Dispacci, Marsiglia #3
Girando per Marsiglia in questi giorni ho capito due cose che, pur avendo visto parecchie decine di città in giro per il mondo, non ero mai riuscita a concettualizzare prima.
La prima è che ci sono in ogni città sette od otto sotto-città, e ovviamente l’esperienza del posto è profondamente influenzata da quella in cui si vive: c’è il rischio concreto di non scoprirle, di rimanere confinati in uno o molti ghetti, senza un colpo di fortuna e moltissime chiacchiere con la gente.
La seconda è che ogni città nel suo complesso deve combattere una battaglia contro il denaro, dunque contro la tendenza a uniformare gli spazi e l’offerta, a diventare uguale a decine di altre: gradevole, accogliente, rassicurante. Ieri camminavo per il Vieux Port e ho avuto la sensazione di essere, nell’ordine: a Zara (i colori, la pavimentazione), a Beirut (la corniche, i palazzoni) e Lisbona (il calore, la pigrizia). Ci sono nuance diverse, ça va sans dire, ma non così tante: dai negozi alla gestione degli spazi, man mano che le città si ripuliscono alcuni quartieri diventano spaventosamente simili, specie a latitudini analoghe.
Meno scontato è che non tocca solo a quei quartieri manifestamente gentrificati – quelli che fronteggiano il mare, scorrono tra gli edifici principali, sono il vecchio centro storico – ma anche a quelli che sono ancora generalmente identificati come “autentici”. Qui, per dire, il Panier, è ancora parzialmente sgarrupato, con pezzi diroccati e lamiere buttate qui e là dai residenti che non vogliono intrusioni di turisti. Ma le cose nuove che vengono aperte (il famigerato “riscatto” dei titoli di giornale) appartengono tutte a un medesimo canone di “graziosità”: insegne di legno e ferro battuto, concept store di sartoria o artigianato, baretti minuscoli con stoviglie della nonna e scatolette di sardine come portacenere. Come se persino la diversità ormai fosse uniformata. Come se per sfuggire dalla conformità non restasse che il disordine, lo scoordinato, i colori forti.
Dispacci, Marsiglia #2
Se pensate che Zazie dans le metrò sia una storia, sentite quella dei tipi da cui ho affittato casa, qui a Marsiglia.
Lui è Claude, ha circa 50 anni, una laurea in ingegneria, una collezione di medaglie come maratoneta appese disordinatamente alla porta. È nato a Marsiglia ma a 23 anni, per scappare alla leva obbligatoria, se ne andò in Turchia, un posto in cui il governo non sarebbe andato a riprenderselo.
Lei è Zezè, un’artista: dipinge e scolpisce. Come molte turche di buona famiglia, è stata educata alla scuola francese, ritenuta la più sofisticata di Ankara. Siccome aveva un talento, i suoi la spedirono anche per un bel pezzo a Firenze e lei ne approfittò per gironzolare l’Europa (la Turchia ante Erdogan). A un certo punto tornò indietro: aveva voglia di casa. Lì l’ha trovata Claude: l’ha corteggiata, l’ha conquistata e l’ha convinta, dopo un tempo ragionevole, ad andare con lui a Marsiglia.
Adesso hanno una casa su Cours Julien con una dépendance, due figlie ventenni che ogni mattina preparano il tè prima di farsi una partitina a scacchi – “Beviamo come i turchi”, ha detto Daphne quando ho riso della terza teiera che metteva sul fornello – un atélier lei, un lavoro di prestigio lui, un impegno congiunto per aiutare i richiedenti asilo.
Il giorno che sono entrata in casa ce n’erano una manciata intorno al tavolo della cucina e loro li stavano aiutando a compilare delle carte: non capivo chi fossero, e ho dato la mano a tutti e detto a tutti il mio nome, e questi mi guardavano sudata e carica di zaini e valigie e tappetini da yoga come fossi una matta.
Poi Claude e Zezé mi hanno spiegato tutto. Un secondo dopo ero già innamorata di loro.
Dispacci, Marsiglia #1
Litigando con la mascherina, congelata dall’aria condizionata (ma non era proibita per via del virus?), con il naso appicciato al vetro zozzo lascio che il paesaggio mi imbocchi una madelaine dopo l’altra: è una strada che conosco questa, c’è dentro un sacco della mia storia.
Per molti anni l’ho fatta via mare; nell’ultimo decennio via terra. Un’estate coi miei abbiamo fatto una regata che partiva dal sud della Francia e arrivava a Tunisi, non ricordo se è lo stesso anno in cui siamo stati parecchio tempo a Porquerolles, uno dei posti più belli che abbia mai visto, o quello della Rue de Jasmin. Fatto sta che eravamo sempre nei pressi di Nizza, ma a Nizza non ci fermavamo mai. Andavamo a Mentone appositamente a prendere le marmellate – speciali, buonissime – ma Nizza niente: è brutta, cementificata, senza alcunché da vedere, dicevano i miei. Mio fratello però aveva sentito che a Nizza si trovasse il parco acquatico più grande d’Europa – chissà poi da chi, Internet non esisteva ancora, non so chi fosse la sua fonte – e cercavamo di convincerli a lasciarci andare almeno una volta.
Ci sono passata parecchie volte a Nizza, da grande, però non mi è mai venuto in mente di andare a vedere quel parco acquatico. Finché mel 2012, di ritorno da Arles, ci fermammo con Edo, Bengy e Naima a mangiare coquillage sulla spiaggia, e fu l’inizio del mio armistizio con la città. E con la Costa Azzurra.
La costa è più bella di come l’avessi interiorizzata da ragazzina durante vacanze forzate in barca, è più bella anche della riviera di Ponente, è più bella anche se tutto il tratto tra Cannes e Montecarlo è deturpato da palazzoni di cemento che non potevano essere belli nemmeno quando li hanno costruiti, negli anni 70. Una sera con un amico sono partita dalla Liguria per andare a Montecarlo a cena: ci teneva lui, c’era la sua madrina di battesimo. Montecarlo era un altro di quei posti che con i miei avevamo sempre ignorato, forse con sprezzo; quando infine Diego e io ci siamo infilati per quelle stradine strette piene di caseggiati bianchi orrendi ho capito perché.
Me ne sono accorta con chiarezza quando ho iniziato ad andare ad Arles in macchina tutti gli anni: passavi il confine ed era subito un altro mondo, pur avendo fatto pochi chilometri. A me gli altri mondi fanno sempre bene: all’animo, alla creatività, alla mia predisposizione verso gli altri. Fanno così bene che mi piace persino il font con cui sono scritti i cartelli delle loro stazioni ferroviarie: minuscolo, più leggero del nostro, meno rozzo. Francese, raffinato. Anche se a due passi c’è la gendarmerie in assetto antisommossa che porta via gli ambulanti.
A Marsiglia è diverso però: il font è sottile ma è subito chiaro che non c’è nulla di delicato qui. Almeno non nel senso tradizionale del termine.
Il tempo ritrovato
Posted by gea in gea and the city on May 16, 2020
Dormo quando bisognerebbe stare svegli e sono sveglia quando bisognerebbe dormire; corro al posto di camminare e lumacheggio al posto di andare; lavoro quando mi ricordo, e mi ricordo sempre meno.
Non rispondo al telefono se non è essenziale, mangio solo carboidrati – spesso di notte,
ascolto musica tutto il giorno e mi sento trionfale: ho frugato a casa dei miei genitori e ho trovato i Canti della resistenza europea, Gaber e Jannacci, i Pink Floyd e gli Intillimani, Jesus Christ SuperStar e John Sebastian Bach, i blues del Tennessee e Duke Ellington.
Mi son ricordata da dove vengo, e dove voglio andare.
Le newsletter, nel 2020
Posted by gea in Dialoghi davanti al microonde, gea and the city, giornali e dintorni on May 10, 2020
Comunque una volta andavano di moda i blog e tutti ne avevano uno; ora invece tocca alle newsletter.
La differenza è che sui blog, come questo, ci veniva e ci viene chi è interessato o magari chi segue un link pubblicato qua e là; mentre le newsletter invadono la posta elettronica con la tenacia delle formiche nelle case di campagna, stracolme di riflessioni e consigli che nessuno ha sollecitato e men che meno richiesto, con le loro discettazioni sedicenti sociologiche più correttamente definibili cazzate (climax raggiunto da uno che l’altro giorno spiegava quali saranno i dieci mestieri del futuro ed erano tutte idiozie che finivano in -ologo, con una menzione speciale per l’esperienzologo), e sono per lo più tentativi patetici e per me quasi sempre imbarazzanti di crearsi un nome, un pubblico o addirittura un brand, come direbbero quelli che nel futuro potrebbero diventare esperienzologi.
Ora io non ce l’ho con voi, ma non ho richiesto le vostre newsletter e se per caso l’ho fatto è stato per educazione, o perché ho sbagliato nel dare il consenso. E anche se siete amici, credo che dovreste sapere che finite diretti in junk, almeno finché non inizierete a propormi qualcosa di meglio del tentativo di farvi leggere invadendo la posta elettronica altrui.
Il lockdown e il telefono
Posted by gea in gea and the city on April 16, 2020
Mi sono ripromessa di usare questo lockdown per diventare una persona migliore, ma al telefono proprio non ho voglia di rispondere. Anche se sono amici.
Lo so, sembra un dettaglio, e invece non lo è affatto.
La mia allergia al telefono si fa più accentuata ogni giorno, a talvolta quasi sfiora il ridicolo.
Passo le giornate a desiderare il momento in cui potrò spegnere il cellulare (normalmente, tra le nove e le dieci di sera), e nel frattempo quando squilla smoccolo tra me e me pensando a una scusa; rispondo a una telefonata su tre, a volte schiacciando rifiuta e inviando contestualmente un vocale (dunque tradendo un’ipotetica giustificazione: «Perdonami, non ho visto la chiamata»).
Lo faccio perché provo a essere sincera, a spiegare agli amici per quale ragione non mi va di passare mezz’ora a parlare di nulla, o perché non mi va in quel momento lì: perché vorrei invece leggere, o fare yoga, o cucinare, o pulire il bagno. O anche niente. Perché, semplicemente, sono stanca di occupare una parte rilevante della mia capacità cerebrale e dell’energia che mi è data nella chiacchiera fàtica (quanto ho sempre adorato che si chiamasse così una delle cose che mi costa più fatìca al mondo), e perché, pur avendo provato a organizzare al meglio possibile la mia vita, tutti i giorni arrivo a sera e mi è mancato il tempo di fare qualcosa.
Va poi anche detto che non è che mi interessi esattamente moltissimo di sentire quotidiane lamentele sul lockdown, sul lavoro che non c’è o su quanto stiamo mangiando: lo so già, lo vivo, lo vedo ogni volta che apro Twitter, Facebook, la televisione. Infatti, preferisco prendere un libro e immergermi in cose e mondi che non conosco, classici che mi sono rimasti indietro, che possano magari darmi stimoli per il futuro o farmi comprendere meglio il presente: ho letto I promessi sposi perché volevo capire come Manzoni descrivesse la peste a Milano quattrocento anni fa, e devo dire che l’ho trovato un documento storico molto interessante (nonché un romanzo pedagogico invecchiato maluccio).
Ma non è che voglia uscirne come una persona migliore di quella che sono: sono anni che mi succede, anche da molto prima che iniziasse questa bulimia di contatti mediati dalla tecnologia. Spesso semplicemente mi annoio a parlare, non ho nulla da dire di significativo e non ho voglia né di raccontare mie banalità né di ascoltare quelle altrui, anche se voglio un gran bene a chi chiama.
A mia parziale discolpa, posso dire che se che qualcuno vuole davvero raccontarmi qualcosa, o non lo sento da tempo, o ha bisogno di parlare, allora rispondo con gioia, ci sono con felicità, richiamo, scrivo, mi faccio viva.
Ecco, tutto per dire che in definitiva questa storia del telefono è davvero uno specchio di questi tempi troppo pieni anche quando sembrano vuoti, della necessità di dismettere la bulimia con cui affrontiamo la vita. E non riesco a sentirmi in colpa: avevo programmato di dedicare il 2020 a sfrondare, a dedicarmi con più intensità a quello che mi fa stare bene e mi piace. È toccato iniziare dal telefono, e tutto sommato mi sembra un ottimo modo per fare pulizia.
Ho un debito con la primavera | Spring and I
Posted by gea in gea and the city on March 31, 2020
Ho un debito con la primavera, o forse è lei che vuole qualcosa da me.
Abbiamo un rapporto intimo, carnale, quasi ossessivo: speranza, appartenenza, rifiuto. Come due ex amanti.
Questa è la seconda primavera che passo in isolamento: oggi è il coronavirus; l’anno scorso un incidente.
Ero sotto a un respiratore, l’anno scorso, uno di quelli che ti salvano la vita quando i tuoi polmoni non funzionano più, quelli che oggi scarseggiano e vengono rimpiazzati dalla maschere da snorkeling di Decathlon grazie al genio di un gruppo di ingegneri.
Lo so come si sta sotto a quel casco, me lo ricordo bene. Me lo ricordo anche se stavo prendendo svariati grammi di morfina al giorno e un cocktail di altri farmaci sufficienti a stendere un cavallo. C’è caldo e c’è un rumore infernale, lì sotto. E pesa, il casco, è difficile indossarlo, specie se hai tutte le ossa del corpo rotte come ce le avevo io l’anno scorso. E devi essere bravo, non lasciare mai che la paura che hai da qualche parte, addormentata dai sedativi, si svegli e ti chieda che diavolo ci fai con una cosa da astronauta in testa, che ti immobilizza, che ti spara aria addosso, da cui sai di non poterti liberare.
L’anno scorso mi hanno liberato il 25 aprile. Mi hanno mandato a casa e con mio fratello abbiamo sorriso della mia nuova festa della liberazione. Poi i sorrisi sono finiti, perché è iniziato il lungo periodo in cui non ero più in ospedale ma ancora non stavo bene, e vedevo scorrere i giorni e le settimane, sentivo la primavera palpitare fuori dal vetro della cameretta in cui stavo rinchiusa, e sapevo di non poterla vivere.
Ci ho messo un paio di mesi l’anno scorso, a rimettermi in piedi. E quasi quattro per stare decentemente: 18 costole e una clavicola rotta, due polmoni collassati, un orecchio riattaccato e punti ovunque ti segnano a lungo.
Avevo messo in programma una festa, in questi giorni, per celebrare l’anniversario dell’incidente, la vita che mi sono tenuta stretta, l’amore degli amici che mi ha curato più dei farmaci.
Il coronavirus la impedirà: ci sta tenendo in casa, confinati, in rapporti scarnificati e al contempo sovrabbondanti, inondati di chat e dirette instagram, di paure nuove e di congetture su come sarà il mondo prossimo futuro.
Compivo 40 anni il 23 febbraio, il giorno in cui l’emergenza è scoppiata e si è deciso che avrebbero chiuso Milano. È passato un mese e una settimana, è arrivata la primavera, la sento che profuma sul balcone e corteggia le piante: si sta svegliando la mia gerbera, che precisa come un orologio a cucù ogni inverno se ne va in letargo ma ogni marzo, a dispetto del gelo dell’inverno e delle mie cure non sempre sufficienti, si stropiccia un po’ per poi alzarsi eretta e splendente.
È arrivata un’altra primavera e non la vedrò: questa volta saremo in tanti a non vederla. Quando ci libereranno, forse, sarà quasi estate.
E io penso che ho un conto sospeso con la primavera, con la gioia che mi dà attenderla, viverla, lasciare che mi entri dentro e mi scuota, risvegli i miei sensi e scacci via la pigrizia; ho un conto in sospeso con il desiderio di musica e parchi e di primo sole, con le birrette bevute in terrazzo quando le giornate si allungano nella sera, e la luce oscura il telegiornale e il rito dei televisori che si accendono all’unisono.
Ho un conto sospeso con la primavera, ma va bene così. Mi piace anche sapere che abbiamo una relazione speciale, noi due.
I owe to the Spring, or maybe she wants something from me.
We have an intimate, carnal, almost obsessive relationship: hope, belonging, rejection. Like two former lovers.
This is the second spring I spend in isolation: today is the coronavirus; last year it was an accident.
I was under a respirator last year, one of those helmets that save your life when your lungs don’t work anymore, those so scarce today, so hard to find that they were partially replaced by Decathlon snorkeling-masks, thanks to the genius of a group of engineers.
I know how it feels to be under that helmet, I remember it well. I remember it even though back then I was taking several grams of morphine a day and a cocktail of other drugs strong enough to knock out a horse. It’s hot and it’s noisy as hell down there. And the helmet is heavy, it’s hard to sustain, especially with every bone in your body broken like mine last year. And you have to be good, you never can let the fear that you buried somewhere, thanks to the sedatives, wake up and ask you what the hell you’re doing with an astronaut thing on your head that immobilizes you, that shoots air at you, that you know you can’t get rid of.
Last year I was released on April 25th. They sent me home and my brother and I smiled at my new liberation day. Then the smiles ended, because we entered the days when I was no longer in the hospital but I was still very ill, and I could see the days and weeks go by, I could feel the spring beating outside the glass of the bedroom where I was locked up, and I knew I couldn’t live it.
It took me a couple of months last year to get back on my feet. And almost four to recover almost entirely: 18 ribs and a broken collarbone, two collapsed lungs, one ear cut off and stitches everywhere leave their mark.
I had planned a party to celebrate the anniversary of the accident, the life I’ve been holding on to, the love of friends who treated me more than drugs.
The coronavirus will prevent it: it’s keeping us at home, confined, in bare and at the same time superabundant relationships, flooded with chat and direct instagram, with new fears and conjectures about what the world will be like in the near future.
I turned 40 on February 23, the day the emergency broke out and it was decided to quarantine Milan and Lombardy. A month and a week has passed, spring has arrived, I can feel it perfuming on the balcony and courting the plants. My gerbera is waking up: precise as a cuckoo clock, every winter she goes into hibernation, but every March, in spite of the winter frost and my feeble carecare, it crumples a little and then gets up erect and shining.
Another spring has come and I won’t see it: this time there will be many of us who won’t see it. And when we’ll finally regain something similar to freedom – – but just similar – perhaps, it will be almost summer.
And I think that I have an unfinished business with spring, with the joy I feel waiting for it, with its ability to pervade and shake me, to awaken my senses and drive away my laziness. I have an unfinished business with the desire for music and parks and the first sun, with the beers on the terrace when the days get longer in the evening, and the light obscures the news and the rite of the televisions turning on.
I have a score to settle with spring, but that’s okay. I also like knowing that we have a special relationship, the two of us.
Quarant’anni
Posted by gea in Dialoghi davanti al microonde, gea and the city on February 28, 2020
Certe mattine di pensieri inutili da coltivare, che scaldano un istante e poi lasciano esposti agli sbalzi climatici.
E la bellezza di avere l’età per scrollarli via semplicemente scuotendo la testa, senza perdere il piacere di averli fatti.
Risvegli
Posted by gea in gea and the city on February 9, 2020
Poi stamattina mi sono svegliata col magone, e infreddolita, anche se in questa stanza austriaca ci sono ventisei gradi costanti. Ho preso l’iPad per mettere su un classico dei risvegli col magone, Nothing compares to you, invece all’ultimo ho fatto partire Me ne frego di Achille Lauro. Ho ridacchiato per la scelta, mentre mi passava il magone.
(Ma Sinead O’Connor poi l’ho ascoltata lo stesso)
Essere donne
Posted by gea in Dialoghi davanti al microonde on November 2, 2019
Ho un’ansia sottile che non mi molla. Saranno gli ormoni, penso.
O forse dovresti smettere di ascoltare Tabula rasa elettrificata di prima mattina, mi dice un’amica saggia.