Shanghai Dispacci #3
Alla luce del sole, comparso inaspettatamente dall’orizzonte di smog, i miei colpi di sole non paiono proprio proprio eccezionali, ecco.
Cina Dispacci #4
Credo che in Cina sia successo questo: il Paese è cambiato prima che la gente potesse cambiare.
Le Olimpiadi, l’Expo, la finanza e il celodurismo da partito unico che sfida il mondo hanno portato treni veloci, un po’ di grattacieli, aeroporti, grandi alberghi. Ma è come se li avessero costruiti in mezzo al deserto, per almeno due diverse ragioni.
La prima è che, esclusi i funzionari del governo e la grande mole di lavoratori che girano intorno all’apparato (hostess, bigliettai, controllori, tour operator, poliziotti: tanti, visto che l’apparato è grande, ma pochi in valore assoluto rapportato a 1,3 miliardi di abitanti), la maggior parte dei cinesi non sa nemmeno come si usano queste infrastrutture.
L’altro giorno alla biglietteria self service della stazione super nuova di Shanghai davanti a me c’era questa ragazza che ha passato cinque minuti di numero a cercare di fare il biglietto senza riuscirci. Dietro la calca spingeva e grugniva arrabbiata, finché esasperata non mi sono affacciata e ho cercato di capire cosa non funzionasse: stava cercando di infilare la banconota del pagamento accartocciata. Cioè provava a spingerla dentro alla fessura tutta arrotolata e piegata in quattro, come se dovesse metterla in un contenitore, tipo la famosa urna degli autobus di Pechino.
Ero incredula: la ragazza di fronte alla macchina aveva dipinto in volto lo stesso sgomento che avrei io di fronte a un reattore nucleare da avviare. Con la differenza che di certo non proverei a farlo buttando nel nucleo un cerino acceso.
Non lo dico per prenderla in giro: anche io sono sgomenta. Ci raccontano da anni la Cina super potenza, ma la storia è lungi dall’essersi compiuta. Il cuore del Paese, il nerbo vitale, appartiene ancora a un’epoca fa. Anche se compra smartphone che, peraltro, usa per lo più in modo iper chiassoso per guardarci la televisione, incluso a tavola.
La seconda motivazione è che i grattacieli e i treni super veloci sono solo una frazione minima della Cina. Il Partito bombarda i cittadini e l’Occidente di immagini di palazzi avveniristici in costruzione a Pechino, Canton, Shanghai. Ma sono poche decine, e in pochi posti. La realtà è che dovunque si appoggi lo sguardo fuori dal perimetro urbano, ovunque, stanno costruendo migliaia, forse decine di migliaia di palazzoni simili a mostruose trappole per topi.
Mi spiegava una docente universitaria britannica che vive qui da 30 anni che il progetto del Partito per il prossimo decennio è fare sparire alcune città e concentrare la popolazione in alcune macro aree dove è più facile trovare lavoro (e forse controllarla?).
Ora, è vero che per chi vive in baracche di lamiera senza alcun servizio e non sa di che far mangiare i figli non avrà certo il mio snobismo nel definire questi complessi abitativi.
Ma guardate le foto (purtroppo sempre rubate dai treni in corsa) e ditemi se è lo sviluppo mirabolante di cui tanto si parla. E poi chiediamoci anche se tutte le società devono fare gli stessi errori: perché anche noi ci siamo passati da quel degrado li. Solo che eravamo meno.
nota bene: le foto sono scattare di seguito. I palazzi sono tutti vicini.
Cina dispacci #3
Al cinese faccio ridere. Mi guarda estrarre dalla tasca i fazzoletti tempo (pagati a peso d’oro) per soffiarmi il naso e non si trattiene: mi ride in faccia. Poi si gira dall’altro lato e si soffia il naso anche lui. Senza fazzoletto.
Non so in quale epoca dello sviluppo si trasformino in dei lama (i bambini non sputano, ho notato), però è incredibile quanto riescono a sputare. E dove: se sono al chiuso di una stanza, si alzano dal posto a sedere e raggiungono un angolo per scracchiare all’incrocio dei muri.
Se morisse un marinaio per ogni imprecazione tirata quando uno sputo ti sfiora una scarpa, avrei sterminato la V Flotta.
Cina Dispacci #2
A Pechino, impero della programmazione economica controllata e della crescita armoniosa verso il progresso universale, non ho visto nessuno chiedere l’elemosina o rovistare nella spazzatura (probabilmente sono stati tutti deportati nel deserto dei Gobi).
Più ci si avvicina a Shanghai, culla del rampantismo made in China, più aumentano invece i disperati che ti si attaccano alla giacca per due spicci, o quelli tramortiti dal freddo avvolti nel cartone ai semafori (durante la notte poi il cartone glielo fregano: la raccolta della carta qui è un business sulla rampa di lancio).
Non so se questo dia ragione a Marx, ma senza fare troppo caso alle sottigliezze se fossi in Bersani verrei qui a girare uno spot, prima di rischiare di perdere le elezioni.
Cina dispacci (vale ovunque) #1
In violazione di tutti i miei principi morali, per riuscire a mangiare mezza porzione di qualsiasi cosa devo ordinare almeno quattro piatti: il 99% lo lascio, qualcosa funziona.
Mi sento una merda, specie di fronte alle facce dei camerieri, ma cazzo bisognerebbe precisarlo: piatto di olio di semi che frigge da sei giorni con dentro fave.
Suzhou Dispacci #1
Al terzo giorno, come quello più famoso, sono risorta: ho ripreso a respirare.
Per celebrare l’evento avevo pianificato una gita a Suzhou, antico centro della seta nonché Venezia d’Oriente. Una cittadina, il posto giusto dove recuperare i bronchi.
Ma dalla stesura della lonely planet (dodici mesi fa) ad ora, la cittadina ha acquisito quel milioncino di abitanti, testa più testa meno. E dal treno mi ha accolto così (le foto fanno schifo, ma giusto per capirci).
Shanghai Dispacci #2 e mezzo
E comunque alla fine quasi menandolo al medico l’ho convinto a darmi una cosa che avesse almeno le sembianze di un farmaco.
Perché fosse dipeso da lui, mi dava una di queste belle bustine qui.
Shanghai Dispacci #2
Alla fine sono dovuta andare da un medico. Seduto tra le sue radici di zenzero mi ha detto che ho una piccola infezione dei bronchi per via del freddo e dell’inquinamento; pare che un sacco di stranieri si ammalino quando arrivano in Cina perché l’aria fa schifo (lui non ha detto proprio così, ovviamente).
Comunque Shanghai è una città paracula. Ha saputo vendere tutto, persino la propria miseria. Gli hutong (vicoli) di Pechino qui sono foderati di gallerie d’arte che vendono fotografie fashion dei poveri cristi. Mi pare un posto senza anima, un po’ Tokyo un po’ Hong Kong ma senza l’autenticità di nessuna delle due, specie tra la gente. Chi vive a Shanghai cerca sicurezze, opportunità e la certezza che qui non ci saranno grane, come mi ha spiegato mirabilmente la general manager (cinese) di un’azienda occidentale, persona di grande cultura tra l’altro. Insomma: un porto franco con uno skyline memorabile, ma dove non potrei vivere più di una settimana.
Dopo due giorni ho già i bronchi devastati, tra l’altro.
Shanghai Dispacci #1
Cercavo una farmacia a Shanghai (le pastiglie di bacche non sembrano efficaci: oggi ho consumato quattro pacchetti di fazzoletti e mi sento uno straccio); invece mi sono imbattuta in un parrucchiere.
Sono entrata scatenando il panico. Bionda e mossa: mi studiavano concentrati come al congresso mondiale di fisica quantistica. Per prendere tempo mi hanno offerto un tè con biscottini, che ho divorato. Il capo dello staff si è subito precipitato a fare dei gesti: are you hunger? Si vede che avventarsi sui dolcetti non usa: in effetti tutti gli altri clienti li hanno lasciati (quando era girato, ho provato anche a fregare quelli del mio vicino). Poi uno dei quattro parrucchieri del mio staff personale si è innamorato e ha usato il traduttore simultaneo del cellulare per comunicarmelo. Io, pochi istanti dopo, ho preso in prestito il suo cellulare per digitare sullo stesso traduttore: do you have a bathroom?
Poesia.
Mi giravano intorno come fossi l’attrazione migliore del circo; tutti gli inservienti passavano a turno e si davano di gomito per mettere anche loro una cartina sui miei colpi di sole (ovviamente a mani nude). E, a parte che fra un po’ mi si squamerà il cuoio capelluto a causa dei prodotti usati (e che mi hanno pettinato come barbie fior di pesco), devo dire che alla fine sono stati bravi; ancora una volta ho sfidato la fortuna e il buon senso e mi è andata bene. Per non dire che l’osservatorio sulla Shanghai dei privilegiati che vanno a farsi pulire le orecchie con i cotton fioc (giuro) nel salone di estetica vale almeno quanto le considerazioni di Kissinger nel libro sulla Cina che sto leggendo.
Ah, il prezzo. All’inizio la cassiera ha digitato 780 renminbi sulla calcolatrice, al che ho risposto in italiano: Amica per quei soldi vado dal mio coiffeur di fiducia a Milano. Dubito che abbia capito, ma nell’incertezza ha subito dimezzato la cifra.