L’India è anche quel Paese in cui per prendere un treno devi prenotare tre giorni prima, oppure accettare di fare a gomitate con decine di indiani, anche loro senza posto e quasi certamente senza biglietto, carichi di stracci e di diffidenza verso la donna bianca, per contenderti con loro dieci centimetri di panca dura su cui sedere.
Il treno, infatti, è una scatola metallica di quelle che se ne son viste nei musei alle elementari, fischia come la locomotiva dei film Western, non ha finestrini né porte né bagni, viaggia adagio adagio in prossimità di ogni fermata per consentire ad ambulanti di ogni genere di appendere le loro mercanzie ai giunti dei vagoni e di saltare dentro per fare affari.
Dentro si trova un’umanità assortita, che dice delle disuguaglianze e del razzismo del Paese più di mille libri. Giovani occidentalizzati ma non abbastanza da parlare un inglese comprensibile ascoltano musica sullo smartphone, svolgendo e riavvolgendo con cura maniacale le cuffie Apple nella propria custodia (gli auricolari sono originali; il telefono no); una ragazza musulmana si rifiuta di aver vicino donne bianche; gruppi di persone si tengono i posti a vicenda e scacciano chi non è dei loro; un’anziana scalza fruga con un bastone sotto ai sedile in cerca di cibo, poi si sdraia per terra nell’indifferenza generale e per ore tutti la scavalcheranno calpestandola un po’ (le ho offerto il mio posto, non l’ha preso); un ragazzo con i piedi (scalzi) piagati resta in piedi un po’ perché nessuno gli fa spazio, poi si arrampica nel vano bagagli e si addormenta.
Tutto intorno, sotto a vecchi ventilatori che penzolano dal soffitto, chi può si allunga sui sedili duri come il legno, nel sudiciume generale, e prende sonno finché il baccano della stazione successiva o l’odore della polvere di ferro che si leva dai binari lo costringono a svegliarsi.