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Dispacci, India – Auroville #8
Il signore che ci avrebbe ospitato aveva precisato: “La casa è low profile”, e mentre il tuc tuc ci portava ad Auroville avevo quasi paura di capire cosa low profile potesse significare per un indiano. Ma avevo sottovalutato almeno due cose: cos’è Auroville, e chi ci costruisce una casa dentro.
Auroville è “una città utopica, senza moneta, fondata su ideali di uguaglianza e sugli insegnamenti spirituali di Sri Aurobindo”, per sintetizzare tonnellate di scritti e documenti più o meno ufficiali. Fondata nel 1968 da un gruppo di seguaci del guru non distante da Pondicherry, l’enclave francese dove Aurobindo (uomo politico e d’azione prima di diventare guida spirituale) si era rifugiato negli anni della lotta agli inglesi, la città utopica ha avuto da subito ambizioni e cardini così rilevanti da essere l’orgoglio del governo centrale, che la sovvenziona generosamente. Cinquant’anni fa i pionieri presero una collina in cui non c’era nulla e fecero crescere una foresta imponente, nella quale nel corso dei decenni hanno costruito le proprie abitazioni e ogni altra attività: dalla mensa alimentata a pannelli solari in cui gli aurovilliani si ritrovano e mangiano gratuitamente, a scuole, laboratori, campetti sportivi, teatri e negozietti. Fulcro del tutto è il Matrimandir, la palla dorata dentro (e intorno) alla quale ci si riunisce a meditare. Il denaro, teoricamente, è proibito: tutto quello che si produce (e si vende) dentro ad Auroville serve a finanziare la comunità, che distribuisce a ogni membro una specie di paga mensile.
Non serve l’anniversario della summer of love per capire che il progetto negli anni ha attirato persone da tutto il mondo (pare che i massaggiatori non li prendano nemmeno più, tanti ne sono arrivati), e che le cose nei fatti sono un po’ più complicate di così: ma per scriverne bisognerebbe aver chiesto un permesso speciale al capo delle relazioni con il pubblico degli aurovilliani, e se un po’ suona come la burocrazia della Casa Bianca qualche ragione c’è.
In ogni caso, i confini della città sono sfumati: non c’è un perimetro esatto di cosa sia Auroville e, a rilento, nuove costruzioni continuano a nascere per nuovi cittadini (che pagano per la casa che avranno, e poi la lasceranno alla città). Nel frattempo, sulla collina circostante è sorto un po’ di tutto: decine di guest house, un hotel di lusso, gelaterie e pizzerie, ristorantini, negozietti, centri di yoga, massaggi, medicina ayurvedica e via discorrendo, tutti affollati di visitatori ma frequentati anche dagli aurovilliani (che pagano cash, ma a cifre scontate: i soldi in realtà si usano).
Stando alle scarse indicazioni ricevute, casa nostra doveva essere all’inizio della collina, prima che il via vai di vecchie moto, ape car, autobus, macchine, animali randagi, fricchettoni, imprenditori in cerca di affari e viaggiatori in cerca di spirito, diventi frenetico.
E non solo, incredibilmente, l’abbiamo trovata al primo colpo, ma quando il cancello si è aperto ci siamo trovate dentro l’insperabile: un salone enorme arredato con un gusto minimal chic e materiali naturali, una piscina interna (definita molto liricamente “Il luogo delle conversazioni in acqua”, ma l’acqua ancora non c’è), una vasca per pesci rossi – anche lei ancora vuota – che ai pesci rossi apparirà grande quanto l’oceano indiano, svariate camere di ottimo gusto con bagno privato, una sala meditazione, una sala cinema (senza cinema) e una grande cucina, regno del custode nepalese, alloggiato con la moglie in una depandance esterna.
Era tutto così bello che mi ha preso, nei primi minuti, qualcosa di simile all’euforia per la situazione non del tutto comune in India: casa grande, pulita, dove lavare i propri vestiti senza temere malattie infettive, in posto interessante, con altri invitati francesi e ospite poliglotta e acculturato e molto gentile.
Così, dopo un lauto pasto, abbiamo pensato di fare un giro nei dintorni con lo scooter affittatoci dal nepalese: modello Heavy Duty, cilindrata 50, a miscela, ruote del diametro di 30 centimetri, non esattamente perfette per la Dakar tra gli sterrati di argilla e sassi delle stradine interne di Auroville, ma comunque parecchio affidabile.
Almeno finché non ha effettivamente iniziato a piovere, gli sterrati son diventati pantani e, soprattutto, l’intero impianto elettrico di Auroville è saltato irrimediabilmente, lasciando non solo tutti al buio, ma soprattutto senza ventilatori, con temperature registrate intorno ai 40 gradi.
La prima notte l’abbiamo trascorsa in un sudario: con le finestre aperte, la pioggia ti finiva in testa; con le finestre chiuse, si arrivava facilmente a quel torpore dei sensi registrato intorno ai sessanta gradi.
L’indomani, quando nonostante la notte insonne mi sentivo già di dominare l’heavy duty abbastanza per avventurarci nel delirio del traffico indiano, abbiamo riparato prima a Pondicherry e poi, per cena, nel posto consigliato dai francesi: hotel di lusso, con generatore elettrico e persino debole connessione internet. Peccato che tra le dotazioni dell’heavy duty non ci fossero i fari, ed è toccato guidare giù per i tornanti con le luci frontali di decathlon in testa, quelle cioè che fanno a stento abbastanza luce per leggere un libro in campeggio.
Il terzo giorno l’abbiamo passato cercando invano un angolo di spiaggia decente in cui fare un bagno, ma tra trattori sulla spiaggia per rimettere le barche in secca e sporcizia accumulata abbiamo finito col rinunciare, trascorrendo la giornata con gli aurovilliani. La mattina seguente avremmo dovuto alzarci alle 4.30 per la meditazione collettiva di fronte al Mandrimal, momento cardine della collettività.
La corrente, nel frattempo, era tornata e riandata via: in casa non c’era una candela, il tasso di umidità faceva crescere il muschio sui muri, non si poteva cucinare alcunché e la roba in frigo era comunque probabilmente marcia e nemmeno tutta la spiritualità di Aurobindo poteva placare la nevrastenia degli occidentali riscopertisi adoratori del petrolio e della sua capacità maieutica in termini di luminosità e comfort.
Per pareggiare le imprecazioni del terzo giorno, abbiamo dovuto in effetti alzarvi alle 4.30 per andare a meditare: esperienza toccante.
Subito dopo, però, un autista appositamente reclutato ci attendeva per portarci in un albergo fronte mare un po’ più a Sud: per tenere la via, serve energia. Anche elettrica, ho scoperto.