Alla fine è passato anche Natale, e mi si scioglie la penna. Per una serie di ragioni confusamente intrecciate, non riesco mai a fare il bilancio dell’anno prima di Natale, come se questi due giorni concentrati di famiglia, cibo, affetto improvviso, affetto sottratto e sorprese collegate fossero in qualche modo una cartina di tornasole di tutto il resto. Della mia tenuta mentale, in primis; ma anche dell’evolversi dei rapporti, delle cose che avrei voluto, di quelle che son arrivate, di come le ho accolte.
Prima sorpresa: sono stata bene. Erano anni che lamentavo la mancanza di pensieri intorno a me, io che passo le giornate a decidere cosa regalare alle persone a cui voglio bene, in ogni occasione, cosa scrivere nel biglietto collegato, quando distribuire il dono, cosa dire per mascherare l’imbarazzo (già, ci si può imbarazzare a manifestarsi premurosi, attenti, amorosi: e chissà se è solo per insicurezza o perché è un mondo in cui l’ingenuità spesso è punita severamente). Quest’anno ho ricevuto tanti regali quanti forse non mi succedeva dall’infanzia: persino troppi, considerato che passo la metà del mio tempo a lamentarmi di eccessi consumeristici di sorta. Ma il fatto è che ho ricevuto oggetti pensati, da persone inaspettate, da chi non aveva alcuna obbligazione a suonarmi il campanello con in mano un pacchetto, da chi mi ha fatto trovare in mail un pensiero bello, da chi ha passato con me decenni e ancora si sforza di conoscermi man mano che il tempo passa e i rapporti si trasformano.
Presenze e assenze.
Amplificate dal carnevalone natalizio, ma in realtà un leit motiv del 2022: pieni e vuoti, realtà e fantasie, verità e bugie, parole e fatti. È difficile dirlo con sicurezza senza rischiare di sentirsi una polla fra qualche mese, ma la seconda parte dell’anno è stata quella in cui son cadute le maschere, o in cui io son riuscita a smettere di scrivere sceneggiature mentali su come avrei voluto che le cose fossero, e le ho viste invece per quello che erano. Non sempre facile, quasi mai bello.
E allora non è un caso se la cosa che ho fatto di più quest’anno è stata, paradossalmente, rimanere zitta. Ho ricacciato indietro una quantità di commenti, considerazioni e risposte da scriverci un libricino; ho pensato “testa di cazzo taci” un milione di volte, e un milione di volte mi son detta che non era il caso di esplicitarlo: perché le teste di cazzo sanno già di esserlo, e se non sono in grado di capirlo è inutile provare a spiegarglielo (certo, poi c’è la categoria delle teste di cazzo compiaciute con quel misto insopportabile di debolezze ed egocentrismo mal mascherato, e a quelle bisogna solo stare lontanissimi).
Non so se il mio non parlare sia (stato) l’atteggiamento giusto – il mio analista ha qualcosa da dire in merito, e non solo lui – ma so che quantomeno mi ha permesso di concentrarmi sulle cose importanti per me. Seconda sorpresa: passa il tempo, ma restano sempre le stesse. Semmai si radicalizzano. Prendono spazio, trovano forme. Ci sono stati alcuni momenti tristissimi quest’anno, e su tutti una mattina di maggio in cui sbagliando completamente sono andata da sola a fare un’operazione delicata e poi ho pianto per i due giorni successivi, e mentre la tristezza mi avvolgeva e spingeva verso il basso mi sono letteralmente aggrappata al pensiero che la mia felicità non è mai solo mia, ma vive nell’armonia, nella giustizia, nell’uguaglianza, nella fratellanza, nella consapevolezza della strada da fare insieme.
Ci ho lavorato parecchio, quest’anno, intorno a questo concetto di felicità individuale e collettiva; ho messo mattoncini di consapevolezza grazie a persone vecchie e nuove, ricavandone nuove volontà, certezze, determinazioni. Di questo, soprattutto, sono grata: può fare tutto schifo fuori, può essere tutto sbagliato e da rifare, ma io – noi – sappiamo qual è la strada. Non è solo che non è poco: è proprio tanto.
Scrivo con il naso attaccato al finestrino, da un aereo: ho ripreso a prenderne parecchi, da quando la vita è tornata più o meno normale post covid. Sotto di me si srotola Roma, e mentirei se nascondessi che il mio innamoramento per questa città impura e avvolgente è cresciuto ogni giorno da quando sono arrivata, due anni e mezzo fa, come una marziana catapultata su un pianeta alieno e spaventoso. Di Milano oggi mi manca quanto amavo Milano e la mia vita quando ci stavo, null’altro: nemmeno una casa che ho comprato pensando che ci avrei (avremmo) vissuto per sempre e in cui adesso mi fa fatica anche entrare. Credo sia il mio personale miracolo: amare tanto, amare sempre, amare nel momento. E poi andare avanti.
Le canzoni dell’anno, allora, non possono che essere due: L’amore è tutto qui, Piero Ciampi in tutta la sua inafferrabilità, e Keys to my heart, Joe Strummer prima che diventasse Joe Strummer.
Una perché dice la verità, l’altra perché serve: decidete voi come usarle.