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Patagonia Dispacci #7 e 1/2

Da quattro giorni non ho accesso a Internet o al telefono. Vivere senza wifi si può (almeno per un po’).

(Sì, questo diarietto è scritto offline e andrà sul web tutto insieme)

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Patagonia Dispacci #8

E insomma, ero stata buona e seria per tutta la navigazione, finché ieri sera ho deciso di salire al bar dei gringo a salutare i miei amici canadesi. Li ho trovati in un tavolino centrale, lui col suo cappello da marinaio in testa e un bloody mary in mano, lei in prossimità del bancone del bar a reclamare una ciotola di noccioline. 

May I join?, Posso sedermi, ho chiesto, e non avevo ancora scandito l’ultima sillaba che lei gridava al barista, Un pisco sour, por nuestra amiga. Mentre io finivo il primo – g i u r o – lui ha bevuto due bloody mary e mezzo e lei tre flûte di bollicine, con il tono della voce che si alzava sempre più, fino a coprire qualsiasi suono circostante. Snocciolavano racconti di una vita che gli ho invidiato – o, meglio, ho invidiato l’essere arrivati alla loro età e con le loro vicissitudini in quella forma.  Per punti salienti: lei pubblicitaria, senza genitori, abbandonata dal compagno non appena nato loro figlio, licenziata all’età di 40 anni perché troppo vecchia per un mondo di giovani rampanti, nonché dotata di prole in età da scuola elementare, viaggiatrice in Europa col figlioletto appresso, reinventatasi freelance, infine accasata con lui 13 anni or sono, all’incirca 50enne. Lui ingegnere, un divorzio e una vedovanza alle spalle, un problema serio di deambulazione,  tre figli da accudire, pensionato a 50 anni perché non più del tutto abile al lavoro (ma ricoperto di soldi per uscire), infine felicemente nuovamente marito quand’era già vicino ai 60.

Alla fine delle loro storie, un’ora dopo – rigiuro – lui s’era fatto cinque bloody mary e io tre pisco sour, avevo ovviamente collezionato un invito ad andarli a trovare e lei mi aveva ripetutamente proposto in sposa al loro figlio maggiore (figlio di lui, in realtà, pompiere 40enne danaroso, hanno specificato). Ho promesso che ci avrei pensato e mi sono congedata, prima di svenire a causa dell’alcol prima di cena: mai avrei potuto stare al loro ritmi. 

Stamane, mentre andavo a far colazione, sento qualcuno che mi strattona la manica. Era lei. Mi ha indicato il suo telefono: aveva scaricato apposta dal computer alcune foto del mio promesso sposo. Le ho detto che era bello, per non deluderla: e in effetti è carino. Ho anche promesso che a fine giugno vado a trovarli per il festival jazz di Montreal. Penso che sarebbe una delle cose più divertenti del mondo, ma prima devo fare una cura disintossicante: se tanto mi dà tanto, una settimana con loro potrebbe compromettere il mio fegato per sempre. 

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Patagonia Dispacci #7

Conversazioni standard degli americani a bordo, tra un Martini cocktail e l’altro (dice il barista Leandro che i gringo li riconosci perché bevono solo Martini e Bloody Mary, azzannando Pringles come se fosse appena finita la guerra e avessero anni di carestie da recuperare). 

– What was the name of the place we were today?

– Neta

– Nittta?

– No, sir, Neta

– Meet ya?

– No, sir, it’s spanish: Neta

– Dee tha? Whatever. What time is lunch served?

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Patagonia Dispacci #6

E certo che una nave da crociera – per quanto piccola ed ecosostenibile e impegnata nella navigazione più avventurosa immaginabile per un mammut di acciaio da migliaia di tonnellate – non è troppo diversa da una caserma di maschi disperati: ho fatto l’errore di entrare una volta nella stanza di comando e di mettermi a chiacchierare con qualche sottufficiale e ora praticamente mi inseguono nei corridoi. Ogni volta ne spunta fuori uno nuovo che si sente in dovere di consigliarmi cosa mangiare o invitarmi a vedere qualcosa o di raccontarmi la storia dello Stretto di Magellano dal 1520 in poi, con ampie digressioni sul ruolo della propria famiglia di avventurieri nell’attuale configurazione della regione. Ieri il capitano in persona – una specie di Tom Cruise dei poveri immobile davanti al timone con le gambe larghe, i Ray Ban e un giacchetto di pelle nera che gli arriva appena in vita – mi ha mostrato come si fa il migliore caffè del mondo, direttamente sul ponte di comando. Ovviamente faceva schifo, ma a dirglielo rischiavo di  rovinare il gene del machismo che a queste latitudini (e alle nostre) da duemila anni fa andare avanti il mondo.

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La Patagonia Dispacci #5

Infine il vento si è affievolito, in corrispondenza del canale di Beagle: 30 nodi, una bazzecola rispetto agli 81 delle raffiche che qualche ora prima avevano spinto mezza fiancata sott’acqua. La nave fantasma è tornata a brulicare di vita e di appetiti: a ora di cena, americani e canadesi premevano contro la sala ristorante come gli ultras che si arrampicano sulle barriere allo stadio. 

Dopo essersi (esserci) abbondantemente rifocillati, il personale di bordo ha fatto scattare il karaoke nel bar in cui qualche indomito inglese aveva continuato a sorseggiare whiskey incurante della tempesta. E si sa, al karaoke io non posso resistere, tantomeno dopo ore di penitenza sul letto della cabina. Mentre gli altri si chiedevano se fossero sufficientemente intonati per intrattenere un pubblico – domanda superfluea per me: mi hanno cacciato da un bar di Beirut tanto ero patetica nell’esecuzione sbronza di Time after time – avevo già in microfono in mano per il primo pezzo: It’s been a hard days night, and I have been walking like a dooooog (non ringrazieremo mai abbastanza i Beatles, ricordarlo sempre).

Mentre gli altri si scaldavano, ho buttato lì anche Like a prayer e nel dimenarmi goffamente un’epifania mi ha colto mostrandomi il talento intramontabile della Ciccone (nonché i muscoli che ha sulle braccia mentre simula la crocifissione: non possono essere umani). Finché una canadese sui 60 anni che avevo osservato tutto il giorno per uno strepitoso cappello a forma di maiale degno della Cani e Porci’s League degli anni migliori si è esibita in un remake di Edith Piaf, col marito che affondato in un bicchiere di gin tonic le gridava Ti prego, non farlo. E’ bastato questo per farmela applaudire con insana convinzione, e al termine del suo giro è venuta a propormi un duo: gli Eurythmics. A questo punto la gente e lo staff ci guardavano già col terrore negli occhi, più o meno supplicando chiunque altro in sala di prendere in mano il microfono al posto nostro. Un paio di ragazzi dello staff, barista incluso, sono stati gettati in pasto ai pesci, producendosi in improbabili ballad pop sudamericane alla melassa che, diciamocelo chiaro, sarebbe da toglierli il diritto di espressione della Costituzione finché fan ‘sta roba. 

In ogni caso io e la canadese col cappello a forma di maiale ci siamo impossessate della scena e abbiamo prima cantato una stupefacente Sweet Dreams – io facevo cori e tappeti, oltre alle mie parti cantate – e poi I gotta a feeling, e a questo punto la canadese era ingestibile e oltre a saltare sul posto come in una lezione di educazione fisica ha iniziato a suggerire che saltassimo giù dal divano (Jump off the sofa) del bar salone. 

Vi dico solo che  è finita con lei che gridava Viva l’Italia e io che che rispondevo Quebec libre! Lei, quantomeno, poteva addurre come attenuante l’aver bevuto. 

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Patagonia Dispacci #3

Di che religione siete?
Stamattina non sono di nessuna religione. Il mio Dio è il Dio dei viandanti. Se si cammina con abbastanza energia, probabilmente non si ha bisogno di nessun altro Dio.

(Bruce Chatwin, In Patagonia)

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Patagonia Dispacci #1

C’era caldo in viaggio. Tenevo la fronte schiacciata contro il finestrino appannato e i raggi del sole scappati alle nuvole parevano saturare le crepe dell’io: tre mila metri sopra la Patagonia. Giù in basso, invece, pioveva. Pioveva su questa gente esule, sul mondo alla fine del mondo, terra di confine, tentativi e amalgami. E tirava un vento cattivo, una lama orizzontale che fresava l’acqua del mare con frustate regolari.

Anche l’aereo è finito sotto il tiro del vento: un vuoto d’aria che ci ha tirato giù per una manciata di secondi, abbastanza perché guardando fuori dal finestrino la Cordigliera sembrasse così vicina da rischiare di toccarla con l’ala. Parecchi passeggeri hanno urlato e io ho preso a sudare, lo stomaco intrecciato, le mani a conca sulla faccia; ho contato i minuti fino all’atterraggio, e non m’era mai successo prima. Accoglienza straordinaria, Chatwin aveva ragione. 

Ushuaia, la città più a sud del pianeta, è un insieme raccogliticcio di case e stili; complice il clima plumbeo, mentre la attraversavamo per raggiungere l’imbarco m’è parsa il sobborgo di una cittadina inglese in una mattinata infrasettimanale in un film di Ken Loach. Solo che a fianco delle casetta basse in mattoni ci sono costruzioni in legno con tetti spioventi di lamiera, rubate a Monaco di Baviera. E piccoli blocchi di cemento colorati che fungono da negozietti e poi ancora un campo da atletica come quello del mio liceo in Maryland. Il fondo a tutto c’è il molo commerciale, con le enormi navi da pesca su un lato – equipaggi giapponesi, europei, americani – e le più modeste navi da crociera dall’altro, poco più che traghetti della Terra del fuoco. Di fronte al molo, ben visibile da chiunque a bordo, una scritta larga qualche decina di metri ricorda ai turisti europei e americani che sbarcano qui goffamenti bardati che l’onta delle isole Malvinas – le Faulkland per il resto del mondo – non è stata cancellata. 

Non saprei dire quanti dei vacanzieri sovrappeso alla prima esperienza di mare si ricordino esattamente di quella guerra. Mi sarebbe anche piaciuto chiederlo, ma avrei turbato l’esuberante momento di presentazione dele nazionalità, momento fondante di ogni crociera, coi tovaglioli alzati al cielo insieme ai calici. Però, in attesa di sbarcare a Capo Horn, prima di addormentarmi ho riascoltato una delle dieci canzoni contro la guerra più belle di tutti i tempi. Was it worth it?

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