La vicenda dei quattro poliziotti che hanno massacrato di botte Federico Aldrovandi fino ad ammazzarlo e, condannati in via definitiva a tre anni e sei mesi (poi indultati), si sono messi a scrivere sui social network insultando la madre del ragazzo, è una di quelle cose che mi fa sognare di non essere una giornalista.
Vorrei non dover rispondere pubblicamente del ribollire della pancia e dei pensieri. Perché scriverei che una giustizia che punisce l’omicidio brutale di un ragazzo disarmato con tre anni e sei mesi non è giustizia. E che l’opacità del corpo alle dipendenze del ministero degli Interni, come già fu a Genova nel 2001, è degna di quei Paesi sudamericani che chiamiamo altezzosamente semi-dittature.
E no, l’Italia non è una dittatura né lo era ai tempi (bui) di Berlusconi, ma ha una endemica tendenza alla deriva squadrista, e alla sua protezione corporativa.
Scriverei anche che i peggiori sono quelli che dovrebbero denunciare tutto quanto. Perché un’informazione che relega la notizia a pagina 20, o nelle spalle laterali, o si affida a due take dell’Ansa al posto di alzare il telefono e farsi dire da quella donna perché le hanno ammazzato il figlio una seconda volta, non è un’informazione degna di questo nome. E’ una piccola casta troppo impegnata a guardarsi l’ombelico europeo per capire che la gente vive e muore con e senza l’Eurogruppo. Che la moneta unica la fanno e la distruggono, ma la vita e la dignità non te le restituisce nessuno.
Aldrovandi, mi vergogno io per loro
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