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Tutta colpa di Beautiful (Fuck the biological clock)

Ho capito, maledizione: è tutta colpa di Beautiful.
Di quei pomeriggi alle medie in cui arrivavo a casa e, con l’Invicta ancora sulle spalle, accendevo la tivù e mi piazzavo a guardare Brooke, Ridge e Taylor amarsi e tradirsi, morire e resuscitare, gemere e promettere, sposarsi (preferibilmente su una spiaggia delle Hawaii) e divorziare (preferibilmente nella sauna di Big bear): anni interi di “Un giorno alzerai il telefono ma io non ci sarò più, e allora capirai” a forgiare l’educazione sentimentale delle adolescenti. E a promuovere la cultura amorosa del dramma.
L’ho capito oggi, facendo zapping per caso a ora di pranzo. Una delle tante sorelle di Brooke (che nel frattempo sono state impersonificate da cinque o sei attrici diverse, per mantenere l’età fisica bloccata in epoca riproduttiva intorno ai 35 anni) gridava a uno dei tanti ex mariti di Brooke, che però evidentemente era stato uomo anche della sorella, che Brooke non lo amava davvero, ma sarebbe stata nei pressi soltanto finché un’altra sorella avesse trovato un altro uomo e Brooke avrebbe sentito l’esigenza di rubarglielo provandosi più figa, oppure finché non fosse tornato il sempiterno Ridge, che a questo punto penso sia coetaneo di mio padre ma comunque deve avere ancora il suo certo fascino se tutte si strappano i capelli così.
Comunque: lacrime, parole, abbracci, primi piani di lacrime, primi piani di labbra, sussurri, strade di Los Angeles. Tre minuti e mezzo per capire come mi ha fottuto Beautiful.
Andrebbe messo fuori legge: è una specie di batterio, un’ebola dei sentimenti, un amplificatore del culto della scena madre come sommo gesto d’amore, quella roba che nella vita vera dopo cinque minuti ti chiedi perché sei così demente, e quando la mattina dopo piagnucoli nel letto non ti senti mai come Brooke mentre si prova la lingerie pensando alla prossima preda, ma soltanto una sfigata che nonostante le parcelle dell’analista non ha ancora imparato quando deve mordersi la lingua.
Fottuto Beautiful. Ma ora che lo so mi sento meglio. E conto anche di scrivere una lettera di rimborso alla produzione. Forse potrebbe diventare una petizione globale: una specie di risarcimento internazionale a tre o quattro generazioni di melodrammatiche. Non basterà a ridarci il tempo di infinite sceneggiate, ma magari a fare un viaggio alle Hawaii anche noi sì.

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