La verità è che viene da fare gli scemi, a dispetto della serietà con cui si prendono loro. O, forse, proprio per via di quella: raffinamento del concetto abbozzato a Gerusalemme, quando abbiamo pensato di ridare una speranza a migliaia di figli di ultraortodossi condannati a una vita realmente incolore distribuendo copie di Playboy fuori dalle scuole medie, come invito all'(auto)erotismo. Eccoci, gli indiani metropolitani dello shabbattismo.
Che, già da sé, onomatopeicamente si presta, specie se ti svegli sopra un altopiano di sabbia nel mezzo del nulla e devi cercare un beduino vegano e senza denti per farti fare colazione perché quelli da cui andresti normalmente di sabato non toccano nemmeno il telefono. È lo shabbat, bellezza.
Se ne fregano le capre, che arrivano in mandrie a brucare sulla rotonda di Mitzpe Ramon l’unica erba che si vede in giro per centinaia di chilometri. Poi s’allungano fino al benzinaio, ma lì va peggio: al posto del verde ci sono solo vecchi seduti all’ombra che non s’alzano per i rari avventori, figuriamoci per le capre.
Le rotonde hanno un fascino spettacolare, specie di shabbat, quando arrivi a Be’er Sheeva – una colata di cemento che avrebbe voluto essere Houston o Sant’Antonio, ma è soltanto il posto più brutto che potresti costruire ai bordi di un deserto che non ha nulla da invidiare al Gran Canyon – e non c’è un posto per mangiare che non sia Domino’s Pizza, dove insieme a noi ripara un’americana stremata con al seguito cinque figli ma niente banconote, per scoprire nello sconcerto che è shabbat anche per le carte di credito.
L’accoglienza travolgente della città si plastifica nelle rotonde, monumentizzate con l’apposizione, in sequenza, di un carro armato e due jet guerra, caso mai il visitatore non avesse capito che si fa sul serio, qui.
E a questo punto stiamo sfrecciando sulla AyGo praticamente fusa dalle sgommate del Galimba in direzione nord, cantando My Shabbatta, adattamento della più nota My Sharona per cui abbiamo coniato diverse versioni mediorientali, e simulando – con la creazione di un simbolico GeGiù, mia prole – come dovesse sentirsi la Madonna incinta a spiegare a questi rigidoni che era stato lo spirito santo, e che dopo tanto dispiegamento di miracoli bisogna per forza nutrirsi anche di sabato, mica vorremo vanificare gli sforzi.
Nonsense in Terra Santa, già, ma in fondo è ben poca cosa rispetto all’assurdità del muro con filo spinato che sormonta Gaza, creando una gabbia affollatissima affacciata su una baia colorata da migliaia di conchiglie. Duecento metri più in là ragazzi israeliani fisicati e sorridenti – che hanno imparato l’arte del nascondersi nei bunker in pochi istanti, quandi le sirene annunciano i razzi di Hamas – giocano a racchettoni e sgasano con le jeep d’importazione americana sulle dune di sabbia; oltre la torretta un milione di poveracci non può nemmeno andare a pescare, in ottemperanza dell’assedio israeliano e per colpa dei crimini di un manipolo di banditi corrotti e fanatici che li governa.
Proviamo a entrare a Gaza dalla spiaggia, dopo che ci hanno già bloccato in macchina. Dalla torretta di sorveglianza parte un allarme continuativo che ci rispedisce indietro, tra i racchettoni e i barbecue.
Anche nel giorno del riposo, la vigilanza non dorme mai. GeGiù disapprova sentitamente, e con ogni probabilità anche l’originale che camminava sulle acque.
[bruceremo all’inferno, si sa: Gabri dice che è colpa dell’educazione libertina ricevuta in Val di Chiana. Io però son andata a scuola dalle suore].