All shook up
Posted by gea in gea and the city, musica on March 22, 2014
Un sms sul mio telefono.
«Zia lo sai che a scuola facciamo il living museum, cioè praticamente dobbiamo scegliere un personaggio storico e raccontarne la storia e io ho scelto Elvis».
Anni di lavoro iniziano a dare i loro frutti.
(Il testo orginale è stato emendato: «Zia lo sai che ha scuola…»)
The girl from via Vigevano
Posted by gea in gea and the city on March 17, 2014
Scriverò tutto con più calma, già che, come spesso succede, presa una decisione dirimente a valanga iniziano a staccarsi costoni di vita e restano 14 giorni per mettere a posto tutto quello che è stato ignorato per anni.
E comunque, l’ho fatto. Sono scesa dalla bicicletta non tanto perché non volessi più pedalare, ma perché la voglia di vedere in che direzione stessi pedalando si era fatta incomprimibile.
Insomma, io, Edo e Gabri partiamo per il Brasile.
Don’t think twice, it’s all right
Posted by gea in gea and the city, musica, personaggi on February 27, 2014
Ci sono giorni in cui mi chiedo se esista qualcosa di più doloroso di una canzone di bob dylan, e normalmente convengo che no.
Mind the translation
Posted by gea in gea and the city on February 25, 2014
E così ho scoperto che pormonaise patè significa salsiccia di cane con pasta scondita cotta sei giorni fa.
Nomadi (in cerca d’identità)
Posted by gea in gea and the city on February 24, 2014
Non che volessi provare alcunché a me stessa, ma svegliarmi dopo quattro ore di sonno e un concerto dei nashville pussy, tornare a casa mia, prendere la valigia, infilarmi su un treno fino a ginevra, poi saltare su una metro, bivaccare due ore in aeroporto e da lì trovare un bus per il confine francese mi ha fatto capire che compiere 34 anni non significa poi molto, per fortuna.
Twitto, dunque esisto
Posted by gea in gea and the city, giornali e dintorni, politica e dintorni on January 7, 2014
Sto per dire una cosa reazionaria, e per di più proibita tra coloro che – come me – si guadagnano da vivere (anche) grazie a Internet e affini. Non solo: sto per dire una cosa terribilmente banale, che squalifica il dibattito vivace e interessante (qui e qui e qui qualche esempio) che da tempo i migliori osservatori (incluse persone con le quali ho lavorato fianco a fianco) dicono sul web e sulle possibilità che permette, oltre che sul mondo che ha creato.
In realtà, e qui sta un primo punto, riassumendo in modo grezzo e dozzinale parte della migliore riflessione sulla rete, si può dire che Internet non ha creato nessun mondo, ma è il mondo: nel senso che su Internet normali persone che fanno e farebbero comunque la loro vita creano rapporti, interagiscono con altri, scrivono e leggono cose, con i difetti che verosimilmente hanno anche in qualsiasi altra interazione quotidiana con il panettiere, il compagno di banco o il capo azienda.
Eppure, e qui sta un secondo punto, se l’osservazione è vera in assoluto, c’è una categoria per la quale paradossalmente è meno vera che per gli altri. E sono i giornalisti. I giornalisti sono una categoria strana, e parlarne è sempre complesso: un po’ si rischia di fare una difesa ridicola del passato, un po’ si rischia di fare una difesa generazionale altrettanto ridicola. Certamente è vero però che gli anziani del giornalismo se ne sono allegramente sbattuti di Internet, e hanno infine preso a usare twitter e affini soltanto per non farsi dare dei dinosauri fuori dal tempo. Quelli della mia età – i 30/40enni – ci sono rimasti in mezzo, presi tra la fascinazione del passato (il giornale su carta, i tempi dilatati, la possibilità di andare in giro a vedere prima di scrivere eccetera eccetera) e la necessità di buttarsi in un futuro che ancora non è definito, perché l’unica cosa certa nella tempesta dell’industria editoriale è che la soluzione è lungi dal venire, e che tutte le sperimentazioni del momento sono appunto solo sperimentazioni, ma non sono né la via di uscita né l’assetto futuro di un settore che non sa più dove sbattere la testa.
E qui, infine, arrivo al dunque. In questa seconda categoria, la rete ha creato dei mostri. Una ricognizione su Twitter lo spiega benissimo (lasciamo perdere la questione ermeneutica, il fatto che nessuno ci obbliga a leggere tutto, che si può scegliere chi seguire e quant’altro): l’esigenza della visibilità fa sì che orde di giornalisti, aspiranti tali o persone che comunque di quello vivono o vorrebbero vivere, riversino qualsiasi cosa sul social network. Non solo pensieri propri, o condivisione di altri, ma anche scambi di battute, interazioni a due, banalità di sorta. Più nel dettaglio, mi pare che esista una sorta di presenzialismo su Twitter, per cui diventa obbligatorio dimostrarsi attivi. La regola del twitto, dunque esisto, che risponde in parte ad alcuni meccanismi del reclutamento dell’industria editoriale e dei suoi contenuti, spesso però sfiora il ridicolo. Mi capita di soffermarmi sulla timeline di persone che conosco e di scoprire che ogni 15 secondi stanno twittando qualcosa. Pur di esserci. Vale anche per i politici: Gasparri (@gasparripdl), Brunetta (@renatobrunetta) e lo stesso Renzi (@matteorenzi) sono tre esempi calzanti.
Ma sui giornalisti (o gli aspiranti tali, o tutti gli altri di cui sopra) l’effetto è – almeno per me – un po’ patetico. Lo trovo quasi imbarazzante: si fa gomiti per guadagnarsi il proprio angolo di visibilità, in modo quasi ingenuo. Sapere usare i social network oggi è fondamentale, in quasi tutte le professioni. Non riuscire a staccarsi dall’esigenza di apparire è inopportuno.
Resta che twitter è divertente e utile, che anche io ho un profilo (@geascanca), che qualcuno troverà me inopportuna, che magari qualcuno di quelli che io trovo ridicoli diventerà il nuovo guru dei tre mondi. Può essere tutto, e io mi sbaglio spessissimo. A me, comunque, vedere uno che twitta ogni 13 secondi, magari anche del divorzio con la moglie, fa pensare male.
Ma l’avevo detto che sono reazionaria, su certe cose.
Did they get you to trade your heroes for ghosts? (ovvero, Coop rosse e dintorni)
Posted by gea in alla rinfusa on December 22, 2013
Dieci della mattina del 22 dicembre: domenica prima di Natale, tre giorni innanzi allo stesso e centinaia di genitori nel panico da regalo. Un sms sul mio telefono. «Verifica per favore se da quelle parti si trova camion VVFF con mezzo anfibio Lego. Segue codice: 3340».
La firma, ovviamente, è quella di mio fratello, ché solo lui è capace di mandare un telegramma per incorporare una richiesta a Babbo Natale.
Brividi attraversano il mio corpo: l’ultima volta che mio nipote ha chiesto all’anziano signore dei doni un regalo irreperibile in Liguria ho dovuto quasi calpestare il genitore di un cinquenne al Disney Store per accalappiarmi l’ultimo personaggio di Cars rimasto nel Nord Italia. Ma è mio nipote. Gli voglio bene. E i Lego aiutano lo sviluppo intellettivo. Quindi decido di provarci.
Un’ora e qualche tonnellata di ringo boys dopo – ogni missione impossibile esige un’adeguata colazione – accosto la macchina vicino a un negozio di giocattoli che tracima adulti disperati (acquirenti) e altri adulti in prossimità di tracollo nervoso (venditori).
Attendo con pazienza il mio turno di fronte a un ventenne dietro al bancone che evidentemente sta sognando discese innevate e playmate in bikini.
– Scusa, cercavo un camion dei vigili del fuoco con relativo mezzo anfibio. Ah sì, della Lego, non veri, ehehe – esordisco imbarazzata.
Mi guarda come se stessi parlando di fisica quantistica.
– Tutto quello che c’è è lì.
– Non vedo nessun mezzo anfibio dei vigili del fuoco – ridacchio per stemperare.
– Allora guarda sul catalogo.
Mi mette in mano un catalogo patinato: lo sfoglio avidamente, ma del camion dei vigili del fuoco nemmeno l’ombra.
– Non c’è.
– Allora non è più in produzione, sarà una cosa vecchia – conclude tirando il fiato lui, mentre mi invita con lo sguardo verso l’uscita. Che, in effetti, imbocco: anch’io alleggerita dall’impossibilità di onorare l’incombenza.
Mentre risaliamo in macchina, però, l’amico che mi accompagna – secondo solo a mio fratello per meticolosità – mi fa notare come il catalogo fornitomi dal ventenne fosse assai sguarnito. «Guarda, ho comprato Lego per 15 anni», inizia con il fare dell’ingegnere meccanico che in effetti è, «non ho mai visto un catalogo così ridotto: li sfogliavo per settimane prima di scrivere la lettera, da bambino. Dobbiamo provare da un’altra parte».
Maledicendo la precisione altrui, convengo sommessamente.
Venti minuti e un paio di telefonate di verifica dopo, stiamo approdando di fronte al Paradiso dei bambini, immenso capannone padano in cima alla via Emilia zeppo di orsi polari di peluche ad altezza naturale e con un’intera ala dedicata ai Lego. Ci sono castelli di Nottingham in un milione di pezzi, macchinine telecomandate da costruire con nottate insonni (roba Technic, per futuri fidanzati rompipalle maniaci dell’ordine, anche se nelle avvertenze non c’è scritto), distributori di benzina e garage a sei piani di ogni colore. Ci sono tutti i Lego di tutte le epoche. Del mio, tuttavia, nemmeno l’ombra.
– Signorina, mi scusi, stavo cercando un camion dei vigili del fuoco con relativo mezzo anfibio – riparto con la tiritera.
La venditrice in divisa d’ordinanza scuote la testa in segno di diniego: mezzi anfibi a quell’altezza della via Emilia la Lego non ne ha recapitati.
– Le do il codice, se potesse controllare – incalzo.
Con rara gentilezza, si mette al computer. Questione di istanti: «Mi spiace, ma il codice è inesistente».
Per qualche secondo resto sgomenta, poi prendo il telefono e chiamo mio fratello: è la prima volta in 33 anni che sbaglia un dettaglio tecnico, le mie certezze già esigue sulla vita si stanno rapidamente assottigliando.
«Mauro, il codice che mi hai dato non esiste: sono qui nel Paradiso dei lego con la negoziante di fronte».
Sfida lanciata: 15 secondi dopo, il fratello maggiore mi spedisce via email la foto della confezione del camion dei vigili del fuoco con relativo mezzo anfibio e, naturalmente, codice in bella vista, il tutto scaricato da internet.
Rincuorata, mostro la foto alla negoziante. Lei inizia a digitare freneticamente sul web, appurando, a sua volta sgomenta, che il prodotto in effetti esiste. Eppure, per un qualche mistero del cosmo, in quell’angolo di via Emilia nessuno lo ha mai paracadutato.
E’ talmente in imbarazzo che sto per dire che scherzavo, volevo Barbie fior-di-pesco in realtà, ma sta già raggiungendo il suo responsabile per chiedere lumi.
Il ragazzone ascolta, poi si avvicina a noi impalati come staccafissi e dice in un bisbiglio. «Mi dispiace, quella è un’esclusiva Coop».
«Come, scusi?». «Non lo distribuiscono a noi negozianti normali: è un’esclusiva delle Coop».
Io e Diego ci guardiamo increduli. «Ma come, non è mica un co-marketing, è un Lego!». «Signorina, non so cosa dirle: hanno fatto un accordo, quei modelli li danno solo alla Coop, sono un’esclusiva Coop».
Se ne va prima che possa fare qualche domanda. E la democrazia dei regali di Natale? E i bambini che abitano dove le Coop non ci sono? E il principio che la concorrenza aiuta a tenere i prezzi bassi? I comunisti si sono mangiati anche Babbo Natale, visto che di bambini non se ne fanno più?
Ah no: quelli erano i comunisti. Queste sono le coop rosse. In mezzo c’è morte della sinistra dell’equità. Persino nella distribuzione dei Lego. Scusate, allora ve lo chiedo come un favore, visto che su quelli siete più ferrati: non è che me ne mandereste uno per mio nipote?