Must I dream and always see your face?

1997, estate, Parigi, Last Goodbye, spirali di fumo, libertà. 
Io Jeff Buckley me lo ricordo così. 

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Questa notte è per voi

Domani, finalmente, apriamo le iscrizioni a FreeJourn. Domani, in questo momento della serata, appare ancora discretamente lontano: mi candido a infilare la seconda notte di fila davanti al computer, dopo il secondo giorno incollata al telefono, a basecamp, a documenti da ricostruire, tradurre, emendare.
Pensavo che avrei avuto un cedimento invece, finora, è stato divertente: intenso, stressante, consumante, ma divertente. Ho trascorso gli ultimi giorni con il mac su un tavolino in terrazza, il sole a squagliarmi di giorno e i moscerini a ronzare la sera, parecchie birre e pizze surgelate, Giuliana e Niccolo a guardare le immagini, video da 10 giga da scaricare e foto da scoprire, molti spaventi, qualche insoddisfazione, la paura di non farcela.  
Potrebbe succedere: FreeJourn* è una bella idea che potrebbe andare benissimo ma anche fallire miseramente, perché i soldi, la partecipazione e l’editoria sono al momento tre variabili di un’equazione insoluta. Lo sapevo anche quando ho iniziato a lavorarci sopra e coi mesi mi è stato sempre più chiaro: oggi ne sono consapevole col disincanto di chi ha cresciuto quasi un figlio, ma poi deve accettare che a scuola conosca una gang di teppisti e se ne lasci affascinare. Forse, d’altronde, me ne farei affascinare anche io.
In fin dei conti non conta poi molto. L’importante è quello che ha dato, e cioè il processo della creazione: sembra una frase da TedX di provincia, ma non sempre si è abbastanza bravi con le parole per condensare adeguatamente la carica emozionale che vorresti metterci dentro. 
Ho smesso di credere nel giornalismo da parecchio. Forse quando lasciai la guida di Lettera43, forse molto prima.  Già: esiste qualcosa di peggio di una giornalista che dice qualcosa del genere? Magari mi radieranno dall’ordine, magari mi taglieranno le collaborazioni: sarebbe una bella prova di certe dinamiche e cointeressenze, quindi non credo che succederà. D’altronde non è che non creda al giornalismo come istituzione: figuriamoci, penso di essere una dei cento in Italia a pagare ancora una serie di abbonamenti a riviste anglosassoni. E non è nemmeno che per fare i giornalisti si debba stare per forza in un Paese anglofono – anche se, detto onestamente, credo che aiuti parecchio.
Quello che mi ha stancato è la pratica del giornalismo. Le redazioni chiuse in loro stesse, forzate alla scrivania dal conto economico, costrette al realismo, ai social network, all’innovazione, alle agenzie, all’essere sempre più brillanti, in spazi sempre più stretti («Due scroll! Tre al massimo: ragazzi, nessuno va oltre il terzo scroll, non dobbiamo fargli fare fatica!»), a trasformare qualsiasi tendenza giovanilistica in discorso sociologico, coi capiredattori a fare da risorse umane e i redattori a fare tutto il resto. Certo, non è detto che sia sempre così, eppure di redazioni ne ho frequentate abbastanza per sapere che è un male diffuso.
Forse è colpa – merito? –  di chi mi ha avvicinato al mestiere, forse dei libri che ho letto e di certe idee di ragazzina che a 37 anni ha scoperto di avere un’allergia alle gerarchie e alle sclerotizzazioni che comportano. Ma quello che cerco nelle cose che leggo è una dimensione più intensa, dilatata, anche creativa: sono sempre stata una da racconto lungo, molto prima che long form diventasse una parola di moda. Le cose che mi piacciono non ci stanno in due pagine e spesso nemmeno in sette, di solito oggi diventano video che guardi in cinque minuti senza la fatica di dovertele immaginare mettendo insieme gli elementi. A me piacciono soprattutto quando sono libri, tipo i David Foster Wallace e gli Hunter S. Thompson e i Lester Bangs, che ovviamente non sono esempi facili ma anche oggi c’è chi ha le idee e sa come realizzare, e mi vengono in mente i River Boom, tra molti (sì, sono anche miei amici, il che peraltro mi fa ancora più contenta nel dire che siano geniali).
Forse sono all’antica, di un tempo e di un modo che nella pratica del giornalismo non esistono più e non hanno più nemmeno ragione di esistere: il reportage, le venti pagine di intervista, l’inchiesta che non devi memorizzare 60 nomi in 30 righe, ma in cui li conosci pian piano, entri dentro alla loro vita e alle loro pratiche.
Forse invece banalmente in me la parte giornalistica in senso ortodosso, che a molti dà grandi soddisfazioni e che qualcuno fa molto bene, si è diluita in una cosa più autoriale, che con le notizie si sovrappone solo in minima parte: e so bene che le notizie sono l’essenza del giornalismo (poi, ovviamente, bisognerebbe intendersi sul concetto di notizia e anche di come si informano le persone, ma questo comporterebbe aprire un altro discorso ancora).  
Tutto questo per dire che FreeJourn, pur con qualche limite e gli errori che certamente abbiamo fatto e che faremo ancora, pur col rischio che domani al sign up non tengano i server o chissà che, è stato anche un modo bello di ritrovare l’entusiasmo: dopo Mi fido di te e prima di Godstock (teaser: se davvero andasse bene, Gabri e io ci metteremo un paio di anni a scodellarvelo, temo), trasversale ai miei interessi e alle opportunità. Ci ha lavorato un gruppetto di persone assortito, e tutte hanno dato un contributo essenziale; c’ho trovato dentro il piacere di una squadra fortissimi, un’amica, l’abbattimento di certi pregiudizi, il piacere di chi ha voglia di buttarsi in qualcosa, l’importanza dell’equilibrio. 
Questa notte, insomma, va così.
E se siete giornalisti freelance, buonanotte, questa notte è per voi. 

[* FreeJourn è una piattaforma per reporter freelance, essenzialmente, ma se lo volete scoprire con calma ci sono il blog, i social e fra pochissimo anche i moduli online per iscriversi].  

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High and dry

A computer with a view (or a girl on the terrace).

 

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Gioventù bruciata

Certo, viene la tentazione di ricondurre tutto agli estremi opposti: Bologna e Milano, Deleuze e il fondo Algebris, il fascino suadente della gioventù ribelle e quello discreto della borghesia rampante.
Ma sono abbastanza onesta – e troppo debitrice alla prima triade – per sapere che è una scorciatoia. D’altronde, oggi, ogni volta che arrivo a Roma scendendo da un Frecciarossa con i tacchi, l’iPad e un qualche orpello addosso, lo sfottò di Falco mi lambisce appena: Anvedi questa, ma tu te la ricordi che stava sempre col manifesto seduta su’n gradino a legge’.
Il mio Manifesto oggi è il segno dell’abbronzatura da Birkenstok da maggio a ottobre, ché nelle riunioni formali con scarpa décolleté e pubblico incravattato risulta sempre abbastanza controcultura: ognuno ha i simboli che si merita. E con gli opposti estremi, a una certa età, si fa quasi la pace. 
Eppure, per tornare al punto, ammetto di non avere una spiegazione. E di non darmene pace. Incappo in queste foto profilo di non ancora trentenni che si presentano su Facebook sullo sfondo di cene da champagne e tavolo prenotato al Just Cavalli, giacca e camicia, sorrisi Colgate e mascella che bacia con passione. Si vede, sono bravi. Dicono performante, di sicuro. Challenging. Fittare (no, non sfogliate il vocabolario: nel migliore del mondo possibile si potrebbe usare “attagliare”).
Sono brave persone, ne ho incontrati parecchi. Ci credono molto. Consumano l’euro in tasca con l’agilità di chi pensa e sogna di farne tanti. Vanno in vacanza a Miami – se possono. O in Puglia – se Miami è irraggiungibile. Hanno studiato bene, sposeranno meglio. 

In sostanza fanno quello che li aggrada, e non c’è niente di male, ci mancherebbe. Se non che il censore che è in me, quel rompicazzo che l’acquisto del Manifesto lo ha interiorizzato a 18 anni quasi come atto psicomagico d’eterna lotta inconsapevolmente freudiana con un fratello che nello stesso istante chiedeva all’edicolante il Sole 24 ore, il rompicazzo – dicevo – non ce la può fare a vederli. 
Avrei voglia di facce sporcate dalla tardadolescenza e dai dubbi, dai desideri inespressi, dal confronto e dal contrasto. Vorrei scorgere segni di sbronze di birre in baretti di periferia e l’autostop per tornare a casa, sigarette fumate una dietro l’altra seduti nel tepore delle notti pre-estive e canzoni blues inventate su due piedi. I segni di facciate prese in motorino e le foto di vacanze venute male, in posto sfigati in cui non c’era niente da fare. 
E sarà un ideale romantico, segno passatista di una che non ha più 30 anni ma solo la nostalgia di quando li aveva, o forse un discorso di decoro urbano – meno gilet trapuntati svolazzanti su Tmax in rincorsa e più aiuole – ma ecco, io la perfezione delle giovane promesse che sul loro profilo Facebook non ci trovi niente di imbarazzante se non la qualità intellettuale delle cose condivise non la sopporto. Per ragioni personali: sono sempre stata l’opposto di così. L’anno scorso uno studente mi si è presentato all’esame con una maglietta dei Joy Division, in mezzo a un oceano di Mini cooper in Rayban a goccia, e mi son trovata a sperare che il suo compito fosse buono. Ma anche per ragioni socio-economiche: la perfezione ci porterà al fallimento, lo spiegano persino le statistiche sulle ricette infallibili del Fondo monetario.  
Il problema è che, a uno che ha 30 anni e si specchia in se stesso, spiegarlo è difficile. E poi magari non ha nemmeno mai sentito una canzone di Neil Young, e io in quei casi divento proprio intollerante. 

Soundtrack: Old man
Old man take a look at my life 

I’m a lot like you
I need someone to love me the whole day through
Ah, one look in my eyes and you can tell that’s true 

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Dispacci, Negev-Gaza #7

La verità è che viene da fare gli scemi, a dispetto della serietà con cui si prendono loro. O, forse, proprio per via di quella: raffinamento del concetto abbozzato a Gerusalemme, quando abbiamo pensato di ridare una speranza a migliaia di figli di ultraortodossi condannati a una vita realmente incolore distribuendo copie di Playboy fuori dalle scuole medie, come invito all'(auto)erotismo. Eccoci, gli indiani metropolitani dello shabbattismo.

Che, già da sé, onomatopeicamente si presta, specie se ti svegli sopra un altopiano di sabbia nel mezzo del nulla e devi cercare un beduino vegano e senza denti per farti fare colazione perché quelli da cui andresti normalmente di sabato non toccano nemmeno il telefono.  È lo shabbat, bellezza.

Se ne fregano le capre, che arrivano in mandrie a brucare sulla rotonda di Mitzpe Ramon l’unica erba che si vede in giro per centinaia di chilometri. Poi s’allungano fino al benzinaio, ma lì va peggio: al posto del verde ci sono solo vecchi seduti all’ombra che non s’alzano per i rari avventori, figuriamoci per le capre.

Le rotonde hanno un fascino spettacolare, specie di shabbat, quando arrivi a Be’er Sheeva – una colata di cemento che avrebbe voluto essere Houston o Sant’Antonio, ma è soltanto il posto più brutto che potresti costruire ai bordi di un deserto che non ha nulla da invidiare al Gran Canyon – e non c’è un posto per mangiare che non sia Domino’s Pizza, dove insieme a noi ripara un’americana stremata con al seguito cinque figli ma niente banconote, per scoprire nello sconcerto che è shabbat anche per le carte di credito.

L’accoglienza travolgente della città si plastifica nelle rotonde, monumentizzate con l’apposizione, in sequenza, di un carro armato e due jet guerra, caso mai il visitatore non avesse capito che si fa sul serio, qui. 

E a questo punto stiamo sfrecciando sulla AyGo praticamente fusa dalle sgommate del Galimba in direzione nord, cantando My Shabbatta, adattamento della più nota My Sharona per cui abbiamo coniato diverse versioni mediorientali, e simulando – con la creazione di un simbolico GeGiù, mia prole – come dovesse sentirsi la Madonna incinta a spiegare a questi rigidoni che era stato lo spirito santo, e che dopo tanto dispiegamento di miracoli bisogna per forza nutrirsi anche di sabato, mica vorremo vanificare gli sforzi.

Nonsense in Terra Santa, già, ma in fondo è ben poca cosa rispetto all’assurdità del muro con filo spinato che sormonta Gaza, creando una gabbia affollatissima affacciata su una baia colorata da migliaia di conchiglie. Duecento metri più in là ragazzi israeliani fisicati e sorridenti – che hanno imparato l’arte del nascondersi nei bunker in pochi istanti, quandi le sirene annunciano i razzi di Hamas – giocano a racchettoni e sgasano con le jeep d’importazione americana sulle dune di sabbia; oltre la torretta un milione di poveracci non può nemmeno andare a pescare, in ottemperanza dell’assedio israeliano e per colpa dei crimini di un manipolo di banditi corrotti e fanatici che li governa.

Proviamo a entrare a Gaza dalla spiaggia, dopo che ci hanno già bloccato in macchina. Dalla torretta di sorveglianza parte un allarme continuativo che ci rispedisce indietro, tra i racchettoni e i barbecue.

Anche nel giorno del riposo, la vigilanza non dorme mai. GeGiù disapprova sentitamente, e con ogni probabilità anche l’originale che camminava sulle acque.

[bruceremo all’inferno, si sa: Gabri dice che è colpa dell’educazione libertina ricevuta in Val di Chiana. Io però son andata a scuola dalle suore].

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Dispacci, Negev #6

Atto primo

Deserto, deserto, ancora deserto. Di sabbia, di roccia, di minerali ferrosi mescolati a sale e a sabbia. Bellezza abbacinante, tagliente, desolante. Ricordi del Sahara, del Mojave, dei Sahrawi, della Death Valley e di tutti i posti in cui ancora non s’è stati ma si spera di andare.

Dopo ore di deserto, l’insegna del kibbutz Lotan, presentato dai local mainstream come l’avanguardia dell’innovazione ecosostenibile, pare un miraggio: avranno della frutta? Ci sarà una cerimonia di collettivismo da raccontare? I bambini crederanno nel dio deserto e nel mito della frontiera?

La risposta sta nel frigo del microsupermarket zeppo di Coca-Cola e Fettuccini alfredo surgelati, pizze e gelati Nestlè, venduti da una ragazzina attaccata a WhatsApp: se l’agricoltura funziona, non si vede granché. 

Qualche famiglia s’aggira in quella che in larghe parti sembra più una discarica che un’oasi di verde e pace; l’erba c’è, a dire il vero, ma nella parte riservata alla guest house per turisti: un micro resort nato dalle ceneri del socialismo reale, e tanti saluti a Ben Gurion. 

L’unico segno di speranza sono i pomodori: ne compriamo mezzo chilo nel mercatino, ché il sole ci ha riarso anche le papille gustative, e riprendiamo il cammino. A un’ora di distanza c’è Eilat, il luogo simbolo dell’unione di tre mondi: Africa, Asia e Terra Santa. La coda lunga di una terra riarsa che s’affaccia solo per pochi chilometri sul Mar Rosso, la cui importanza geostrategica si misura dalla dimensione delle bandiere piantate dai tre confinanti: quella giordana da sola è grande più o meno come l’intera fetta di spiaggia che tocca al Paese (gli israeliani invece puntano sulla quantità: i più solerti ne hanno una anche sull’auto, i migliori sionisti addirittura due). 

Eliat ha subito chiaramente l’influenza del gigantismo americano e del kitsch russo: gli hotel con piscina pompano musica techno a volumi da audiolesi alle 5 del pomeriggio,  le spiagge sono invase da rossori incontrollati e sorvegliate da navi cargo e vedette militari che stazionano nelle baia. La passeggiata mare unisce tre nazioni con il collante del cattivo gusto: negozi di chincaglierie, giostre stile Las Vegas, musica alta, camerieri scocciati, buttafuori muscolosi, donne con tacchi troppo alti o veli troppo lunghi.

La prospettiva di mangiare infine pesce ci pare allettante; il sushi bar confinato in un centro commerciale di raro squallore restituisce realtà alle aspettative, e rende chiaro che qui noi non ci si può stare. A questo surrogato di cemento ingrigito della strip di Vegas preferiamo la strip di Gaza. 

Atto secondo

Deserto, deserto, ancora deserto. Colline, canyon, distese chilometriche di roccia e sabbia, disseminate solo di postazioni militari.

Procediamo lungo il confine con l’Egitto, a un metro di distanza dal muro di filo spinato e rete metallica che separa Israele dal Sinai. Da un lato e dall’altro della barriera solo desolazione, sole e soldati nelle garritte, grondanti sudore e – immaginiamo – malinconia di casa, della fidanzata, del caos della città.  

Carri armati, torrette e trincee sono l’unica cosa su cui si appoggia lo sguardo per decine o forse centinaia di chilometri. Come si può fare la guerra per questa cosa qui?, ci chiediamo quasi increduli, ben sapendo che la risposta non sta nel campo del razionale, e forse nemmeno nella teoria delle religioni del Galimberti. Deve essere molto più prosaica, come il cocktail bar da cui siamo scappati a Eliat. 

Atto terzo

Deserto, deserto, ancora deserto. 

Tanto deserto che la poesia e il prosaico finiscono col mescolarsi: ma come si giudica in fondo la poesia? Il cavalletto puntellato su roccia e l’obiettivo che inquadra le chiappe del Galimberti, in una mitica (o mitologica) riedizione della fotografia di paesaggio, come andrebbero definite?

Schiaccio il clic, immortalo la beltà e mi consegno a mia volta alla storia, scendendo giù da uno dei migliori canyon del deserto per donare la mia culata al pensiero fotografico mondiale. E cado, rotolo un poco, mi escorio. Sto in cima a una roccia affacciata sul nulla, piegata a mostrare il didietro, sperando di non far la fine dell’auto schiantata nel burrone.

 Sei portata per le culate commenta Gabri: e dev’essere un po’ quello che Irving Penn diceva a Isabella Rosellini, se non ricordo male. 

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Dispacci, Negev #6

Ore dopo guidavamo nel nulla lunare del deserto del Negev, con le scarpe da ginnastica attaccate agli specchietti retrovisori per farle asciugare dopo l’affondamento in una pozza salata e prima di fermarci in un McDonalds con gli archi piantanti nella roccia a mo’ di bandiera di Armstrong, e Galimberti ha raffinato il concetto:

No, son serio: non è un caso che tutte le religioni più severe sian nate qui, eh. Guàrdate intorno: nun c’è nulla. Nasci qui, dici e ora che cavolo faccio? E t’attacchi al tuo dio.  Facce’ caso: le religioni più bonaccione, più fricchettone, son nate tutte in posti meno ostili, se sta meglio là. Dico cazzate?


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Dispacci, Ramallah #5

Ore passate a chiederci se e come superare il checkpoint in macchina – ma glielo chiediamo all’assicurazione se si può? ma ci portiamo dei libri da mostrare? ma al limite parcheggiamo la macchina e andiamo a piedi dall’altro lato? – e poi la AiGo bianca motorizzazione probabilmente 600 ma forse anche due e mezzo che ci hanno noleggiato ha passato il confine Gerusalemme-Ramallah senza che nessuno chiedesse nemmeno un documento. 

Il consueto casino di Ramallah ci ha risucchiato in men che non si dica: strade sempre sporche, attraversate da automobili praticamente in qualsiasi direzione possibile – diagonale rispetto al senso di marcia, suonando il clacson in continuazione, tra le preferite -, urla di venditori e, invenzione recente, altoparlanti che trasmettono l’intero prezzario della merce esposta senza soluzione di continuità.

Abbiamo parcheggiato come si fosse sui Navigli, tra un camion carico di foglie di vite e uno scassone senza marmitta, e siamo andati a cercare un posto per pranzo. Dalla mia ultima volta in Palestina qualcosina è cambiato – la circolazione  nei Territori e il passaggio con Israele sono decisamente più agevoli, i checkpoint pochi e poco presidiati (con un passaporto internazionale in tasca, certo: e non è una precisazione da poco contando che di là dal Muro non ce l’ha nessuno) – ma non certo la varietà della cucina.

Al decimo pasto consecutivo di shawarma (il contenuto del kebab, per essere meno aulici: che a Tel Aviv costa 20 euro nel posto più economico), ci siamo presentati davanti al consueto baracchino invocando anche solo una qualche forma di cous cous.

What you want?

What you have? 

Shawarma chicken. Or shawarma meat.

Rimandando la lezione sul mondo animale, ché la gerarchia della carne è più complessa ancora di quella degli ordini religiosi, abbiamo optato per il chicken. (Com’è che il pesce non entri nella dieta mediorientale non si spiega nemmeno con le prescrizioni kosher, che peraltro ai musulmani interessano poco: ma forse le Nazioni Unite dovrebbero iniziare ad occuparsene).

Prima di andare all’appuntamento coi miei amici palestinesi abbiamo guidato in mezzo al deserto che si apre appena fuori da Ramallah, prima costeggiando il muro dello scempio e poi tra colline di sassi e cespugli, in cui l’occhio può perdersi senza incontrare altro che rare baracche di lamiera abitate da beduini semi stanziali e complessi di cemento che parrebbero costruiti coi Lego: regolari, geometrici, perfettamente perimetrati, funzionalmente escludenti. Sono gli insediamenti dei coloni, naturalmente, recintati e angoscianti: per quanti soldi ti possa dare un governo per insediarti in mezzo al deserto e togliere terra agli altri, o per quanto il tuo dio possa suggerirti di farlo, ci vuole un certo stomaco per dedicare qualche anno della propria vita a rendere ospitale la roccia nuda e incandescente.

Arrampicati in cima a un cuccuzzolo, col sole a picco e la luce come lame negli occhi, il celebratissimo fotografo Gabriele Galimberti si è preso tre minuti per rivedere la storia della religioni: Secondo me ‘na mattina se so’ svegliati e c’era più caldo del solito, gli giravano i cojoni, gli son prese le visioni e ognuno s’è messo a pensare a un dio diverso.

Versione for dummies, ma magari non troppo.

[di Gerusalemme parleremo poi: basti dire per ora ch’eravamo ospiti da David Guetta]

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Dispacci, Tel Aviv #4

La generazione con la divisa e il mitragliatore si è palesata di colpo, dopo due giorni che incontravamo solo hipster in canottiera collegati a grinder, dog sitter per famiglie affluent ed arabi israeliani di ogni età e tipo, rumorosi e bruschi come i loro cugini dei Territori. 

Eravamo in centro, nei pressi dell’auditorium, forse il solo posto in cui la città sembra davvero una città. I militari ragazzini erano radunati disordinatamente, un po’ seduti in gruppetti – telefono in mano e fronte sudata – un po’ sdraiati per terra, al riparo dal sole. Ci stavamo chiedendo come mai fossero tutti lì quando ci siamo girati e abbiamo visto una spianata di zaini, divise e mitra, impilati a decine, come fossero bastoncini dello shanghai. E in fondo a tutto, quasi nascosto dagli zaini e dai fucili, ce n’era uno con la chitarra in mano, straniato e straniante nel suo tentativo di normalità.

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Dispacci, Tel Aviv #3

La prima mattina è trascorsa in spiaggia, ché con 37 gradi e altrettanti chilometri di sabbia bianca sarebbe stato difficile fare altrimenti.

Abbiamo pedalato su un lungomare che avrebbe potuto essere Rio o la Barceloneta, zeppo di gente e delle loro stranezze: runner appanzati con le radio sotto braccio, caschi integrali su honda mille che sgasano da ferme, giapponesi ricoperti di simil-burkini integrali in tessuto ultra tecnico per non cuocere al sole. 

Dappertutto bandiere d’Israele, musica e le schioppettate ritmiche di una speciale varietà di racchettoni di cui si consumano tornei infiniti, con colpi sordi e precisissimi che da lontano sembrano percussioni africane e da vicino tentativi di catarsi di ventenni che passano la giovinezza con la divisa addosso e un mitragliatore in mano.

In effetti poche ore dopo un’amica di amici, nel salotto di una casa ottomana nella vecchia Jaffa, ci ha raccontato di aver trascorso il weekend a fare da volontaria in un festival in cui militari in libera uscita consumano litri di alcol e acido lisergico per dimenticare il mondo; poi, cotti, cercano l’aiuto dei volontari per uscire dai propri incubi. A volte funziona; spesso no. 

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