Siamo andati a vedere la mostra di Wim Wenders a Varese: foto di viaggi americani, da Paris Texas al Montana, e tutto il nulla in mezzo.
Prima di entrare, lui ha detto: «Dunque, stiamo per guardare delle foto di posti che abbiamo visto dal vivo, fatte da un regista e per di più tedesco, giusto?».
Giusto.
Trentacinque scatti dopo, lui ha siglato: «Comunque, io tra le foto di Wenders e le tue non ci vedo molta differenza».
Era una stupidaggine, anche solo perché Wenders va in giro con la pellicola e sa cos’è la luce mentre io gioco con l’iPhone e Instagram, facendo e cancellando 65 clic al minuto. Però è stata una stupidaggine bella, perché racconta una cosa vera di me.
Quando facevo l’università tornavo a casa di notte e, qualsiasi ora fosse, mettevo su uno dei film della Trilogia della città (Alice nelle città, Falso Movimento, Nel corso del tempo); ogni tanto, quando il bianco e nero mi aveva saturata, sceglievo Paris Texas e lasciavo che il vagare allucinato del protagonista abbacinasse i miei pensieri, fulminando le emozioni con quei quattro-cinque accordi di chitarra straziata.
Deve essere lì che si è formata la mia coscienza visiva, la mia capacità di guardare l’orizzonte e di farmi riempire dai suoi vuoti e dai suoi pieni. Ho assorbito, più che studiato, quella che nei libroni di semiologia del cinema si chiamava la primazia dell’immagine, la preponderanza dell’immagine su qualsiasi altro elemento cognitivo. E nella mia vita si è tradotta semplicemente in una specie di osmosi con lo spazio.
E’ stato vero per qualsiasi luogo abbia visitato negli anni successivi, ma è vero sempre e sempre più per l’America, la placenta della mia intera formazione.
L’America, i suoi campi lunghi, l’alternanza di ammassi costruiti e di pianure con bordi stondati, le verticalizzazioni, i volumi, le figure tagliate col righello sono diventati una specie di liquido amniotico: mi riempie anche senza fare niente. Mi basta stare ferma per assorbire il posto e la sua energia.
E quell’energia, quel modo di stare nello spazio, è tutto nei film (antichi) e nelle foto di Wim Wenders. Da lui l’ho presa. Ed è buffo come una persona che mai hai conosciuto e di cui non sai davvero nemmeno il pensiero – se si esclude la poetica, che almeno in parte è una pippa da intellettuali – ti abbia plasmato fino a questo punto. Devo a Wenders parecchi grazie.
Wim Wenders, Odessa, Texas, 1983