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Shanghai Dispacci #2 e mezzo

E comunque alla fine quasi menandolo al medico l’ho convinto a darmi una cosa che avesse almeno le sembianze di un farmaco.
Perché fosse dipeso da lui, mi dava una di queste belle bustine qui.

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Shanghai Dispacci #2

Alla fine sono dovuta andare da un medico. Seduto tra le sue radici di zenzero mi ha detto che ho una piccola infezione dei bronchi per via del freddo e dell’inquinamento; pare che un sacco di stranieri si ammalino quando arrivano in Cina perché l’aria fa schifo (lui non ha detto proprio così, ovviamente).
Comunque Shanghai è una città paracula. Ha saputo vendere tutto, persino la propria miseria. Gli hutong (vicoli) di Pechino qui sono foderati di gallerie d’arte che vendono fotografie fashion dei poveri cristi. Mi pare un posto senza anima, un po’ Tokyo un po’ Hong Kong ma senza l’autenticità di nessuna delle due, specie tra la gente. Chi vive a Shanghai cerca sicurezze, opportunità e la certezza che qui non ci saranno grane, come mi ha spiegato mirabilmente la general manager (cinese) di un’azienda occidentale, persona di grande cultura tra l’altro. Insomma: un porto franco con uno skyline memorabile, ma dove non potrei vivere più di una settimana.
Dopo due giorni ho già i bronchi devastati, tra l’altro.

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Shanghai Dispacci #1

Cercavo una farmacia a Shanghai (le pastiglie di bacche non sembrano efficaci: oggi ho consumato quattro pacchetti di fazzoletti e mi sento uno straccio); invece mi sono imbattuta in un parrucchiere.
Sono entrata scatenando il panico. Bionda e mossa: mi studiavano concentrati come al congresso mondiale di fisica quantistica. Per prendere tempo mi hanno offerto un tè con biscottini, che ho divorato. Il capo dello staff si è subito precipitato a fare dei gesti: are you hunger? Si vede che avventarsi sui dolcetti non usa: in effetti tutti gli altri clienti li hanno lasciati (quando era girato, ho provato anche a fregare quelli del mio vicino). Poi uno dei quattro parrucchieri del mio staff personale si è innamorato e ha usato il traduttore simultaneo del cellulare per comunicarmelo. Io, pochi istanti dopo, ho preso in prestito il suo cellulare per digitare sullo stesso traduttore: do you have a bathroom?
Poesia.
Mi giravano intorno come fossi l’attrazione migliore del circo; tutti gli inservienti passavano a turno e si davano di gomito per mettere anche loro una cartina sui miei colpi di sole (ovviamente a mani nude). E, a parte che fra un po’ mi si squamerà il cuoio capelluto a causa dei prodotti usati (e che mi hanno pettinato come barbie fior di pesco), devo dire che alla fine sono stati bravi; ancora una volta ho sfidato la fortuna e il buon senso e mi è andata bene. Per non dire che l’osservatorio sulla Shanghai dei privilegiati che vanno a farsi pulire le orecchie con i cotton fioc (giuro) nel salone di estetica vale almeno quanto le considerazioni di Kissinger nel libro sulla Cina che sto leggendo.
Ah, il prezzo. All’inizio la cassiera ha digitato 780 renminbi sulla calcolatrice, al che ho risposto in italiano: Amica per quei soldi vado dal mio coiffeur di fiducia a Milano. Dubito che abbia capito, ma nell’incertezza ha subito dimezzato la cifra. 20130106-211848.jpg

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Pechino Dispacci #7 e tre quarti

Esperienze/3

Parafrasando Dylan How many scorpions must a man eat down/ before you call him a man?

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Pechino Dispacci #7 e mezzo

Esperienze/2
Ammalarsi in Cina e andare in farmacia in cerca di Benagol e spray Iodosan. Per trovare, invece, questo.

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Pechino Dispacci #7

Esperienze/1
Camminare sulla Grande Muraglia, con il cielo e il sole così vicini da sentirsi accaldati a meno venti gradi.

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Pechino Dispacci #6

Non ricordo quando Hu Jintao o Deng Xiaoping annunciarono l’obiettivo piena occupazione, ma capisco benissimo come la Cina pensa di ottenerlo.
Per esempio mettendo una signora sugli autobus – alcuni perfettamente automatizzati, con tanto di schermo per indicare le fermate – a guardare la gente che versa la banconota da uno yuan (circa 20 centesimi) del prezzo della corsa in un’apposita urna. La signora dovrebbe in teoria anche staccare i relativi biglietti, che invece restano per lo più sul ripiano di fronte a lei (il che mi induce a pensare che a fine servizio una parte delle banconote finiscano nelle sue tasche, arrotondando lo stipendio che immagino magro).
Oppure ci sono i signori che raccolgono i mozziconi dalla strada uno a uno, mentre poco oltre i colleghi girano su macchinette analoghe alle nostre per lavare a terra, e poco oltre ancora altri colleghi svuotano i bidoni e passano con le spazzole (curiosità: il manto stradale è limpido, il marciapiede non altrettanto).
Ci sono anche le signore rubiconde che alla fine della giornata (alle 17 si ammainano le bandiere in piazza Tien An Men fino all’indomani) smistano con entusiasmo davvero di regime le persone ferme alle fermate del bus, invitandole a salire sul proprio mezzo.
Dubito che gli stipendi di questi lavoratori servano a molto più che una decente sopravvivenza, ma se non sono questi i membri del ceto medio di cui tanto si discute a Occidente, ho comunque il forte sospetto che la middle class cinese già esista, almeno nelle aree urbane.
I luoghi storici, i ristoranti, i parchi, la metropolitana sono pieni da scoppiare. E sono affollati praticamente solo da cinesi: per lo più di Pechino, ma anche turisti in arrivo da Shanghai, Canton, Chingquing. Turismo interno, medio spendente. Non sono i super ricchi, gli oligarchi del renminbi, funzionari di partito o affini. Sono persone comuni con lavori normali che iniziano poco a poco, e con una certa diffidenza verso tutto ciò che non è tangibile (carte di credito e bancomat sono praticamente sconosciuti), a spendere.
Il punto – ma questo merita una riflessione approfondita – è quanto le nostre aziende possano penetrare in questo tessuto umano e sociale. L’Occidente spera nel miliardo di consumatori cinesi per ridare spinta alla propria economia giunta al capolinea, ma la storia della Cina rivela che i cinesi scelgono se stessi, sempre. Non hanno desideri di contaminazione (né, almeno storicamente, di colonizzazione) né tentazioni straniere: vogliono la pace sociale e il benessere in casa propria, sentendosi oltretutto superiori a qualsiasi altra civiltà. E dunque, penso, quando tutti inizieranno a consumare compreranno le macchine che loro producono per se stessi, non le Fiat. Si ripiegheranno in se stessi, non avendo più bisogno nemmeno della valvola di sfogo che oggi siamo per loro noi consumatori (e debitori) occidentali.
Il che riporta tutto a quello che mi ha detto Le Goff nell’intervista linkata qualche post più sotto: nel 1500 la Cina era nella stessa condizione di oggi, poteva conquistare il mondo. Invece si eclissò senza spiegazioni.
Chissà se le multinazionali ci hanno mai pensato.

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Pechino dispacci #5

Facce tumefatte da jet lag

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Pechino Dispacci #4

Ho incontrato una signora che vendeva i soliti spiedini fritti di pomodori e similia all’ingresso della città proibita.
Mi ero quasi decisa a provarne uno, quando lei – abusiva – ha visto con la coda dell’occhio dei gendarmi in arrivi. Ha emesso un gridolino e infilato tutto il suo carico nel cestino dell’immondizia adiacente, aprendolo da dietro, come si fa per pulirli.
È rimasta a girare intorno al cestino qualche minuto poi, dopo il passaggio della guardia, ha estratto i suoi spiedini dalla spazzatura e li ha rimessi in vendita.

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Pechino Dispacci #3

Cineserie che ti salvano la vita
(C’è chi riesce a proteggersi dal freddo mantenendo sembianze umane. Io no).

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