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Il terrorismo (non) spiegato ai bambini
Posted by gea in politica e dintorni, terrorismo on January 16, 2015
Mio nipote è tornato a casa da scuola e si è rinchiuso un’oretta tra iPod e XBox, senza dire nulla alla tata.
Ha fatto merenda seduto da solo al tavolo della cucina, mi ha chiamato su Skype con un sorrisetto tirato, poi ha infilato le ultime cose nella sacca della piscina e si è consegnato al rituale bisettimanale del corso che avrebbe tanta voglia di mollare se non temesse di deludere suo padre.
Cinque stile, cinque dorso, dai, tutti giù dal trampolino, gridava l’istruttrice come sempre. Ha fatto le sue vasche senza fiatare – Più veloci ragazzi, siete saraghi o sirenette? – morsicandosi appena le labbra sott’acqua, quasi di nascosto, come facciamo tutti in famiglia quando un pensiero ci tormenta. Poi si è asciugato, rivestito e finalmente era ora di tornare a casa.
Con sua madre – una mamma così delicata che ogni bambino ne meriterebbe una simile – ha preso un po’ di tempo: i compiti, gli amichetti, le prossime vacanze. Alla fine, prima di cena, ha trovato il coraggio. Le parole si sono accavallate l’una sull’altra, la paura mescolata all’imbarazzo, gli occhi già umidi: A scuola mi hanno detto che i terroristi stanno arrivando a Roma, e poi verranno a Genova. Ci ammazzeranno come a Parigi?, ha buttato fuori.
Mia cognata è rimasta di sasso, un cucchiaio in mano e il sorriso accogliente inebiteto in un silenzio da riempire in fretta. Mentire, inventarsi qualcosa, dire la verità, a sapere qual è. No amore, la polizia lavora attentamente e se ci sono dei terroristi li fermerà, noi possiamo stare tranquilli, ha provato a rassicurarlo.
Gli bastava quello, almeno apparentemente: ha ripreso fiato, i gesti si son fatti meno isterici, in bocca son ritornate le solite scemenze da novenne.
Sono passati un paio di giorni e ho visto mia cognata a pranzo. Come si fa a parlare di questa cosa? Come gli spiego chi sono i terroristi?, mi ha chiesto sperando in un aiuto.
Non avevo uno straccio di risposta, ovviamente.
Ci ho pensato a lungo la sera, ma anche cercando su Internet e passando in rassegna i libri che ho in casa non sono riuscita a capire come trattare la vicenda. Il terrorismo non lo capiamo bene noi adulti, come prova il dibattito sguaiato sullo scontro di civiltà e la guerra di religioni e le crociate, un dibattito in cui la semantica si è persa in frasi fatte e le dichiarazioni roboanti servono a convincere seguaci e non persone; provare a spiegare ai bambini quello che noi non abbiamo compreso fino in fondo è una pretesa impossibile.
Poi mi è venuto in mente che ci sono posti in cui quella comprensione diventa semplicemente sopravvivenza: vive chi colpisce per primo. Coetanei di mio nipote che riterrebbero le sue domande senza senso, perché vivono in campi profughi o sotto le bombe o con la minaccia di attacchi costanti: palestinesi, israeliani, siriani, iracheni, afgani, pachistani, sahrawi, scegliete voi chi.
Ho pensato a tutto lo sforzo che potremmo fare noi per spiegare al Titto cos’è il terrorismo, perché capisca e isoli le persone e i contesti, perché usi tutte le possibilità che ha per comprendere – magari anche meglio di noi – che le presunte guerre di religione sono sempre guerre di potere, modalità per affermare se stessi su altri, che tutti i testi sacri possono essere ugualmente brutali ma sono i cuori, i cervelli e gli interpreti a fare la differenza. Pensavo a come il Titto potrebbe capire tutto, ma un bambino a 5 mila chilometri di distanza, invece, potrebbe non capire nulla mai, perché suo fratello lo hanno fatto saltare in aria a scuola o chi gli dà da mangiare è lo stesso che gli spiega come il mondo sia diviso a metà tra puri e impuri, e se lui non ammazza gli impuri saranno questi ad ammazzarlo.
Ragionavo su come, tutto sommato e nostro malgrado, la spiegazione che possiamo dare al Titto sia puramente intellettuale, buona sola per le nostre coscienze al caldo, farcite di egalitarismo e buoni sentimenti e migliori intenzioni, a fronte della realtà del suo coetaneo a 5 mila chilometri. E mi dicevo che finché di fronte al Titto ci sarà un bambino che a 9 anni ha già benissimo interiorizzato il terrorismo le spiegazioni saranno inutili, perché annientate dalla potenza dei fatti: una volta diventato adulto, quel bambino potrebbe entrare in un’altra redazione e far saltare in aria tutti quanti, e allora ci sarebbero altri centinaia di Titto spaventati a chiedere rassicurazioni alle loro mamme. L’unica vera rassicurazione andrebbe data a loro, ai bambini a 5 mila chilometri di distanza: Vi leveremo di lì, questa cosa finirà, non dovrete più vivere così. Ma, ovviamente, se li rassicurassimo staremmo mentendo.