Non è tempo di decisioni facili. Per nessuno, a giudicare da come starnazzano in Tv politici di estrazioni composite (ma con una netta preponderanza liberticida), e nemmeno per me. Ho detto di no a un lavoro che mi interessava, in una rivista nazionale. Ma le condizioni non erano quelle giuste.
Rifiutare un lavoro mi riesce molto difficile; non che sia un epigono di Max Weber, ma appassionata di quello che faccio sì, e parecchio. Prendere decisioni così è come mettere tutto su una bilancia la cui lancetta è governata dal caso; può essere che la scelta sia stata quella giusta, magari invece le circostanze dimostreranno il contrario.
A fare da contraltare, però, c’è sempre il peso dei sogni, e l’insofferenza verso chiunque soffi sul loro fuoco, forte di carriere costruite in anni in cui tutto era semplice. Giorno dopo giorno sono sempre più intollerante verso i cinici cinquanta-sessantenni, quelli che hanno preso tutto e ora alzano le spalle e ti consigliano di lasciar perdere. Hanno quell’atteggiamento tra il razionale e il rassegnato di chi evidentemente non ha mai avuto bisogno di combattere, o di credere che si possa farlo. Ti trattano come una sorta di Don Chisciotte, con un misto di pietismo e comprensione, per l’importanza delle tue speranze.
Il mio lavoro ovviamente non è la lotta al colonialismo o all’apartheid, ma avrei voluto vedere dove saremmo arrivati se Ghandi, Mandela o Martin Luther King avessero avuto quella faccia lì. Eppure, lo hanno fatto anche per loro: per quelli che oggi, democristianamente, a destra o a sinistrissima, alzano il sopracciglio in segno di resa.