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Appunti per un giornale che non c’è

Sono convinta, convintissima, che sarebbe il momento perfetto per fondare un nuovo giornale. Un giornale di carta, oltretutto (non solo, ma anche).

Conosco perfettamente i dati di vendita, quelle sulle abitudini di lettura, il costo di stampa e distribuzione, eccetera; non mi sfugge nemmeno che molti esperimenti recenti – incluso qualcuno al quale ho partecipato, come Pagina99 – siano finiti male.

Il momento è comunque perfetto.

Esiste una fetta enorme di popolazione (di sinistra) che non ha un giornale di riferimento, e con giornale di riferimento non intendo vicino a qualche partito. Parlo dei valori: quelli tradizionalmente appartenenti alla sinistra — non per forza alla militanza dura e pura, ma certamente a un afflato di fondo: la vicinanza ai più deboli, la difesa del lavoro sul capitale, l’importanza della cultura e della scuola, l’internazionalismo, i diritti civili, l’antimilitarismo, eccetera — che forniscono una chiave di lettura sul mondo. E che possano creare una comunità che condivide una certa visione del mondo stesso.

I giornali, con le loro prime pagine e la scelta di mettere in evidenza una cosa o l’altra, questo fanno: gerarchizzano i fatti e interpretano. Mentre su internet o in un newsfeed conta il singolo titolo, l’impaginazione delle notizie ha un suo ruolo fondamentale, perché dice qualcosa dell’importanza dei fatti, o almeno dell’importanza secondo chi il giornale lo fa. 
Per me molto spesso quello che succede in Cina o nella Silicon Valley, dove aziende private stanno facendo le regole dell’accesso alla conoscenza e delle dinamiche relazionali nella quasi inconsapevolezza generale, è molto più importante delle ciance di partito. E non solo lo è per me, ma vorrei che lo fosse per tutti quelli intorno: se lo fosse per tutti, si potrebbe sperare per esempio che la pulizia etnica degli uiguri da parte della nazione più popolosa al mondo diventasse prioritario anche nell’agenda di quei partiti che invece cianciano d’altro.

Lo spazio per un giornale esiste perché c’è una parte enorme di cittadini che non ha riferimenti, e ancorché si informi saltabeccando qui e lì tra siti, leggendo editoriali linkati sui social o comprando sporadiche copie di Internazionale e del Manifesto, di base non si ritrova in niente di quello che c’è in edicola (Internazionale è un caso più unico che raro, ma, attenzione, è un giornale fatto con intelligenza ma usando il lavoro di altri). Gente che investirebbe magari tre euro alla settimana per qualcosa da conservare, su cui imparare: un buon giornale può essere come un libro. Gli italiani di libri ne comprano pochi, è vero: ma qui comunque stiamo parlando di nicchie.

Un giornale siffatto dovrebbe fare quello che in Italia non si fa: spendere molti soldi per fare storie molto approfondite con il tempo che richiedono. Dimenticandosi dogmi tipo “Certo morti in Medio Oriente valgono come 10 morti in Europa”, specie se quei 100 morti raccontano di un mondo.
Storie documentate, fotografiche, lontane, vicine, seriali. Sul mondo e su casa nostra. Sull’economia e sulla politica ma con una visione lontana da tutto quello che è il chiacchiericcio di cui per lo più farciamo i quotidiani (con la pretesa di “Dare le notizie” e “informare i cittadini”), e che invece racconti come nascono le cose, dove nascono, perché.

Il che vuol dire che stiamo parlando di un prodotto su cui un filantropo o una fondazione possa decidere di spendere qualche milione di euro, sapendo che per i primi anni non li recupererà. Ma anche che non sono perduti: perché se il giornale andasse come può andare, e iniziasse a vendere abbonamenti perché produce cose che altri non fanno, potrebbe pian piano arrivare a break even. In Francia ce l’ha fatta Mediapart, con un’idea diversa (giornalismo di inchiesta legato perlopiù a questioni d’affari e politiche); in Olanda ce l’ha fatta The Corrispondent. In Italia Jacobin ha appena lanciato la propria campagna e io mi sono anche abbonata, ma si tratta di un prodotto di giornalismo “accademico”, più che di racconto o di inchiesta, e men che meno di notizie.

In questo inesistente giornale che vorrei direttore e redattori non sarebbero malati di protagonismo; non passerebbero le giornate a cementare il proprio ego sui social distribuendo pareri e notiziole (se una cosa è una notizia, allora si scrive bene facendola capire a tutti, non agli amichetti per mostrare che le cose le sai); non farebbero battute maldestre su cose serie; non darebbero del tu a quelli di cui scrivono; non sarebbero in televisione più di quanto sono in redazione. 
Mi piacerebbe un giornale che tornasse a essere un vero corpo condiviso, intimo e pubblico al contempo. In cui riconoscersi e mettersi comodi. Un giornale che rifugga l’autoreferenzialità e le dinamiche malate di questi tempi: per esempio quella per cui prima si tira al piccione contro qualcuno (l’ultimo, il povero Dario Corallo: uno colpevole di aver detto molte cose giuste e una frase sfortunata su Burioni, che comunque è idolatrato senza alcuno spirito critico per i modi e i toni che usa), poi si intervista qualcuno che si interroga sul tiro al piccione (“l’altra campana”), poi ci si impossessa del pensiero che nel frattempo sta sorgendo nel dibattito pubblico sul fatto che alla fine il qualcuno non aveva poi del tutto torto, ad ascoltarlo. Ecco: magari se lo si ascoltasse prima ci risparmieremmo le fasi intermedie.

A me pare che i lettori esistano ancora, e qualche giornale, da ultimo La Verità, l’ha dimostrato. 
Ovviamente, La Verità è fin dal titolo un giornale che non c’entra nulla con quello di cui ho scritto finora, e uno dei più lontani possibili da me: ha altri metodi (sarebbe bello a proposito chiedere a Belpietro a cosa è servito rivelare l’identità della compagna di Saviano, se non a metterne a rischio la vita, e chi è stato così gentile da dargli l’informazione facendo un servizio a Salvini), altra visione del mondo, altra vicinanza alla politica. Però ha provato che il dogma “I giornali di carta non vendono” è una sciocchezza, e quasi nessuno ha voglia di farsi martoriare dai pop up e dalla pubblicità per risparmiare tre euro, se pensa che quei tre euro siano ben spesi.

Ecco, mi piacerebbe sia spendere bene quei tre euro, sia lavorare perché qualcuno li spenda bene, facendo parte di questo ipotetico giornale. Mi piacerebbe proprio metterlo su, e c’è un sacco di gente con cui vorrei lavorare. Senza l’idea più innovativa del secolo ma tornando banalmente a fare quello che i giornali dovrebbero fare, hanno fatto e raramente ancora fanno. 
Non so a chi chiedere i soldi, però, e non penso che per fare una roba così basti un crowdfunding: ce ne vogliono tanti, bisogna investire parecchio e avere molta pazienza prima di pensare di raccogliere.

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Le responsabilità del giornalismo

E così siamo arrivati alla mattina dopo l’Armageddon, che a pensarci non era poi così imprevedibile e impensabile come parecchie prime pagine e commentatori ci hanno spiegato nelle ultime 24 ore. 

Non serve dire perché non era difficile da intuire – mi fregio di aver detto per settimane che il Pd non avrebbe preso il 20% e che la Lega avrebbe sorpassato Forza Italia; in compenso, sul resto della sinistra e sulla Bonino ho sbagliato grandemente – ma è invece utile ricordare quanto per mesi ci è sembrato scontato che l’unico esito possibile fosse un altro governo Renzi-Berlusconi, il famigerato Nazareno Bis. I giornali, di qualsiasi inclinazione, l’hanno descritta non solo come l’unica soluzione, bensì come il solo progetto possibile per la legislatura nascente: tutti, ogni giorno, con articolesse e commenti e indiscrezioni fatte dei soliti virgolettati piazzati ad hoc. Salvo poi, un paio di settimane fa, ingranare la retromarcia e iniziare a sparare titoli sul Nazareno che non si sarebbe fatto, senza mai nemmeno sprecare una mezza riga per dire: scusate, sono mesi che vi diamo come certa, scontata e quasi indispensabile una cosa che invece non stava nei numeri, ci dispiace, abbiamo fatto una cazzata. 

Considero l’atteggiamento – sia il prima che il dopo – gravissimo, e ne ho discusso a lungo con colleghi (i quali, molti facendo politica, non sono stati esattamente d’accordo: ma non c’è da stupirsene). E credo che sia l’occasione per fare chiarezza, su almeno due cose cruciali.

La prima è l’origine della certezza che ci è stata propinata per mesi, ossia l’inevitabilità della coalizione Pd-Fi. Diciamocelo una volta per tutte: nessun giornalista politico che carpisce una dichiarazione “scomoda” o riflessioni sul futuro – ovvero le cose all’origine degli scenari prospettati –  le pubblica senza avere una specie di assenso di chi l’ha pronunciata o di coloro che gli stanno intorno e se ne fanno interpreti, perché se lo facesse sarebbe destinato a non sapere più niente nel futuro. Verrebbe escluso dal giro di quelli a cui le cose si fanno arrivare, i giornalisti con cui «si parla», come si dice in gergo.
Il giro dei virgolettati rubati e delle indiscrezioni è insomma una partita in cui ogni giocatore, di ogni partito, passa a un giornalista qualcosa che gli fa comodo che venga pubblicato, riguardo la propria formazione o avversari, e di cui il giornalista, a seconda della propria serietà e mezzi, verifica la veridicità o la verosimiglianza.

Cosa significa, all’atto pratico? Che scenari, congetture e piani B sono stati fatti filtrare per mesi sui giornali e sono stati dati come inevitabili, senza che nemmeno i sondaggi suffragassero le ipotesi: si è detto fino all’ultimo giorno che la volatilità del voto era massima. E quindi –  e qui arrivo al secondo punto – i giornali hanno contribuito a dettare un’agenda politica e a polarizzare il dibattito intorno a ipotesi di cui non solo non potevano in alcun modo valutare la fattibilità, ma che chiaramente hanno influito energicamente sulla percezione degli elettori: quanti avranno votato CinqueStelle per evitare il sicuro inciucio Renzi Berlusconi?

A queste mie riflessioni fatte in pubblico, qualche collega ha risposto: «È sempre stato così, bisogna animare il dibattito». Io non so dire se ai tempi della Prima Repubblica fosse così: non c’ero e (ri)conosco le dinamiche del mestiere da meno di 15 anni. So però di certo che la risposta è – per me e, suppongo, per molti elettori – disarmante. Ed è, probabilmente, anche in parte la causa del crollo delle copie dei giornali. 

Esiste una responsabilità nel fare i giornalisti, ed è tanto più ampia quanto più si tocca la materia viva capace di influire sulla vita di tutti. La politica questo dovrebbe essere, e finché viene trattata soltanto come un trono di spade qualsiasi, come intrighi di palazzo e battaglie d’onore e cretini contro furbi, tale sarà percepita dalla gente: con valore zero. Il che spiega perché i primi che arrivano e propongono due cose che suonano concrete («Aboliamo la Fornero», «Il reddito di cittadinanza»: che si possano o meno fare è altro conto) vengono creduti e sostenuti. 

Soprattutto, il giornalista sa che si sta prestando a un gioco, pur con il nobile intento di dare una notizia (che spesso però è una non notizia): ma non lo sanno quelli che dovrebbero leggerlo. 
E il disinvolto dispiegare (non) notizie contrastanti, o scenari opposti, senza nemmeno un briciolo di riflessione su come quanto scritto fino a quel momento possa aver contribuito a un certo risultato – allo scoramento degli elettori, per esempio; al polarizzare il dibattito su cose non reali sottraendo tempo a quelle reali; alla percezione sempre peggiore che i cittadini hanno di molto giornalismo – bè, è il chiaro segno che davvero stiamo dalla parte sbagliata delle vicende: non sopra, come ci piacerebbe far credere, e sicuramente non dalla parte del popolo che vorrebbe essere informato e riflettere con spunti critici, ma da quella di chi deve autoalimentare il proprio circolo di attenzione. 

Non stupiamoci poi se al governo va chi i giornali e i giornalisti li ha sempre trattati a pesci in faccia, portandosi con se metà Italia che non sa nemmeno che faccia abbiano Repubblica o il Corriere: mi pare del tutto comprensibile. Forse, addirittura, inevitabile. 

 

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Questa notte è per voi

Domani, finalmente, apriamo le iscrizioni a FreeJourn. Domani, in questo momento della serata, appare ancora discretamente lontano: mi candido a infilare la seconda notte di fila davanti al computer, dopo il secondo giorno incollata al telefono, a basecamp, a documenti da ricostruire, tradurre, emendare.
Pensavo che avrei avuto un cedimento invece, finora, è stato divertente: intenso, stressante, consumante, ma divertente. Ho trascorso gli ultimi giorni con il mac su un tavolino in terrazza, il sole a squagliarmi di giorno e i moscerini a ronzare la sera, parecchie birre e pizze surgelate, Giuliana e Niccolo a guardare le immagini, video da 10 giga da scaricare e foto da scoprire, molti spaventi, qualche insoddisfazione, la paura di non farcela.  
Potrebbe succedere: FreeJourn* è una bella idea che potrebbe andare benissimo ma anche fallire miseramente, perché i soldi, la partecipazione e l’editoria sono al momento tre variabili di un’equazione insoluta. Lo sapevo anche quando ho iniziato a lavorarci sopra e coi mesi mi è stato sempre più chiaro: oggi ne sono consapevole col disincanto di chi ha cresciuto quasi un figlio, ma poi deve accettare che a scuola conosca una gang di teppisti e se ne lasci affascinare. Forse, d’altronde, me ne farei affascinare anche io.
In fin dei conti non conta poi molto. L’importante è quello che ha dato, e cioè il processo della creazione: sembra una frase da TedX di provincia, ma non sempre si è abbastanza bravi con le parole per condensare adeguatamente la carica emozionale che vorresti metterci dentro. 
Ho smesso di credere nel giornalismo da parecchio. Forse quando lasciai la guida di Lettera43, forse molto prima.  Già: esiste qualcosa di peggio di una giornalista che dice qualcosa del genere? Magari mi radieranno dall’ordine, magari mi taglieranno le collaborazioni: sarebbe una bella prova di certe dinamiche e cointeressenze, quindi non credo che succederà. D’altronde non è che non creda al giornalismo come istituzione: figuriamoci, penso di essere una dei cento in Italia a pagare ancora una serie di abbonamenti a riviste anglosassoni. E non è nemmeno che per fare i giornalisti si debba stare per forza in un Paese anglofono – anche se, detto onestamente, credo che aiuti parecchio.
Quello che mi ha stancato è la pratica del giornalismo. Le redazioni chiuse in loro stesse, forzate alla scrivania dal conto economico, costrette al realismo, ai social network, all’innovazione, alle agenzie, all’essere sempre più brillanti, in spazi sempre più stretti («Due scroll! Tre al massimo: ragazzi, nessuno va oltre il terzo scroll, non dobbiamo fargli fare fatica!»), a trasformare qualsiasi tendenza giovanilistica in discorso sociologico, coi capiredattori a fare da risorse umane e i redattori a fare tutto il resto. Certo, non è detto che sia sempre così, eppure di redazioni ne ho frequentate abbastanza per sapere che è un male diffuso.
Forse è colpa – merito? –  di chi mi ha avvicinato al mestiere, forse dei libri che ho letto e di certe idee di ragazzina che a 37 anni ha scoperto di avere un’allergia alle gerarchie e alle sclerotizzazioni che comportano. Ma quello che cerco nelle cose che leggo è una dimensione più intensa, dilatata, anche creativa: sono sempre stata una da racconto lungo, molto prima che long form diventasse una parola di moda. Le cose che mi piacciono non ci stanno in due pagine e spesso nemmeno in sette, di solito oggi diventano video che guardi in cinque minuti senza la fatica di dovertele immaginare mettendo insieme gli elementi. A me piacciono soprattutto quando sono libri, tipo i David Foster Wallace e gli Hunter S. Thompson e i Lester Bangs, che ovviamente non sono esempi facili ma anche oggi c’è chi ha le idee e sa come realizzare, e mi vengono in mente i River Boom, tra molti (sì, sono anche miei amici, il che peraltro mi fa ancora più contenta nel dire che siano geniali).
Forse sono all’antica, di un tempo e di un modo che nella pratica del giornalismo non esistono più e non hanno più nemmeno ragione di esistere: il reportage, le venti pagine di intervista, l’inchiesta che non devi memorizzare 60 nomi in 30 righe, ma in cui li conosci pian piano, entri dentro alla loro vita e alle loro pratiche.
Forse invece banalmente in me la parte giornalistica in senso ortodosso, che a molti dà grandi soddisfazioni e che qualcuno fa molto bene, si è diluita in una cosa più autoriale, che con le notizie si sovrappone solo in minima parte: e so bene che le notizie sono l’essenza del giornalismo (poi, ovviamente, bisognerebbe intendersi sul concetto di notizia e anche di come si informano le persone, ma questo comporterebbe aprire un altro discorso ancora).  
Tutto questo per dire che FreeJourn, pur con qualche limite e gli errori che certamente abbiamo fatto e che faremo ancora, pur col rischio che domani al sign up non tengano i server o chissà che, è stato anche un modo bello di ritrovare l’entusiasmo: dopo Mi fido di te e prima di Godstock (teaser: se davvero andasse bene, Gabri e io ci metteremo un paio di anni a scodellarvelo, temo), trasversale ai miei interessi e alle opportunità. Ci ha lavorato un gruppetto di persone assortito, e tutte hanno dato un contributo essenziale; c’ho trovato dentro il piacere di una squadra fortissimi, un’amica, l’abbattimento di certi pregiudizi, il piacere di chi ha voglia di buttarsi in qualcosa, l’importanza dell’equilibrio. 
Questa notte, insomma, va così.
E se siete giornalisti freelance, buonanotte, questa notte è per voi. 

[* FreeJourn è una piattaforma per reporter freelance, essenzialmente, ma se lo volete scoprire con calma ci sono il blog, i social e fra pochissimo anche i moduli online per iscriversi].  

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