Rio/Dispacci #9

Appunti per il futuro: non sottovalutare le conseguenze dei mezzi pubblici.
Oggi abbiamo impiegato più di due ore all’andata e al ritorno per fare 20 chilometri a tratta, su un autobus che andava alla velocità di un trattore, sostanzialmente alla stessa andatura delle persone che gli camminavano di fianco sul marciapiede, ma con la considerevole differenza che loro almeno godevano dei benefici del sole mentre dentro al bus c’erano 17 gradi a essere generosi e noi stavamo avvolti come insaccati in parei umidicci che fornivano un minimo di tepore.
Però ne è valsa la pena. Per dire, ho capito che se tutto va male posso riciclarmi come guida alpina: con il mio bel vestitino di lino bianco che per una strana casualità indosso sempre nei momenti meno opportuni – come il concerto dei Cure a Bagnoli: l’unica vestita di chiaro in ettari di terreno – ho arrampicato un picco di granito che a vederlo da fuori sembrava verticale, e mentre ci eravamo sopra anche peggio.
Ora sostanzialmente io non sento più le piante dei piedi e Gabri lamenta cedimenti alla coscia. Ma in fondo erano solo 4 ore e mezzo di pullman per 40 chilometri, che sarà mai.

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Rio/Dispacci #8

Viaggio alla Madureira, quella Rio de Janiero che i turisti non vedranno mai, e magari nemmeno gli abitanti che non vengono dal morro, la collina.
A Santa Teresa, il quartiere nobile dove stiamo, la temperatura era alta ma sopportabile. Un’ora e un po’ di mezzi pubblici dopo, sbarcate nella terra di nessuno che avrebbe potuto essere appena fuori Bangkok o Karachi, a dimostrazione che la povertà ha la stessa faccia a tutte le latitudini, il cemento esalava un calore fetido e umido, che nell’arco di mezzo’ora mi aveva arricciato i capelli e tinto di grigio la maglietta.
Con Laura, la nostra amica argentina, abbiamo girato un po’ tra i negozi e i grandi magazzini in cui si riforniscono gli ambulanti della spiaggia, in cerca di qualche colpaccio e di un po’ di autenticità. Sul primo non scommetterei, ma la seconda è garantita nel biglietto della metro.
Tre ore dopo abbiamo deciso di rientrare in centro con il trenino dei pendolari, arrugginito e carico di una umanità che per la prima volta mi ha spaventato da quando sono arrivata in Brasile. Mi guardavo intorno, tra ragazzi sdraiati sulle panche arrugginite e venditori carichi di scatole e sacchi destinati chissà dove, stringendo la borsa un po’ più forte e sudando un po’ più del dovuto. Poi, dopo un paio di fermate, sono saliti dei ragazzini: il più piccolo avrà avuto 12 anni, la più grande 17. Gridavano e sbattevano l’uno contro l’altro, picchiavano contro le porte e i sedili, trascinando i piedi scalzi, vestiti troppo poco. Ho capito senza guardarli troppo, ché non era proprio il caso, che sono questi i famosi ragazzini distrutti dal crack, persi, totalmente fuori controllo, capaci di qualsiasi cosa per 100 reais o un telefonino. Mi sforzavo di concentrarmi su altro, spaventata come mai mi era successo qui, e di colpo gli altri seduti intorno a me mi sono sembrati piccoli borghesi di periferia che andavano al lavoro: se fosse stato un film, le casse piene di cianfrusaglie da vendere in spiaggia si sarebbero trasformate in valigette 24 ore, e le facce segnate dalla vita in sguardi assenti di lavoratori diligenti.
Anche la scala della miseria insomma sa essere logaritmica. E inizio a capire perché le favelas cittadine possono essere un posto ambito dove stare, rispetto alla terra di nessuno della periferia nord.

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Rio/Dispacci #7

Poi ti chiedi qual è la differenza tra qualsiasi città al mondo e una in cui la giungla irrompe nel cemento e la natura si riprende i suoi spazi. Risposta fin troppo semplice: per esempio che a 200 metri dalla fermata del bus incappi in questi animali qui. E alla fine te ne vai tu, perché loro si sentono proprio a casa.

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Rio/ Dispacci #fuoriserie

Alzarsi ogni mattina con il sole in fronte e la foresta a un passo; accendere internet per aggiornarsi sull’Italia e scoprire che Berlusconi avverte Renzi, Berlusconi rompe il patto, Berlusconi all’ospedale, Berlusconi è finito, Berlusconi ha paura.
A volte le cose sono questione di prospettiva; la mia è che se quella è politica, ne faccio serenamente a meno.

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Rio/Dispacci #5

Non me ne capacito: Darwin mi deve una spiegazione. Perché dopo qualche giorno riesco a bere l’acqua del rubinetto, mi muovo in favela, parlo con chiunque e ho persino imparato a chiudere le porte dei taxi senza sbatterle – la cosa che li fa più imbestialire al mondo – ma per farmi muovermi a tempo di musica, qualunque essa sia, dovrebbero infilarmi un microchip gli alieni e telecomandarmi da Urano?
Ieri sera a Lapa matrone di 140 chili sembravano farfalle su tacchi a spillo, con il petto procace sodo come il marmo in un’unione mistica con le chiappe sopra le spalle, mentre io e i miei 51 chili di legno puro davano ginocchiate a un povero inconsapevole che si era offerto di farmi ballare. E non che non avessi assorbito cahipirinha a sufficienza a librare lo spirito; il corpo, tuttavia, me lo hanno imbalsamato precocemente.

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Rio/Dispacci #4

Strani fenomeni di osmosi con l’ambiente: partito fotografo, si è trasformato in wife beater delle favelas (e ne va fiero).

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Rio/ Dispacci #3

E quindi, Lula è stato un buon presidente?
Lula è arrivato che non aveva le scarpe, ora va in giro con quelle fatte a mano dagli italiani.
un tassista e il dono della sintesii

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Rio/ Dispacci #2

Così, dopo aver passato la mattina a fare foto ai turisti che fanno foto al Cristo sul Corcovado e il pomeriggio a fare foto con un drone su Ipanema, ieri sera ci siamo buttati via al Plataforma, un posto di samba e capoeira che negli anni 70 certamente deve aver fatto la sua fortuna, ma per evitare il fallimento oggi raccoglie turisti dell’Est Europa e del Sud del mondo incanalati da tour operator scadenti.
Odore di muffa e stantìo, cahipirinhe calde (calde, sì) e carta da parati penzolante facevano da contorno a uno spettacolo in cui anche i migliori sembravano scimmiette ammaestrate nell’attesa del colpo grosso, qualcosa tipo il nano mirabolante o la donna cannone. E invece, due ore di ballerine di samba con le calze, per di più rotte, dopo, il colpo grosso si è presentato sotto forma di un pasciuto intrattenitore, con uno frack liso rosso e nel taschino due parole in ogni lingua, arrivato infine a salutare il pubblico in ceco, russo, bulgaro, ucraino. E quando è toccato all’italiano, con uno scatto da anguille Gabri, Edo e io siamo corsi verso il palco – esiste un video, ma lotterò per tenerlo segreto – a cantare Volare, più freak dei freak, con tanto di ombrellino alla Fred Astaire che Gabri ha recuperato non so dove nel tragitto tra le poltroncine di legno e il palco.
Penso che alla fine ci abbiano persino gridato Bravo, ma forse me lo sto inventando: trance da palcoscenico. E cahipirinha calda.

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Rio / Dispacci # 1

All’aeroporto di Rio nessuno sembra essersi accorto che fra due mesi iniziano i mondiali e milioni di persone si riverseranno nella stanzetta col lineoleum consumato, sei sportelli di numero a fare il controllo passaporti e i doganieri che parlano tra di loro mentre stampano il foglio di ingresso.
A prima vista fiumi di parole sui massicci investimenti infrastrutturali per accogliere i visitatori paiono soltanto un’operazione per rassicurare noi ansiosi occidentali (e magari affidare qualche appalto).
Gli unici operai che ho visto al lavoro – ma sono appena arrivata – sono quelli che stamane alle sei hanno iniziato a trivellare fuori dalla mia finestra. Mi sono sporta a guardare rintronata dall’umidità e dal jet lag. Erano in sette: sei fermi immobile a chiacchierare e uno dietro alla macchina. Ahì Sudamerica.

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La differenza sta nel con

Sai, se ripenso a tutto, mi sento una deficiente perfetta, non posso crederci…
Siamo due deficienti, non ti allarmare. La differenza è che fra una settimana saremo due deficienti con una caipirinha in mano e l’oceano in faccia.

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