Qualche giorno fa è morto improvvisamente il padre di un amico. Era stato un tipo estremamente giovanile fino a pochissimo prima di andarsene, ma soprattutto era stato uno di quei padri ingombranti che in famiglia fanno parecchi casini: quelli che a vent’anni ti riempiono di rabbia e di vergogna; a trenta ti spaccano la testa, lo stomaco e, di certo, le storie; a quaranta inizi infine, se non a perdonare, quantomeno a comprendere. Un padre come il mio, insomma: dominante ma assente.
Mio padre l’ho racchiuso in questa definizione, emotiva e razionale, per anni: una faticosissima strategia di sopravvivenza, necessaria a superarlo. Eppure, vuoi l’età, la paura del Covid o la sofferenza della distanza, nell’ultimo anno con mio padre ho iniziato ad avere un rapporto via via più intenso: telefonate frequenti, weekend insieme, cene di famiglia. Poi è successo che la sua nuova moglie gli ha regalato un iPhone e lui ha imparato a usare whatsapp: una iattura per il resto del mondo – le chat coi genitori, i messaggi squinternati, le foto fuori fuoco – ma nel nostro caso una prova di normalità. Mi capita di scrivergli messaggi, quando so che andrò a trovarlo: Mi fai la pasta con le vongole? Ho voglia di pesce! Andiamo a vedere il nuovo Morandi? e leggere le risposte, che impiega un tempo eterno a digitare, mi fa sempre sorridere.
Sono stata male nei giorni scorsi e oggi, a metà del pomeriggio, ero a lavorare, ho trovato una notifica: Come stai? Ricordati di prendere le medicine. Vedrai che domani sarà tutto passato.
Ho pensato com’è bello avere un padre, quanto mi è mancato, quanto me lo voglio godere.
Com’è bello
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