Valigie e beauty-case sono borghesi

L’evoluzione del bagaglio.
(Poi dici perché la mia famiglia mi tratta come un caso disperato).

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La pagina femminile di Pane e sharing. Dispaccio #1: Tecniche italiane di sopravvivenza

Alla ragazza che mi ospita in casa qui a Colonia si è bucata la ruota della bicicletta: apparentemente un dramma tipo olocausto atomico.
Così, ieri pomeriggio, tra un recupero di cibo e l’altro, ha trascinato me e l’altra coinquilina all’angolo della strada dove l’aveva abbandonata per cercare di ripararla (ignorava, ingenua, che finché si tratta di alimenti ce la posso fare, ma con la manualità sono messa peggio di un bradipo).
Arrivate lì e considerato lo stato della ruota e il fatto che non avevamo nemmeno uno degli strumenti che mi hanno spiegato essere imprescindibili, l’operazione pareva rapidamente naufragata e io stavo già sognando di trascinarle a mia volta a bere una birra al bar d’angolo.
Ma lei si guardava intorno disperata, fino a spingersi dentro un negozio per chiedere una mano al titolare, il quale da buon precisetto tedesco le ha spiegato che lui sarebbe stato certamente capace di aggiustare tutto e sostituire la camera d’aria, ma ci voleva il tempo giusto e gli attrezzi giusti, e cara amica riportati la bici a casa e quando avrai più tempo se ne parla. Auf wiedersehen
Nicole era così sconsolata che ho preso in mano la situazione. Ci penso io, le ho detto spingendo la bici fino al bar poco distante. Questa è una tecnica italiana, stai tranquilla.
Ho piantato la bici fuori dal locale, in mezzo a un capannello di ragazzi che in un altro Paese avrei definito hipster ma in questo si vestono tutti comunque così alla come capita che non saprei dire se il risultato finale era desiderato o meno, e ho spiegato loro che sono straniera, e non so proprio come si fa, ed è così difficile caspita essere in un Paese diverso e ho sorriso parecchio, e insomma la vecchia storia del fingiti una donna scema e incapace che chiede aiuto al superuomo e lo fa sentire importante è talmente vera da travalicare i confini e le dogane, e dopo cinque minuti – benché lamentandosi perché stava per inziare la partita del Bayern – un tizio con una maglietta bianca e due spalle larghe quanto corso Buenos Aires aveva tirato fuori da non so dove tutti gli attrezzi, e dopo altri dieci ci riconsegnava la bici perfetta tra i risolini generali.
Ero così esaltata di aver dato prova alle compostissime ragazze tedesche che l’italianità non è sempre un male (tralascio il dibattito seguitone: ma tu sembrare scema! E invece io essere furba!) che arrivate a casa ho deciso anche di cucinare un risotto con la zucca. E per essere io, e io in Germania, e io con alimenti da me stessa recuperati dagli scarti dei supermercati, stavo facendo un lavoro galattico. Peccato che finito il tutto, per dare un po’ più di zapore, le ragazze abbiano voluto metterci su quell’erbetta che non so nemmeno come si chiama perché in Italia penso sia proibita dalla Convenzione per i diritti dell’uomo, e nel resto del Nord Europa la piantano sul salmone crudo (qui si chiama Dill, comunque), tanto per dire quanto sono vicini i due sapori. Secondo loro, così era un risotto fantastico; io ho preso l’erbetta e l’ho tolta di nascosto.
Anche per questo sabato ho fatto mio figurone.

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Leggete Pane e sharing

Leggi Pane e sharing, leggi Pane e sharing, leggi Pane e sharing.

Nei prossimi due mesi, il racconto di viaggi e giornate all’insegna della collaborazione si sposta qui.
Cosa vuol dire in pratica? Che sto per partire per un tour a costo zero tra l’Europa e gli Usa alla ricerca delle esperienze più interessanti della sharing economy, e cioè tutte quelle cose che quando le impari ti paiono una figata pazzesca ma prima ti sembra impossibile che esistano, tipo andare a bere un caffè  in un bar nel quale smanettoni ti aggiustano l’iPhone solo per il piacere di farlo, o incontrare quelli che hanno convinto i supermercati a regalare alla collettività un po’ delle loro scorte alimentari  prima che vadano a male, o ancora quelli che si sono inventati un sistema di cambia valute peer to peer basato sulle banconote e sugli spiccioli che restano nel portafoglio quando si torna da un viaggio, per evitare le commissioni eccessive.

Insomma, vado a vedere quello che penso possa essere il meglio, spostandomi e dormendo grazie all’aiuto di altri. E se tutto questo può sembrare molto serio, l’immagine di me in mezzo a una schiera di teutonici germano-parlanti che poto alberi da frutta sprezzante dalla sciatica e raccolgo cibo  in casa di sconosciuti resistendo alla tentazione di mangiarne metà lungo il percorso vale da solo il prezzo del biglietto.

Leggete numerosi.

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On the road

Mark Lanegan, chilometri, la quarta o quinta vita dell’anno ad aspettare dall’altra parte della strada.

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Sos amica non incinta

Tutto intorno a me ci sono donne incinte. O neomamme. O impazienti trentaequalcosenni in attesa di diventarlo.
Nel perimetro allargato delle mie amiche e delle buone conoscenti – incluse straniere, donne in carriera, furono ribelli – quelle che non aspettano un figlio o non ce l’hanno già si contano sulle dita di una mano. Penserete che stia esagerando: e invece no.
Come ha commentato con ostentata razionalità una oggi, è una questione di anni, alla nostra età è normale (risposta appena sibilata: quale età?); oppure, più prosaicamente, è come se fossero piovuti spermatozoi dal cielo nella versione divertita di  una nonna circondata da carrozzine.
Il risultato sono conversazioni che da settimane si ripetono uguali. Identiche. Talvolta commosse. Spesso isteriche. Qualche volta lacrimevoli. Perché la scoperta che la maternità non è (solo) come la pubblicità ce l’ha insegnata, raffigurata, proposta, imposta, è amara assai.
Per anni, prima che qualcuna veramente provasse sulla sua pelle, abbiamo assorbito questa “narrazione tossica” in cui l’elemento di realtà (pianti, ragadi, sonno mancato, ansia allo stato puro, solo per citare i primi sintomi) è totalmente espunto dal quadro, a favore di immagini solari di mamme e bambini riposatissimi e sempre sorridenti che si attaccano a tette perfette alte fin sotto al mento fin dal primo vagito, mentre il marito, più delicato di Ken, monta l’ovetto in macchina per favolosi week-end a tre che quasi qualunque famiglia cancella invece dall’agenda per almeno i primi sei mesi.
In attesa che i sei mesi passino, non resta che sommergere le superstiti (superstiti, sì) di dettagli su battesimi, asili nido, svezzamento, ruttini, coliche e poi non ricordo più, che a un certo punto mi va il cervello in overbooking e inizio a sentire quella specie di fischio che faceva la tivù negli Anni 80 quando non c’era programmazione, per chi è abbastanza vecchio da ricordarselo.
Avevo sempre pensato che prima o poi avrei voluto fare due o tre bambini (ma anche che sarei diventata ricca e magra, e al momento non so quale delle tre sia più lontana: verosimilmente il ricca e madre, il che è tutto dire). Continuo a credere al mille per cento che, una volta superato l’inferno iniziale, i figli possano essere in assoluto la gioia più grande. Ma dopo questa estate sento che per recuperare dall’eccesso di bambitudine a cui sono stata esposta dovrei infilarmi a un raduno di hippy e consumare sostanze psicotrope in abbondanza.

Ps. Amica mia che sei incinta o neomamma e leggi queste righe, non ti offendere ti prego. E non stupirti nemmeno. Lo sai anche tu, spero, che questa è la realtà.

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Lezioni #1

Nella vita bisogna possedere una sola cosa: il passaporto.
(Keisube, agosto 2010)

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No thought control

Ho ricevuto una mail da Seul. In coreano. Prima di destabilizzare il mio interlocutore asiatico spiegandogli che aveva fatto un po’ di casino con l’alfabeto, ho provato a tradurla con Google (non vorrei avere sulla coscienza l’harakiri di un dipendente deluso da se stesso).
Sforzo vano: il servizio Translate ha ancora un po’ di strada da fare.

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Le conseguenze del couchsurfing

Ho ospitato due couchsurfer busker, che è il nome nobile per artisti di strada, che è il nome comune per freakkettoni con zaino, dreadlock e scorte di idealismo sulle spalle.
Ho messo da parte un po’ di paranoie e di pregiudizi e alla fine quasi ho invidiato la loro naiveté nutrita di semini e tisane, che mi hanno pure generosamente regalato. Peccato che quattro giorni dopo in casa ci sia ancora un odore pestilenziale: «Fanno benissimo alla salute», mi ha detto lui la sera che ha deciso di cucinare, tagliando mezza testa d’aglio e tre cipolle intere dentro al soffritto per altrettante persone.
Se l’odore non passa entro stasera chiamo i ghostbuster.

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Rischio d’impresa

Qualcuno ogni tanto mi chiede cosa fai da quando hai dato le dimissioni. La risposta figa è: «Scrivo un libro». Quella onesta è: «Mando tra le 50 e le 100 mail al giorno, passo 12 ore al giorno almeno davanti a uno schermo a leggere cose, ne programmo altre che erodono metà del mio micro-cumulo di risparmi e chissà se avranno un qualsiasi ritorno».
Tecnicamente, mi ha ricordato mio fratello, si chiama rischio d’impresa.
Credo che i nomi tecnici siano stati inventati per fare sentire un po’ meno peggio le persone.

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Il potere dell’audiomessaggio

Parental advisory – explicit lyrics
(Una volta questo era un blog per persone serie.
E vabbè, è andata così)

È iniziato un giorno che ero in motorino e diluviava: dovevo presentarmi a cena da un’amica, ero in ritardo, volevo raggiungere lo schermo dell’iphone in tasca e digitare un messaggio ma la pioggia lo impediva. Quindi, ho parlato: un audiomessaggio su whatsup. Nessuna fatica, risultato immediato e zero errori di battitura – galattico, specie considerato che nel 90% dei casi ricevo (e invio) testi che sembrano in cirillico e vanno disambiguati con l’aiuto di Google translator.

Stamane, un paio di mesi dopo quel pomeriggio, raccontavo a un’amica una serie di vicende un po’ complicate, sempre su whatsup. Ero partita scrivendo, rispondendo a sue sollecitazioni. Poi, intravedendo al largo della giornata il rischio concreto di trascorrere due o tre ore con il telefono in mano, ho pensato di accorciare i tempi e deciso di rilasciare audiomessaggi (alle dieci della mattina quasi tutti hanno ancora l’illusione di combinare qualcosa di produttivo nella giornata testé iniziata). Ho prodotto tipo 29 audiomessaggi in un’ora, da 30 secondi l’uno. Con enorme soddisfazione: finalmente riuscivo a raccontare anche le sfumature della vicenda; quando si scrive, normalmente, si taglia via: non è che puoi stare lì a usare troppi aggettivi o dare ricchezza al discorso perdendoti in dettagli. Bisogna essere essenziali: Praticamente non si capisce una mazza, ma poi ti racconterò meglio  è un mio whatsup standard.
Stamane invece aggiungevo, sibilavo, non dovevo ricorrere agli emoticon, me la ridevo, simulavo voci diverse con un delizioso effetto teatrale; e insomma, io e la Cooked stavamo lì al con l’iphone in mano e 300 chilometri nel mezzo a raccontarci la rava e la fava in un corso di psicologia avanzata del creato via audiomessaggi.
Ed ero così esaltata – forse anche perché il mio cervello non ha fatto alcuno sforzo lavorativo in tutta la mattina – che ho scritto su facebook la seguente:

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Quindici minuti dopo, sostanzialmente la mia intera rubrica telefonica mi aveva deliziato con un audiomessaggio (premio della critica a mio cugino Titti: Heidi cantata in versione Carmen Consoli e Vasco Rossi, genio).
Tutti incluso Nicola che, con il precisismo che lo caratterizza (precisismo è volontario, se non fosse chiaro), si è sentito in dovere di spiegarmi: «Sai perché la gente non manda audiomessaggi normalmente? Perché è pericoloso. Hai presente come gli hacker e le spie ascoltano e manipolano le nostre conversazioni? Ecco, non vorrai mica che qualcuno prima o poi butti su Internet la tua voce manipolata che dice “Mi piace il ca**o”?».
Non ho fatto in tempo a rispondergli che ho ricevuto un secondo audiomessaggio da lui.
«Ecco, porca miseria, mi sono reso conto che ho appena detto “Mi piace il ca**o” esponendomi a rischi inutili».
Ho riso talmente tanto che, ritenendo la storiella degna di essere condivisa, un paio d’ore dopo mandato un audiomessaggio a una terza persona per raccontare la teoria di Nicola su “Mi piace il ca**o”. La quale terza persona ha apprezzato abbastanza da continuare a ripetere “Mi piace il ca**o” e a valutarne gli effetti.

Riassumendo: soltanto quattro ore dopo la scoperta del potere degli audiomessaggi, possiedo già le registrazioni di due noti professionisti, musicisti e quant’altro che sbraitano sulle loro preferenze sessuali, scandendo bene: “Mi piace il ca**o”.
Se continuo questa storia degli audiomessaggi per una settimana, probabilmente arrivo ad assicurarmi un posto di lavoro iperpagato.

 

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