Il paragone con Cristo
Posted by gea in alla rinfusa, gea and the city on August 7, 2013
Questo è un post a rischio noia. Parole chiave: cuore, età, dolori. Uomo avvisato…
Un signore che mi ha insegnato qualche cosa, tempo fa, mi disse che a fare i giornalisti ci si mette una corazza sul cuore e si va avanti. Io seguì più o meno alla lettera l’insegnamento – all’epoca andavo in giro per campo profughi palestinesi, oggi più o meno dirigo le operazioni, e ça va sans dire rimpiango i palestinesi – ma ho capito anni dopo che era proprio una cazzata.
Coprirsi – il cuore, gli occhi, i pensieri – è proprio l’ultima cosa che uno deve fare nella vita. Squadrare le cose, sentire la carne che brucia, connettere i neuroni, reagire: questo bisogna fare.
Mi sono così abituata a coprire che mi si è offuscato lo sguardo. Mi sono così abituata a coprire che ogni tanto mi alzo la mattina e nella mia routine da automa perdo il contatto con il mondo: dove sono, che cosa sto facendo, come lo sto facendo?
Mio padre l’altro giorno mi diceva, alla comoda distanza di sicurezza di qualche migliaia di chilometri, che non sono più giovane.
Il discorso era complesso e lungo e inanellava tutta una serie di cose sulle quali non me la sento di tornare (sparare dei razzi terra-aria sui pensieri dei figli senza aver fornito uno scudo antimissile, comunque, dovrebbe essere proibito dalla convenzione per i diritti dei trentenni). Ma alla fine sono rimasta lì a chiedermi quando è che uno diventa grande. Ho 33 anni: in che categoria rientro? Cosa determina il passaggio da giovani ad adulti?
Quando avevo 16 anni – non proprio un’infante – avevo una certezza sul mio futuro: a 27 sarei stata sposata con figli e un lavoro appagante. Non che lo volessi o lo desiderassi, non sono nemmeno mai stata particolarmente barbiefiordipesco nei sogni. Semplicemente mi pareva scontato: a 27 anni si è adulti e gli adulti così fanno (meriterebbe una nota sociologica a margine il riferimento al lavoro appagante: le distorsoni provocate dagli agi della provincia borghese sono inimmaginabili).
Va da sé che era una idiozia colossale, e non ho avuto bisogno di arrivare alla data ics per rendermene conto. Col tempo l’idea dell’essere adulto in me è stata semplicememte sospesa: lavoravo, amavo, viaggiavo senza mai chiedermi quale età sarebbe stata giusta per cosa.
Poi, il tempo ha iniziato a passare senza che io facessi nulla che vi rimanesse impresso. Niente per me, poco per gli altri, salvo un mirabile caso.
Adesso tutto presenta il conto. Sarà il paragone con Cristo, che a 33 anni lasciò il marchio per sempre.
E comunque mi accontenterei anche di qualcosina in meno della crocefissione, sia chiaro.
Rio mare
Posted by gea in gea and the city on August 7, 2013
Come stai?
Come una tonna rio mare, mi spezzi con un grissino.
Scene da un agosto milanese
Posted by gea in gea and the city on August 5, 2013
Ho sognato che lavoravo in una struttura simile a un campo estivo per studenti (ma poteva anche essere un campo di concentramento, il che la dice lunga sulla mia chiarezza mentale), e un giorno la nostra routine veniva sconvolta dalla notizia che la Germania era andata in default e lo aveva tenuto nascosto. Partivano i cacciabombardieri e una serie di ordini d’attacco, mentre io facevo chissà perché un dettato in inglese che iniziava con I think that life… Sarebbe stato bello sapere come finiva, ma il ventilatore ha smesso di funzionare e mi sono svegliata in un sudario.
Due giorni fa mi è andata peggio. Dormivo da un’oretta quando mi sono svegliata per caso. Non so come né perché, ma mi sono tirata su a guardare fuori dalla finestra. E fuori dalla finestra c’era una nuvola di fumo nero e decine di persone che mi gridavano di scendere e scappare.
Pensavo di essere turbata da quella mozzarella scaduta reperita poche ore prima in frigo e divorata senza ritegno, ma hanno iniziato a bussarmi alla porta di casa con tale intensità che ho temuto la sfondassero. Ho aperto totalmente rintronata in mutande – in perizoma per essere precisi – e un ragazzo che da vero gentiluomo ha finto di ignorare le mie nudità mi ha detto di correre fuori, che il palazzo stava bruciando. Bruciando, sì.
Ho avuto il tempo di infilarmi al contrario una camicia, e volevo prendere su qualcosa di utile – metti che mi bruci la casa, almeno l’iPad lo vorrei salvare, con quello che costa – ma non ero abbastanza presente a me stessa, e per di più a quel punto già mi vedevo delle scene tipo Twin Towers con via Vigevano 1 che si accartoccia su se stessa e io che devo lanciarmi già da un ballatoio senza nemmeno un fotografo a immortalarmi per consegnarmi alla storia; insomma, alla fine l’unica roba che ho preso è stata la crema antizanzare. Trenta secondi dopo ero in strada con ai piedi due birkenstok di diverso tipo, addosso una camicia aperta e, temo, una fiatella pazzesca (la famosa mozzarella avariata, ricordate).
Un fotografo, in effetti, c’era: Niccolò. Ma senza macchina, e comunque io mi ero salvata. Il bar di Peppuccio no, però.
Cahiers de doléances
Posted by gea in gea and the city on June 20, 2013
Amicizia è una email con oggetto «Non morirai» da un’amica alla quale appena snocciolato il bollettino quotidiano dei tuoi dolori.
Le certezze, in effetti, sono un bel lenitivo.
Message in a bottle
Posted by gea in gea and the city on June 6, 2013
Qualcuno ha aperto questo blog e gli è rimbalzato l’eco. Darò notizie di me appena le avrò.
Navigo a vele spiegate sul mio stagno. Il mio pensiero più ricorrente e ardito è il conteggio delle calorie dello stracchino: la consistenza inganna.
Le apparenze contano eccome.
L’unico funerale al quale mi dispiace non poter andare
Posted by gea in fermo immagine, gea and the city on May 24, 2013
Domani è un altro giorno
Posted by gea in gea and the city on May 24, 2013
Ciao amore, come stai?
Ciao papà, malissimo grazie.
Tu-tu-tu-tu-tu
L’oro di Dongo
Posted by gea in personaggi, politica e dintorni, viaggi on April 28, 2013
Siamo andati a Dongo, il 25 aprile. E poi a Mezzegra. E poi a Giulino di Mezzegra, dove Mussolini e la Petacci furono ammazzati.
Un signore ci ha raccontato una storia lunga, di un Paese in cui ancora non si sa la verità e la memoria sbiadisce col tempo.
Il paradosso di una Repubblica fondata su un mistero.