì: una smart tivù, per l’esattezza, di quelle che mentre guardi le partite – se hai capito come si fa – potresti anche schiacciare il pulsante e beccare gli speciali multimediali della Rai. Noi no, però. Noi la teniamo accesa come una specie di totem: le giriamo intorno come le scimmie di 2001, Odissea nello spazio, giochiamo con  il telecomando, fissiamo le immagini con genuina curiosità.
Non che sia la mia prima tivù, per essere onesti. Qualche anno fa avevo investito un centinaio d’euro in un modello da discount, che infatti si è rotto prontamente: negli ultimi due traslochi mi son portata dietro il catafalco solo perché non avevo ancora focalizzato dove buttarlo.
Questa funziona, invece, e prende una montagna di canali che devono essere nati nel frattempo, nell’era geologica in cui per noi c’era solo La7 in streaming: per esempio l’8 e il 9.
Ieri, saranno state le 23, stavamo facendo zapping come in una specie di incursione sociologica in mondi sconosciuti, e siamo finiti proprio sul Nove. Stavano presentando un programma nuovo, Undressed: grafica minimal e molto glam, set a costo zero, nessun presentatore e nemmeno voce in campo. Solo due tizi in un letto.
Dapprincipio non riuscivamo a crederci.
Il programma funziona così: due che non si conoscono si incontrano davanti a un letto. Si presentano brevemente, diciamo in un minuto e mezzo. Poi, seguendo le indicazioni su uno schermo dietro di loro, iniziano a spogliarsi. Lui sveste lei; lei sveste lui. Alla fine restano in mutande, uno di fronte all’altro. A questo punto devono infilarsi sotto alle lenzuola, ma a favore di telecamere – più sopra le lenzuola che sotto, in effetti – e iniziano a fare dei giochi. Attraverso lo schermo la produzione dà le indicazioni: guardatevi negli occhi per 30 secondi, fate qualcosa per rilassarvi, mangiate insieme il cornetto che trovate a fianco del letto, baciatevi. Nel frattempo, con intervalli da reality, ciascuno dei due viene ripreso mentre commenta l’altro: fisicamente mi piace, ha un viso dolce, sessualmente mi attizza e banalità discorrendo. Alla fine di tutto – cinque minuti per chi guarda, più o meno, ma potrei sbagliare: ero sconvolta – devono dire se vogliono fermarsi nel letto seminudi con l’altro o meno; e si immagina non a leggere La critica della ragion pura.
Non è poi nemmeno che ci sia bisogno di immaginarlo: tutto è esplicito, dichiarato, routinario. Gente che va in televisione, spoglia uno che non ha mai visto, si fa leccare davanti alle telecamere, decide pubblicamente di restare nel letto per fare sesso, o almeno per far pensare che lo farà.
Mentre correggevo a voce alta i tempi verbali di questi mentecatti – probabilmente il mio modo inconsapevole di riportare la visione a una realtà dalle categorie per me intelligibili – mi sono chiesta prima se questi non si vergognassero: domani torneranno sul posto di lavoro, i colleghi li riconosceranno, i loro genitori li avranno visti, possibile che uno non si faccia due domande prima di farsi cospargere di panna davanti a un obiettivo?
Poi sono chiesta se mio nipotino di dieci anni avesse mai visto il programma, se rischi di vederlo – ovviamente sì – e che effetti avrà questa roba su di lui e sulla sua generazione. Una volta buttato giù il muro che separa l’intimità dalla pubblicità, trasformato l’esibizionismo in mercato, azzerata la capacità di distinguere e apprezzare – gli incontri, il sesso, la scoperta – come si muoveranno questi ragazzini nel mondo? Che confini e limiti si daranno e riconosceranno? Che senso dell’adeguato, del bello, della scoperta?
Infine, e soprattutto, ho pensato alla Magnolia – la società che produce lo show – e alle responsabilità che ha nel proporre cose di questo genere. Chissà se qualcuno, tra gli autori convinti di aver avuto l’idea del secolo – hey capo, costo zero e se lo guardano tutti! –  ci avrà pensato a cosa sta mettendo in giro; se capisca di essere, concedete il paragone forte, un po’ come gli spacciatori che vendono ecstasi tagliata male, di quella che magari si rischia moltissimo per mezza pasticca.
Qui non si muore; non letteralmente, certo. Ma è del tutto evidente che muore una certa consapevolezza, che si anestetizzano il senso del limite, della decenza, dell’etica. E non ci si può appellare alla presunta libertà, di mercato, del pensiero e dei gusti: perché la libertà finisce nella sproporzione delle posizioni dominanti, e gli effetti del medium tivù in 60 anni di evoluzione sono certificati. Dubito che il signor Magnolia, che con gli effetti della televisione si è riempito il portafoglio, non lo sappia.
E, insomma, mi sono chiesta se il garante abbia fatto un esposto, se qualcuno avesse parlato di Undresses sui giornali, e non come fenomeno di costume, che è sempre un metodo facile per lavarsi la coscienza.
Non ho trovato nulla, e mi è venuta in mente Rehab, la canzone di Amy Winehouse: dovremmo andare a farci curare, and we say no, no, no.

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