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eventually

Here comes the sun.

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Chi di swing ferisce

[Antefatto. La settimana scorsa Alitalia mi ha perso il bagaglio sia all’andata che a ritorno da Chicago: due volte in meno di dieci giorni. E’ arrivato a Milano appena in tempo perché, senza nemmeno disfarlo, lo caricassi su un nuovo aereo per Londra. Adesso, bloccata a Londra dalla famosa eruzione del vulcano, chiamo il callcenter Alitalia – su loro precisa indicazione – a 0,70 centesimi al minuto e mi tengono in attesa 48 minuti d’orologio; quando finalmente un’addetta mi risponde mi dice che avrei dovuto selezionare il tasto 1 al primo menù di scelta: così non mi può proprio aiutare. Su suo suggerimento, invio una email all’assistenza clienti: ricevo un Out of office automatic reply. Da ultimo, provo a consultare il sito: the server is too busy. Quando si dice un’efficace gestione della crisi].

E quindi bloccata a Londra. Giro con un amico che vive qui e incontriamo un po’ di giovani rampanti neoyuppie della finanza, tutti rigorosamente di stanza tra South Ken e la City, quartieri bene di ragazze con tacco dodici, pochette sotto braccio, capelli lunghi e vestiti luccicanti, accompagnate da giovani uomini di sicura carriera, camicie strette, capelli ben tagliati e vacanze estive già programmate. Figge de famiggia udù de bun che ti peu ammiàle senza u gundun, cantava De André.

Affondati su divanetti di pelle, forse umana, di locali posh dove tre cocktail si pagano con la carta di credito, mi sforzo di chiacchierare con questi amici di amici di cugini di ex compagni di università che ci si ritrova a vedere di quando in quando in virtù della comune condizione di italiani della diaspora. Scopro che hanno poco più di trent’anni e vivono qui già da sei o sette; ci sono arrivati da neolaureati, magari con uno stage in Goldman Sachs, e poi ci sono rimasti, fino a diventare senior analyst più qualche altra parola incomprensibile, che tutto insieme significa che sono quelli che gestiscono fondi, derivati, quattrini e tutte quelle operazioni che complessivamente spostano gli equilibri mondiali, fino ad arrivare al nostro conto in banca, al prezzo della benzina, alla difficoltà di pagare le bollette perché i costi energetici sono schizzati oltre l’immaginabile, a dare a chi ha lavorato per quarant’anni una pensione che sia almeno dignitosa. Poi alle sette escono dall’ufficio, montano su un cab e si ritrovano per qualche drink in questi bar lucidi e lucenti, melting pot del meglio dell’intellighenzia finanziaria che sarà, e parlano di cosmetici e automobili, vacanze e pizze, di come Londra sia difficile da girare e cose così, tremendamente normali.

Storco il naso e risulto antipatica, come sempre mi succede quando mi sforzo di contenere giudizi certamente affrettati su persone che mi risultano a pelle insopportabili. Ma è la mancanza di consapevolezza che mi atterrisce. Non è colpa loro, ovviamente: come nella catena di montaggio, ognuno fa bene il proprio piccolo pezzo di lavoro e magari non si rende nemmeno conto di quale sarà il prodotto  finale. Ancora più ovvio, per chi ha studiato brillantemente economia, marketing e finanza, a 23 anni uno stipendio di parecchie centinaia di pound nelle società più swinging della swinging London è un traguardo (o un punto di partenza) tremendamente meritato. Eppure il risultato finale è questo: una generazione di giovani professionisti tanto efficienti quanto alieni al reale, che si muovono come schegge impazzite sullo sfondo di una città in cui è possibile vivere sempre on the edge, che del doman non v’è certezza.

Leggeranno i giornali? Si porranno le questioni etiche che rimbalzano dalla Casa Bianca alle discussioni dei bar di paese? Avrei voluto chiederglielo ma non l’ho fatto, per paura delle risposte.

[P.S. La scritta della foto è stata scattata all’interno del bagno del Dolphin, Hackeny Road, quartiere popolare dell’East London dei film di Ken Loach che furono; mercati di fiori, ristrutturazioni di ex fabbriche di mattoni rosse, localini accoglienti e colorati, prati enormi e aria frizzante. Se siete in partenza per Londra, fate un salto in Columbia Road e Shoreditch High, e vi sentirete sollevati].

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Pastorale americana

(subtitle: Scarni appunti di viaggio).

Il mio rapporto con l’America oscilla da sempre tra il “te l’avevo detto” e “solo gli stolti non cambiano idea”. Ovvero, tra il rassegnato e l’entusiasta.
Da qualche giorno sono a Chicago per lavoro: non fosse che mangiare un’insalata verde è più difficile che trovare dieci dollari per terra, potrei innamorarmene.

(Il fatto che sia la città di Obama ha il suo peso, ma se fosse nato a Milwaukee dubito che mi avrebbe fatto lo stesso effetto).

La mattina mi sveglio alle cinque per il jet lag – sto invecchiando, una volta non mi succedeva – e gironzolo sotto la luce abbacinante del Lago Michigan lungo Millenium Park, dove stanno girando un film: cinque persone diverse vedendomi con una cartina in mano mi chiedono se ho bisogno di aiuto. Mentre pago dei libri da Barneys and Noble la commessa si complimenta sulla scelta dei titoli e chiacchieriamo un po’. In coda per entrare alla Sears Tower la signora davanti a me si offre di comprarmi il biglietto mentre vado a cercare un bagno. In qualsiasi negozio, all’entrata c’è qualcuno che ti saluta e chiede come va, e così all’uscita, anche se non hai comprato niente e magari hai anche sporcato il pavimento.

Poi, c’è lo sport. Tutto quello che c’è da sapere sull’America si può scoprire durante una partita di basket. Meglio dei libri di sociologia, degli articoli di fior fior di corrispondenti, di film che hanno segnato la storia. Ho imparato una cosa: dovunque capiti negli States, la seconda cosa da fare è comprare il biglietto per una partita – c’è sempre un big match, in qualsiasi città americana – e arrivarci un’oretta in anticipo (la prima è leggere il New Yorker, ovviamente).

Dall’obesità come modo di essere, ai marine che si esibiscono nel lancio acrobatico del fucile – giuro, giuro – durante l’intervallo; dai lustrascarpe all’ingresso, alle cheerleader biondissime che firmano poster; dalla musica assordante anche durante la partita, ai ragazzi che girano con i cartelli “Make some noise” per incitare la squadra; dalle famiglie con bambini – tutti rigorosamente sportivi, sorridenti, affabili – ritratto della media, operosa borghesia con il pick up in garage, alle coppie miste che si scattano foto davanti alla panchina dei Bulls. In un big match c’è dentro tutto. Gigantesco, rumoroso spettacolo: l’America stessa.

Eppure. Eppure ci vogliono gli anticorpi per reggere gli States. E un cuore perfettamente funzionante per non avere un’ipercolesterolemia alla seconda settimana di permanenza.

Cose che non tollero. Perché, nonostante gli anni trascorsi, le discussioni a livello mondiale, l’evidenza empirica che la loro alimentazione non funziona, gli americani non riescono a mettere nel piatto del cibo-come-dio-comanda? Mi sento quasi anoressica in un ristorante americano: “Scusi, la carne è cotta nel burro? Ecco no, allora non ce lo metta. E poi un’insalata. No, no, niente condimenti: non è che ha dell’olio normale? E il pane no, senza formaggio fuso sopra. Anzi, lasci stare il pane va, che tanto è cotto nello strutto”. Il cameriere mi guarda pensando a quanto sono rompicoglioni; vorrei dirgli di guardare le sue coronoraie.

Poi c’è questa cosa che da qualche tempo sto cercando di smettere di mangiare carne. Carne di allevamento, e cioè tutta, praticamente (vedasi: Eating animals, Jonathan Safran Foer). Negli States, ancora più che a Londra, questa cosa è sostanzialmente impossibile: perché la bistecca è l’unica cosa in qualche modo sana che si possa ordinare. Qualsiasi altro piatto arriverà cosparso di burro e formaggio fuso e asparagi fritti (anzi, deep fried come sta scritto nei loro menù, come se fried da solo non fosse sufficiente).

E ancora, il buco nero culturale in cui si può sprofondare appena girato l’angolo. Una tizia ieri stava cercando di convincermi che il surriscaldamento globale è solo un’invenzione di chi vuole vendere più pannelli solari a scapito dei petrolieri (per danneggiarli, no?); Sarah Palin va in Tv a dire che Obama non può parlare di nucleare perché non è un tecnico (come se Kissinger fosse stato un ingegnere dell’atomo) e decine di mentecatti la acclamano come se fosse Jordan sotto canestro. Un collega l’altro giorno mi ha detto: “Cosa volete saperne voi dell’America, abbiamo più giornali noi a New York che voi in tutta l’Italia”: un superomismo sciovinista condito probabilmente con una robusta dose di ignoranza – quando andavo a scuola qui il 97% dei miei compagni non sapeva collocare l’Italia sulla cartina geografica: per la statistica è altamente probabile che qualcuno di questi sia finito a fare il giornalista.

Poi però ti sintonizzi sulla Cnn e senti il Presidente parlare, vedi gli occhi emozionati della speaker nel presentarlo – occhi che brillano di orgoglio – e pensi che solo un posto immensamente grande poteva eleggere una persona così alla Casa Bianca. E per un po’ puoi anche dimenticarti dei panini al burro, della carne da allevamento e del supertestosterone di molti americani.

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Usa, ’96-2010

Nel giugno 1996 avevo 16 anni e quattro mesi, un caschetto di capelli biondissimi e un paio di enormi valigie da portare con me dall’altra parte del mondo. Parecchie settimane prima, sull’onda di un entusiasmo mai intaccato dalla razionalità, avevo superato le selezioni per un programma di studio negli Stati Uniti: 14 mesi di permanenza e il quarto anno di liceo da terminare lì.

Mentre raccoglievo peluche, scrivevo biglietti agli amici e confezionavo cassette da ascoltare durante il Grande Volo (l’espressione era presa in prestito al più noto romanzo di Enrico Brizzi, uscito l’anno precedente, una sorta di manifesto generazionale per quelli della mia età), mi figuravo e raccontavo la cosa a tutti con le aspettative e la gioia dei pellegrini dei Mayflower; d’altra parte per me allora gli States erano Beverly Hills 90210, la possibilità di guidare la macchina, le palme di Rodeo Drive, il rock ‘n’roll e il rock duro e puro, le spiagge infinite della California, i pancake a colazione e la libertà di appoggiare lo sguardo in qualsiasi punto senza avere nulla a nascondere la linea dell’orizzonte.

Ricordo come fosse ieri il giorno della partenza: un aereo della TWA diretto ad Atlanta era saltato in aria soltanto il giorno prima e mia madre a Malpensa piangeva lacrime incontrollabili. Non era il pericolo che l’aereo esplodesse a preoccuparla, ovviamente, ma questo lo avrei capito soltanto molto dopo. Io, invece, non stavo nella pelle: avevo fretta di salutare i miei e imbarcarmi per quello che sentivo come il primo momento infinitamente grande della mia vita: e su questo, almeno, non sbagliavo.

New York alle sei del pomeriggio era avvolta in un’afa umida e un po’ puzzolente: i giorni dell’ecosensibilità dovevano ancora arrivare e fuori dal Jfk orde di pakistani sgasavano sulle loro Mercedes gialle anni ’80 forti della benzina a 70 centesimi al gallone. Mi guardavo intorno, frastornata dai rumori e dalla luce di un tramonto che si rifletteva sui grattacieli di Downtown, e mi sembrava di galleggiare nell’aria, con lo stordimento misto a compiacimento e quell’euforia che mi faceva sentire improvvisamente adulta e in possesso dell’intero mondo.

Il mio innamoramento per gli States durò l’intera estate, passata a scorazzare sui prati di Yale e nel Greenwich Village, in giro per Brooklyn sui rollerblade comprati per sentirmi subito una di loro (insieme alle magliette indossate inside-out, alla rovescia, come ogni teenager a stelle e strisce che si rispetti), tra le spiagge chilometriche di Long Island e nei fast food a rimpilzarmi di schifezze: allora Mc Donald’s aveva ancora un che di esotico per noi italiani di provincia.

Il mio primo impatto con le stranezze americane si consumò ad agosto, poco prima dell’ingresso nella nuova scuola: a una grigliata di amici addentando un hamburger strafarcito di grassi mi si ruppe un dente. L’intervento del dentista, della durata di un’ora al massimo, mi costò 600 dollari tondi tondi. Una certa sommetta, specie quindici anni fa. Faxai la parcella a casa, insieme alla richiesta di rimpinguarmi il conto in banca, e me ne dimenticai di lì a poco.

Ma l’idillio stava per incrinarsi: i primi di settembre un amico dall’Italia mi inviò un poster di Che Guevara, con dietro una lunga lettera. Lo attaccai commossa nella camera in cui alloggiavo, presso una famiglia di riccastri newyorkesi; dopo due settimane mi sbatterono fuori con l’accusa di fare politica in casa loro. Non sapevo, e con l’ingenuità dei sedici anni anche se lo avessi saputo non avrei saputo come interpretarlo, che lui era una prima linea del partito Repubblicano locale, e che Che Guevara per loro rappresentava un’ossessione comunista più o meno come i giudici oggi per Berlusconi. Fui trasferita, come la merce pericolosa, a qualche centinaia di chilometri di distanza, nel gelo siberiano di Washington D.C. Ad accogliermi una nuova famiglia, questa volta composta praticamente da due ragazzini: Mike aveva 35 anni, era un maggiore riservista dell’esercito e lavorava al NSA (National Security Agency), per cui ogni volta che parlavo al telefono con i miei lamentandomi di qualche cosa mia madre mi ammoniva preoccupata: “Non dire niente, che quello di sicuro ti capisce”; Mel aveva 29 anni, pesava duecento chili, etto più etto meno, aveva un passato nell’esercito e si occupava di spostar tir contenenti non so che lungo le highways americane. Brooke completava il quadretto: due anni e mai una parola spiccicata fino ad allora e in tutto l’anno della mia presenza.

Mel e Mike venivano dal Mississipi ed erano di colore; credo che all’epoca, nella Chiavari bene in cui ero cresciuta, non esistessero famiglie di immigrati. Il fatto di avere la pelle di un colore diverso era strano più per loro che per me: io la vivevo come un qualcosa di esotico, mi nutrivo di musica soul (l’unica che ascoltassero, con una sorta di rigetto per tutto ciò che non fosse colored), ascoltavo i loro racconti su posti lontani e poverissimi e sull’esercito in cui entrambi si erano arruolati per poter studiare; loro mi vedevano come la figlia bene dell’alta borghesia italiana, una che di certo non poteva capire cosa significasse nascere neri nel Mississipi degli anni 60.

Avevano ragione, ovviamente, anche se rischiavano spesso di sconfinare in un razzismo al contrario. Ma a vivere con loro, che comunque erano benestanti e giovani e divertenti, imparai più cose sull’America che andando a scuola, dove seguivo corsi ridicoli prendendo sempre il massimo dei voti (nota di colore: il mio primo tema, un commento a Medea, la tragedia, prese il voto più alto di tutta la scuola. Lo portarono in giro di classe in classe, trattandomi come il genio italiano; in realtà credo fosse in un inglese stentato e probabilmente sgrammatico: evidentemente però meno sgrammaticato di quello dei miei compagni). Viaggiammo in lungo e in largo: Georgia, Mississipi, Missouri, South Carolina, North Carolina, California, Illinois e via discorrendo. Spesso ci scontravamo – Mel era lunatica e scostante, probabilmente un po’ gelosa di una ragazzina nel fiore dell’adolescenza vicino al marito – ma discutevamo anche tanto di cose importanti, come la politica e la loro devozione all’esercito. Entrambi votavano per i Repubblicani (nel ’97 Clinton vinse il suo secondo mandato alla Casa Bianca), e il perché non mi fu mai chiaro, considerata la loro storia personale.

Ho parlato con loro per l’ultima volta dopo l’11 Settembre. Poi, per via del mio vagabondare e del passare degli anni, ci siamo persi di vista. Ma sono certa, assolutamente sicura al mille per cento, che entrambi abbiamo votato per Obama nel novembre 2008. E sono ancora più sicura che l’abbiano vissuta come una rivincita personale, come un sogno diventato realtà, esattamente come profetizzato dal Dottor King. Non potrebbe che essere così: io stessa, bianca con a cuore la storia, l’ho vissuta in quella maniera. Obama ha lo stesso carisma e la stessa struggente umanità di Martin Luther King, la capacità visionaria, la consapevolezza di ciò che la politica è e può fare: cambiare le sorti del mondo. Lo ha dimostrato oggi, con l’approvazione della riforma sanitaria, una scommessa vinta con la capacità di schiantare decenni di stereotipi e ingiustizie e lobbismo sulla pelle della gente.

Gli estemisti di destra definiscono Obama un socialista; pensando ai nostri socialisti mi sembra un insulto molto peggio di quello che vorrebbero, ma loro di certo non capirebbero perché.

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Deep blue skies

Sono andata a vedere la mostra di Steve Mc Curry, in extremis: doveva chiudere il 31 gennaio e l’hanno prolungata due volte, vista l’affluenza sensazionale.

Basta un’occhiata d’insieme alla sala per capire perché: i colori fanno festa, mentre la profondità di sguardi ti inchioda alle pareti mentre passeggi tra una foto e l’altra. E non sei tu a guardare i soggetti ritratti: sono loro a guardare te. Non so quanto Mc Curry post produca le immagini – alcuni si lamentano, pare che lavori troppo sul colore – ma se è anche così poco importa. Il risultato complessivo è quello di un viaggio lunghissimo, che vorresti durasse di più.

C’era qualche scatto asiatico simile ai miei: la madre cambogiana col bambino, il piccolo per terra con gli occhioni sgranati, i bambini davanti a Angkor che si tuffano nelle pozze. Mi è venuto da sorridere: è bello sapere cosa ha provato il fotografo in quel momento lì, cosa c’era intorno, come profumava l’aria, quanto doveva aver camminato per arrivarci. Ti senti un po’ a casa tua guardando una foto fatta dall’altra parte del mondo.

E poi, come sempre, mi si è riaccesa la chimera del viaggio per il viaggio: farne uno stile di vita, al posto che uno strumento di lavoro. E’ un tarlo che mi lavora da mesi. Non so conciliarlo con tutto il resto ma non riesco nemmeno a mandarlo via, e questo qualcosa deve significare.

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Vetri

Guardo il mondo dal finestrino. Non nel senso che sto alla finestra; nel senso che salgo su aerei, treni, taxi, pulmini e pigio il naso contro al vetro, per vedere meglio cosa c’è fuori.

Milano-Gressoney, su una Punto. Poca neve e tanto freddo, in queste valli che sanno reinventarsi come i migliori trasformisti: d’estate vivono sulle correnti del Sesia, che stuoli di giovani in cerca di emozioni solcano su kayak o gommoni; d’inverno accolgono altri pazzi – questi veri – che si buttano giù dalle cime del Monte Rosa senza protezioni, lavorando di lamine e fantasia.

Rientro a Milano dopo la mia prima giornata di snowboard: non ci sono maestri disponibili e opto per il fai-da-te, confidando sui soliti similcampioni desiderosi di insegnarti, tacchinarti, dare sfoggio di sé. Non sbaglio, infatti. A sera affondo nel sedile della Mini di amici col coccige dolorante e la schiena che urla, scoprendo che esistono anche gli autogrill politically correct, quelli che non vendono riviste porno dopo le 22: forse non gli va che i camionisti gettino fazzoletti farciti di liquido seminale nei loro parcheggi.

Milano-Napoli, l’indomani. A Linate il mio aereo ha un’ora e mezza di ritardo causa nebbia; la hostess capisce e mi fa imbarcare su quello precedente, con il gate giù quasi chiuso. In prima classe ci sono solo coppie annoiate che non si rivolgono la parola e affondano nei rispettivi quotidiani; cambio posto per pigiare il naso contro il finestrino e scopro che se si potessero bucare le nuvole con uno spillone ne uscirebbe il sole. A dieci minuti di altitudine il grigio cenere che avvolge la città lascia spazio a un sole morbido e caldo, che mi rallenta i movimenti e sembra farmi galleggiare sopra i pensieri e gli sguardi. Le ali tagliano nuvole soffici; penso che potrei stare in volo dieci ore e stare bene. Ma il volo è invece corto, a Napoli si atterra tra le case, la traiettoria sfiora la scalcinata autostrada e a terra la cantilena locale e il profumo di caffè accolgono in un abbraccio luciferino.

Napoli-Ercolano, in taxi. Siamo in Italia, in Libia o ancora in Vietnam? Mi sento come se avessero messo un filtro seppia sul finestrino, con le case che virano all’ocra, i palazzi scalcinati e i segnali stradali ammonticchiati gli uni sugli altri, confusi e superflui. Il taxista vuole sapere cosa ci faccio a Napoli, “ma il tuo fidanzato ti lascia muoverti da sola?”, vaglielo a spiegare che tocca uno dei nodi cruciali di un’intera esistenza, non proverò però a intavolare con lui una discussione sull’indipendenza e la necessità di spazi vitali e di essere se stessi trascinati dalla corrente, che se gli altri vogliono fermarmi stanno cercando di soffocarmi, e quanto ci vuole a capirlo, ci ho messo 30 anni io, non basta certo il tragitto Napoli-Ercolano, ecco. “Sono qui per lavoro”, “Allora ti compro un regalo per te”. Al casello della tangenziale un tizio vende cornetti portafortuna, l’oggetto più napoletano che si possa immaginare, il taxista me lo dona in mezzo a un mare di cemento, con il Vesuvio imbiancato alle spalle e il mare quello vero che brilla in lontananza, la sagoma di Capri a profumare di primavera. Mi schernisco imbarazzata, ma in fin dei conti sono contenta, finché non lo perdo lo guarderò con tenerezza.

Ercolano-Napoli-Verona. All’aeroporto bevo caffè su caffè, non importa se poi non dormirò, è uno di quelle godurie a poco costo che riempiono l’anima (e non ingrossano le chiappe, a differenza delle sfogliatelle di Gambrinus). All’imbarco rifletto su come siano perfettamente riconoscibili gli uomini di mezz’età della Napoli bene, sembrano fatti con lo stampino: chiome ancora folte e curate, tra il grigio e il bianco, volti abbronzati, lineamenti morbidi anche quando i volti sono squadrati. Hanno buone maniere che confinano con un manierismo un po’ posticcio, e occhi brillanti che tradiscono il desiderio delle carne senza bisogno delle boutade brianzole così in voga dalle nostre parti.

Verona, stazione ferroviaria. Il vetro della biglietteria. “Mi dà un biglietto per Bolzano?”. “Non posso signorina, non riesco a prenotarlo, prenda quello dopo”. “Non posso, ho un appuntamento, come devo fare?”. “Salga sul treno e prenda la multa”.

L’intercity è troppo sporco per attaccare il naso al finestrino, ma il paesaggio che scorre si intuisce anche se puntinato del marrone di vetri non lavati da mesi. Lo trovo desolante: la montagna senza neve mi sembra brulla e triste, senza ragione d’essere. Il cemento di casette regolari e razionali e mortificanti si insinua tra le valli, lasciando intuire lo scorrere ordinato di vite regolate col misurino.

Milano-Barcellona, il giorno del mio trentesimo compleanno. Per la famosa teoria del battito delle ali di una farfalla a Pechino che causa un uragano in Africa – più o meno, diciamo – uno sciopero dei controllori di volo francesi mi costringe a sette ore di attesa sugli striminziti sedili di plastica di Linate, l’aereporto meno accogliente d’Italia, fatta eccezione per Malpensa, ovviamente. Pochissimi negozi, un paio di mediocri ristobar, bagni che differiscono poco da quelli dello stadio di San Siro e soprattutto un linoleum consunto che ogni volta mi ricorda l’aeroporto di Bogotà dove ho passato una notte qualche anno or sono. Nonostante sia affollato da business man che non cessano un attimo di parlare al telefono – è quasi sera quando penso di chiedere a uno che telefono abbia, che io una batteria così me la sogno, infatti il mio iPhone è già attaccato in carica tra un bidone dell’immondizia e l’ingresso della toilette – Linate è una delle cose meno business del mondo, a partire dalla triste considerazione che pur distando cinque chilometri in linea d’aria dal centro cittadino praticamente l’unico metodo per raggiungerlo è il taxi.

Seduti affianco a me due colleghi, che non conoscevo fino a poche ore prima, e con i quali si chiacchiera fitto fitto, in quelle classiche situazioni da film in cui due sconosciuti per l’irriverenza del caso finiscono per diventare protagonisti di una giornata che probabilmente mai dimenticherai – quella in cui compi trent’anni, per l’appunto.

Quando finalmente il volo parte è sera, e il mio posto vicino al finestrino non serve a molto, se non a evitare l’invadenza di quelli che si sentono in obbligo di scambiare due chiacchiere a tutti i costi. Accendo l’iPod e appoggio la testa contro il vetro: black out.

L’albergo che mi ospita a Barcellona è un finestrino integrale, uno di quei posti tremendamente di design, firmato da un architetto con cachet milionario, che si affaccia direttamente sulla baia e al posto di muri di cemento ha immense vetrate. Sfarzoso tanto da farti sentire inadeguato, specie dopo una giornata trascorsa in aeroporto, restituisce tutto con gli interessi di prima mattina, quando ti sveglia la luce del sole – che a Barcellona ha sempre una certa intensità – e mentre ti stropicci gli occhi ti rendi conto di essere sospeso sopra un lembo infinito di sabbia e mare. Mi sono chiesta se mai nella vita potrò permettermi un lusso così pagandolo di mia tasca (la risposta è no al 90%, dando un’occhiata al listino), e quanto faccia bene al corpo, oltre che all’umore, un risveglio di questo tipo. Credo moltissimo.

Dei colori, della gioia, dell’allegria della città che secondo me non ha un solo problema significativo ho già scritto molto; il piacere di fare una corsetta sulla Barceloneta all’alba o al tramonto è invece una cosa da provare in prima persona: fa sentire un po’ hollywoodiani, ma anche tremendamente umani e semplici. Niente è più vero del mare.

Barcellona – Milano – Bergamo. Dall’aeroporto di Barcellona a quello di Orio al Serio ci sono in mezzo un paio di ere geologiche di sviluppo, ma anche la democratizzazione dello spazio aereo che mi ha permesso di portare a Londra con poco meno di 300 euro una decina di amici.

La mia tesserina Blue Sky frequent flyer non può nulla sui voli Ryan Air: la corsa ai posti a sedere è come quella del primo giorno di scuola negli ultimi tre anni del liceo, in cui alle 7.30 sei già a fare la posta davanti ai cancelli per conquistare un ultimo banco che potrebbe salvarti l’intera annata. I low-cost sono anche un’ottima finestra su spaccati umani e sociali, occasione irripetibile di entrare in contatto con persone che nel tran tran quotidiano non incontreresti mai. La categoria più frequente, e imbarazzante, è quella dei vacanzieri che si esprimono in dialetto e normalmente si lasciano andare alle considerazioni più colorite su hostess e affini, parlano a voce sempre troppo alta, hanno bagagli per cui dovrebbero pagare sovrapprezzi che non vogliono pagare e si danno di gomito ogni volta che una si alza per andare alla toilette. C’è del classismo in questa descrizione, lo so. Però provate a prendere un Ryan Air per Londra o Praga e poi ditemi se non è vero.

Londra Stansted. A Stansted il servizio di navette che porta in città è gestito nientepopodimeno che da ragazzi romani. Un esercito di romani. Che, per di più, l’inglese lo mastica ancora in modo approssimativo. E dire che con gli autobus di soldini devono averne fatti, forse un corso intensivo di lingua farebbe fare un salto di qualità al business. A pigiare il naso sul finestrino si vede poco – è notte – ma appena il bus approccia Liverpool station, cuore della City, nonostante siano le 3 di mattina di un giorno piovoso (strano, eh), fiumi di persone spuntano da tutte le parti.

Ragazzi bianchi, meticci, scuri, asiatici; ragazze bionde e brune, senza calze, con i sandali che noi indossiamo a luglio, con magliette strette nonostante ventri non proprio piatti, che ondeggiano pericolosamente sotto l’effetto di litri di birra.

Londra, dove negli ultimi mesi ho avuto la fortuna di andare spessissimo, è il vero melting pot, in questo momento. Non New York, non Berlino, non Pechino: Londra, che dagli anni 80 a oggi è cambiata più di qualsiasi altra città al mondo. L’aria che tira oggi sulle sponde del Tamigi è quella che gli Scorpions vent’anni fa avrebbero cantato in Wind of Change; è un posto che sta letteralmente fermentando, in cui ogni giorni nascono teatri, negozi, quartieri, mercati. Ho amici, parecchi, che sono andati a vivere lì nell’ultimo anno: seduti a pranzo in una bio-grocery, un supermercatino sensibile al biologico con tavoloni di legno chiaro, ritmi brasiliani di sottofondo e una connessione wi-fi aperta a tutti, mi hanno raccontato meraviglie di un posto che fino a una decina d’anni fa era uno dei meno accoglienti d’Europa. Gente che si sa rinnovare.

Tutti hanno provato a convincermi a strasferirmi lì, e non è che non lo farei al volo, se il Guardian mi chiamasse. Non è detto che non ci vada, con o senza telefonata.

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On the asian road_ part 3

[Leggi la prima e la seconda parte]

Per arrivare dal Vietnam a Seam Reap, Cambogia, ci sono due modi: fare otto ore di autobus fino a Phnom Penh e di lì altrettante in barca lungo il fiume Sanlop – lo ha fatto mio padre, me ne ha detto meraviglie – oppure salire su un bielica alle sei della mattina e pregare il buon dio. Noi, a corto di tempo, abbiamo pregato.

La panoramica della microscopica sala d’arrivo dell’aeroporto cambogiano esemplifica con rara chiarezza le statistiche diffuse annualmente dagli organismi internazionali, secondo cui la Cambogia si piazza al 153esimo posto su 158 dei Paesi più corrotti al mondo, con una tra le forbici più ampie tra poveri(ssimi) e governanti e un livello di miseria pari a quello del continente africano. Al controllo di immigration, la dogana, si pagano 20 dollari d’ingresso per il visto, più una fototessera; sprovvisti della fototessera, ce la caviamo con 21 dollari, l’uno in più (una certa sommetta per il luogo) incassato rapidamente da uno dei funzionari. Il funzionario in questione è solo uno dei 10 schierati in semicerchio: il nostro uomo-del-fare Brunetta griderebbe vendetta nel vederli passarsi i passaporti di mano in mano, ciascuno esprimendo la propria opinione sull’ammissibilità dello spaesato turista nel Paese. Al decimo tocca il compito di mettere il timbro definitivo, chiamare le persone una a una e riconsegnare il documento vistato. Contro ogni aspettativa – quel “giornalista” indicato sul mio come professione ci fa trattenere il fiato – ci lasciano entrare senza questioni, e senza bisogno di ungere oltre la macchina dei controlli.

Le prime a darci il benvenuto appena guadagnata l’uscita sono le zanzare, una miriade incattivita, pronta a seminare il panico e la malaria; meditiamo di infilarci felpe e scarpe da ginnastica per coprire almeno un po’ del corpo, ma la prospettiva del caldo umido paludoso è quasi peggio di quella della malaria. Il taxi che ci porta in centro è un tuc-tuc, un rickshaw trainato da un motorino 125; mentre sobbalza sulla strada semiasfaltata ci guardiamo intorno increduli: nei pressi solo campi e risaie, nessun’altra strada oltre quella che percorriamo, nessun cartello, niente macchine. Gruppetti di ragazzini con la divisa della scuola si spostano a tre a tre su bici che farebbero impazzire gli amanti del modernariato; ci guardano incuriositi, fanno ciao con la mano. Ricambiamo i saluti un po’ inebititi, storditi dal sonno e dalla polvere che si solleva copiosa al nostro passaggio.

Ci vogliono venticinque minuti abbondanti per arrivare in fondo alla strada sterrata dove si trova l’albergo, o almeno quello che a Saigon ci hanno descritto come tale. Le camere senza finestra sanno di umido e muffa, le lenzuola presentano macchie inequivocabili, il bagno ha lo scarico rotto e una doccetta a muro sopra il water, senza acqua calda; accarezzo l’idea di non lavarmi fino al ritorno in Italia, ma sette giorni sono troppi anche per gli standard igienici al ribasso cui il viaggio on the road ci ha abituato. In compenso, i due fratelli alla reception sono solerti nell’aiutarci a trovare una guida per visitare i templi di Angkor Wat, ottava meraviglia del mondo e catalizzatori del 98% dello scarso turismo cambogiano. Il prezzo, però, cambia più o meno ogni cinque minuti e ci vogliono un paio d’ore di estenuante trattativa per convincerli a scriverlo nero su bianco (proveranno comunque a rialzarlo un altro paio di volte nei giorni successivi); la prima guida che si presenta, in ogni caso, parla solo francese e ci vuole un’altra ora per spiegare loro che ci serve qualcuno che si esprima in un inglese almeno comprensibile. Il ragazzo che arriva alla fine del secondo round di trattative è stato evidentemente buttato giù dal letto non più di dieci minuti prima, ma l’attesa è ripagata da una dozzina di meravigliosi centrifugati di carota offertici dai nostri ospiti, all’esorbitante cifra di due dollari l’uno. Il dubbio che il ritardo non sia casuale è quantomeno lecito.

Il complesso di Angkor Wat, a un quarto d’ora di strada dal centro cittadino, è ritenuto da molti il più maestoso complesso religioso esistente al mondo; il colpo d’occhio, in effetti, lascia senza fiato, anche quelli che come noi faticano a tenere gli occhi aperti a causa di una stanchezza che al quindicesimo giorno di viaggio inizia ad avere connotati patologici. Quasi impossibile descrivere tutti i templi, o ricordarne i nomi: sono dozzine, induisti e buddisti, costruiti a partire dal X secolo dai re-divinità che hanno dominato il Paese fino all’avvento dei khmer rossi, e la visita dura almeno tre giorni, da mane a sera. Il più stupefacente è comunque Angkor Thom, meglio noto per aver ospitato la trasposizione cinematografica delle avventure di Laura Croft: un immenso edificio costruito intorno all’anno mille e poi dimenticato per qualche secolo, in cui alcuni tra i più maestosi alberi della giungla hanno messo radici penetrando tra i muri e sotto le fondamenta, per uno scenario degno di un film con parecchi effetti speciali. I turisti girano al suo interno più attenti a ricostruire le scene di Thomb Raider che a guardare i reperti storici; le guide li assecondano, suggerendo per le fotografie le pose che furono di Angelina Jolie.

Più stupefacente ancora è constatare l’incuria cui sono abbandonati i luoghi, nonostante, con 60 dollari di costo del biglietto d’ingresso, costituiscano probabilmente la principale voce di entrata del Pil cambogiano: ai turisti è concesso camminare e arrampicarsi ovunque; in alcuni casi, addirittura, le guide consigliano bivacchi e appostamenti per gustarsi il tramonto con birre e sigarette. Abbiamo visto un piccoletto americano, sconvolto dalla noia e dal caldo, divertirsi a lanciare sassi che si sbriciolavano sotto la sua forza, sotto gli occhi assenti di genitori e guide; un vero peccato che i sassi in questione fossero resti di statue e decorazioni risalenti a un migliaio di anni fa. Un po’ come se da noi si salisse sul Colosseo e si giocasse a “Mira anche tu la statua dell’imperatore Adriano”.

Il problema, riflettiamo a cena davanti a un Anok – prelibatezza locale: pesce bollito in curry e servito in foglie di banana – è l’ignoranza devastante: se il 40% dei cambogiani è analfabeta, il restante 60% si limita ad apprendere a memoria le nozioni minime per ricevere dai turisti qualche dollaro in cambio di poche frasi snocciolate sui templi, abbondantemente riportate anche dalla lonely planet. D’altra parte, come spiega la guida, nonostante il (mal)governo rosso, la scuola è tutt’altro che gratuita, e il numero dei cambogiani che si sono spinti oltreconfine per allargare i propri orizzonti, anche solo in Vietnam, è prossimo allo zero. Quando proviamo a chiedere alla nostra accompagnatrice un parallelo tra Angkor Wat e i templi messicani ci guarda senza capire: altamente probabile che non abbia mai sentito parlare del Messico.

[segue, forse]

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[leggi la prima parte]

La storia del Vietnam, almeno quella degli ultimi 30 anni nota ai più, gira intorno a un fazzoletto di terra, Cu Chi. Per essere esatti, sopra è un fazzoletto di terra e sotto è il più complesso, articolato e claustrofobico sistema di cunicoli mai costruito dall’uomo; basti pensare che, impossibilitati a entrarci per le proprie dimensioni da Rambo, gli americani assoldavano coreani dal formato mignon per andare a stanare i vietcong.
A portarci a Cu Chi, in un’alba assonnata, è Sonny, un saigonese venticinquenne dall’inglese perfetto e, soprattutto, dall’incontenibile bisogno di parlare. Sonda le nostre inclinazioni politiche con discrezione, e poi butta lì: “A Saigon non odiamo gli americani: ce l’abbiamo con loro perché hanno voluto fare la guerra a modo loro e poi ci hanno abbandonati dopo aver fatto casino. Ci hanno lasciato nelle mani dei comunisti”. Tutto il film di un Vietnam finalmente unito dopo aver schiacciato l’invasore americano va in frantumi in cinque minuti, lasciando spazio a un quadro infinitamente più sofferto e complesso. Mi torna in mente il rifiuto degli abitanti di Saigon di chiamare la città Ho Chi Min, come l’ha ribattezzata il generale, e l’occhiata di sdegno rivoltami dalla commessa del negozio cui avevo chiesto la sciarpa tipica dei vietcong da riportare a un amico. Tanto per dissipare ogni dubbio, quando chiedo a Sonny cosa pensa di Hanoi, risponde: “Rubbish”, spazzatura.

La presenza del regime aborrito da Sonny la subodoriamo per la prima volta durante la notte di Capodanno, unici in piazza a tracannare birre che quasi abbiamo costretto un commerciante a venderci, declinando il suo invito a bere Seven Up; solo dopo un po’ ci sfiora il dubbio che consumare alcolici in pubblico possa essere illegale. Non riusciamo ad appurare se in effetti sia così, ma lasciamo la piazza svuotatasi in tre minuti netti dopo lo scoccare della mezzanotte per finire la serata a Pham Ngu Lao, dove americani sbronzi a torso nudo si strusciano contro corpi orientali in modo non proprio sinuoso.
Ancora di più, tuttavia, la dittatura comulista (neologismo appena coniato: crasi di comunista e capitalista) modello cinese, ci si disvela il giorno successivo nella forma esilarante di Mr Ky, il pacioccone cinquantenne toccatoci in sorta come guida sul Mekong.

Basta la sua vista per rimetterci in sesto mentre, con un paio d’ore di sonno alle spalle e l’ansia della malaria a fare da compagna, sudiamo birre sotto un sole cocente. È un ometto in stile Indiana Jones iperefficiente e sempre allegro che ripete metodicamente una decina di frasi con tono alto e sonante; bombardato dalla propaganda, prova a riproporla a noi spiegandoci i miracoli della collettivizzazione dei terreni agricoli nei dintorni del Mekong. “Very, very good policy” è il suo cavallo di battaglia.

Del Mekong affascina il colpo d’occhio; a prima vista, poco o nulla sembra essere cambiato da quando il capitano Willard lo risalì in cerca di Kurtz. Le acque limacciose sono solcate da imbarcazioni piccolissime o molto grandi, che trasportano uomini e merci; stipati in cabina o sdraiati sul ponte, vietnamiti dalla pelle scura dormono scomposti o si guardano intorno senza espressione. Per tutte le popolazioni che vivono sulle sue acque, il Mekong è un immenso mercato, il posto dove comprare e vendere ogni cosa necessaria alla sussistenza; la giungla compare solo a tratti, quando la barca lascia la portata principale per affondare nei rivoli laterali, schiacciati da giunchi, palme immense e un’umidità che si può quasi plasmare con le mani.

Le città cresciute sulle sue sponde hanno ben poco di esotico e molto invece del casino di Saigon (nonostante la zona sia conosciuta tutt’ora come Bassa Cambogia, per l’antica appartenenza allo stato confinante); a stupire è soprattutto la sporcizia: non esistono cestini per rifiuti e ognuno delle migliaia di ambulanti che offrono qualcosa sul ciglio della strada lascia dietro di sé una scia di cartacce, bucce, contenitori oleosi e altre amenità.

L’elemento più autentico e selvaggio del Mekong restano i mercati galleggianti, dove dall’alba alle primissime ore del mattino le popolazioni locali comprano o offrono soprattutto frutti e altri alimenti di prima necessità. Minuscole lance di legno sono sovraccariche di mango, piccoli cocomeri o banane; a governarle e dirigere i traffici spesso sono donne leggere ma ruvide, con i tradizionali cappelli calcati sugli occhi e i modi spicci di chi non conosce formule di cortesia. I loro bimbi si offrono come intermediari con gli acquirenti, specie quando si tratta di turisti pronti come noi a sciogliersi in una compassionevole pietas che invoglia l’acquisto. Mr Ky ci indica due piccoletti intenti a vendere banane, con visi divertiti e grandi sorrisi; tronfio di orgoglio sentenzia: “Vietnamese, hard workers: look, we have the youngest workers in the world, seven years, five years!”.

Di ritorno a Saigon, la sera, ho la confortante sensazione di essere a casa; ci sbattiamo da Pho a mangiare una minestra, in attesa di salire su uno sleeping bus in direzione Mui Ne.

Lo sleeping bus meriterebbe una trattazione a sé: presentatoci dai locali come un grandioso mezzo di locomozione, entra a pieno titolo al primo posto delle aberrazioni asiatiche in cui sono incappata. Trattasi di un pullman di linea in cui al posto dei sedili si trovano una trentina di mini lettini, su cui dormire mentre il mezzo attraversa il Paese da nord a sud (una 40ina di ore circa); utilizzato per lo più da stranieri squattrinati (costa una manciata di dong), è però tarato sulle dimensioni dei “locali”, rendendo il viaggio grottesco per chiunque, inclusa la sottoscritta, abbia misure ai confini della normalità.

La nostra avventura sullo sleeping bus, comunque, comincia con l’autista che ci afferra per la collottola in mezzo alla strada dicendoci di salire, che siamo in ritardo: inutile spiegargli che rispetto all’orario concordato abbiamo in realtà due ore di anticipo. Incapsulati in questi loculi, sulle cui condizioni igieniche è meglio sorvolare, constatiamo in fretta che il primo problema sarà capire quando si arriva a destinazione; con un calcolo approssimativo dei chilometri mettiamo una sveglia alle due di notte. Impossibile comunque chiudere occhio: la tizia sdraiata davanti a noi, credo una giapponese ma potrebbe essere anche vietnamita, ha la febbre alta, trema, suda ed emette strani versi con il naso. Appunto sull’agenda: “Al ritorno informarsi sulla febbre equina”.

Quando la sveglia suona, i nostri compagni di viaggio stanno per lo più dormendo e a farci compagnia sono solo i neon fluorescenti che scorrono lungo il tetto dell’autobus: inquietanti. Ci vuole un’intensa gestualità per far capire al conducente dove dobbiamo scendere e, una mezz’ora dopo, ci scarica in mezzo a una strada deserta; per fortuna, nonostante la carenza di sonno, i nostri riflessi sono migliori dei suoi e ci accorgiamo in breve che ci ha mollato nel posto sbagliato. Lo rincorriamo, carichi di zaini, pacchi e sacchetti, e riusciamo a farci riaprire le porte del bus. Dopo un quarto d’ora ci fa nuovamente segno di scendere e questa volta l’insegna dell’albergo corrisponde al nome previsto; peccato però che sia chiuso. Ci vogliono una telefonata intercontinentale e una violazione di domicilio a farci aprire il cancello dalla lasciva vietnamita addormentatasi nella nostra attesa. Il che spiega perché trascorriamo i due giorni successivi schiantati in spiaggia, muovendoci al più per ordinare grigliate di aragoste e gamberoni nella capanna-ristorantino dietro le nostre spalle.

[segue]

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[avviso ai lettori: il tempo di lettura di questo post è lunghetto. Non lamentatevi, l’ho anche diviso in due parti!]

Sette aerei in venti giorni, quindici chili di zaino sulle spalle, una decina di sveglie all’alba, due notti insonni, centinaia di chilometri su bus scalcinati, la pelle divorata dagli insetti. Tutto per via di una sola persona: il dannato colonnello Kurtz. O, meglio, per quei sette indimenticabili minuti in cui anni fa mi palesò la sua esistenza: le tastiere di Manzarek sull’attacco di The End, il napalm che incendia la giungla, le pale degli apache che vanno in dissolvenza su quelle dei ventilatori in una stanza spoglia, Martin Sheen perso nel delirio di una generazione intera.

Saigon. Quando ero qui volevo essere là. Quando ero là non potevo pensare ad altro che a tornare nella giungla”.

Il mio immaginario del Vietnam è nato lì, con l’attacco di quel capolavoro inarrivabile della cinematografia che è Apocalypse Now. Un film custode di una storia emblematica, ma prima ancora epigono di un’epoca e di un mondo. Dopo essermi drogata della fotografia di Coppola, è arrivato tutto il resto: Dispacci, Micheal Herr, il libro più bello mai letto sulla guerra e probabilmente uno dei primi dieci in assoluto. Le fotografie di Robert Capa, morto sotto il fuoco di Charlie. Volumi di storia da comporre come un puzzle di geopolitica.

Per arrivare a Saigon siamo passati da Bangkok: meno caro il biglietto, più facile l’adattamento. Bangkok si colloca al confine tra il secondo e il primo mondo: immenso contenitore di uomini, denaro, povertà, acque lerce, mega alberghi, traffico indomabile, templi mozzafiato. Appena atterrati l’umidità e lo smog segano le gambe: ci vogliono un paio di giorni per adattarsi, e anche così a metà giornata la stanchezza appesantisce i pensieri. Dare un’identità a Bangkok è difficile: rigogliosa come la vegetazione che cresce sulle sponde del Chao Phraya, il fiume che la attraversa, è un immenso crocevia di traffici e uomini e mezzi. I grattacieli e l’avveniristico skytrain distano una manciata di minuti da quartieri brulicanti di topi e uomini, ugualmente dimorati in marciapiedi affollati e vicoli stretti. Enormi pentoloni a ogni angolo della strada friggono animali e vegetali di qualsiasi provenienza: l’odore si attacca ai vestiti e alla pelle, satura l’aria umida, fa girare la testa. Nello stesso spazio in cui storpi chiedono l’elemosina e poliziotti distratti fumano oleosi sui propri motorini, i turisti si accalcano per vedere alcune delle pagode più belle di tutta l’Asia: preziosi gioielli di cura maniacale le cui tesserine brillanti splendono da lontano.

I larghi viali coronati da improbabili monumenti di architettura fascista – il più noto quello alla Democrazia, a dispetto del fatto che i thailandesi continuano a essere osservati dall’alto da un Re-divinità di cui non si può parlare male – la fanno assomigliare a tratti a Pyong Pen; il traffico insopportabile all’olfatto e all’udito allontanano però il paragone.

A Bangkok ci si ambienta lentamente, con la fatica connaturata in ciò che per natura è sfuggevole e complesso; Saigon, invece, ti accoglie come uno schianto, con la sincerità di una semplicità che è tutt’altro che ordine.

Siamo arrivati con un volo all’alba; fuori dall’aeroporto, in attesa di un taxi, bandiere rosse con la stella gialla sventolavano essenziali, simili alle palme che fanno loro da cornice. La prima impresa è attraversare la città: dei dieci milioni di abitanti, sette circolano unicamente su motorini. Asserragliati su un van, li abbiamo guardati sfilare per le strade come uno sciame di api: un fiume straripante, che tracima sui marciapiedi, non conosce semafori o segnaletica, sensi di marcia e attraversamenti pedonali. Il motociclo è per gli abitanti di Saigon quello che una volta era il mulo; sopra caricano qualsiasi cosa, oltre i limiti imposti dalle leggi della fisica e del buon senso: bombole del gas, televisori, scatoloni, cassette di frutta, un numero di passeggeri superiori a quelli di un’utilitaria. Passeggiando in centro abbiamo contato 5 persone su un 125: un record battuto solo dallo scooter con sopra tre tizi letteralmente ricoperti da scatole di uova.

Seconda sfida attraversare la strada. Per i saigonesi le strisce, scarse e superflue, sono un decoro del manto stradale: loro tirano dritto, sempre, suonando il clacson per segnalare la propria presenza. Al pedone spetta l’onere di schivarli, dopo aver trovato il coraggio di buttarsi in mezzo alla strada. Dicono che la teoria per uscirne senza ossa rotte sia non guardare mai nella loro direzione, perché se percepiscono che ti stai preoccupando dell’attraversamento non si sentono costretti a fermarsi; altrimenti, invece, mettono un piede per terra quando arrivano a due centimetri da te per non asfaltarti. Il coraggio per provare la teoria ci è mancato; piuttosto, un paio di volte dei bambini sghignazzando ci hanno preso sotto braccio per condurci dall’altro lato della strada.

Nonostante il rumore e lo stordimento dato dal traffico, il primo pensiero che ho fatto su Saigon è che fosse una città essenziale: rispetto a Bangkok, asciugata da ogni ridondanza, con un semplicità che ammalia. La passione, comunque, mi ha colto struggente una volta giunti a Pham Ngu Lao (si pronuncia Fanculao: sorvolo sulle risate adolescenziali che ci ha procurato chiedere indicazioni stradali), il quartiere degli stranieri dove abbiamo trovato alloggio. Per le strade ragazzini vietnamiti offrono con noncuranza ai passanti oppio, estasi, eroina o cocaina; i magnaccia scampanellano sulle biciclette per segnalare l’offerta di prostitute; gli americani si allungano al sole nei tavolini dei bar d’angolo, sorseggiando birra fin da mezzogiorno. Dagli anni 60, quando i soldati lenivano con Lsd e alcol le atrocità della giungla nella città assediata, a Fanculao mi è sembrato non essere cambiato nulla: un fermo immagine di una delle pellicole di Oliver Stone proiettato sulla quotidianità. Mi sono sentita immediatamente a casa, come se il coincidere dell’immagine di Siagon costruita su libri e film con quella che mi scorreva sotto agli occhi me la rendesse immediatamente familiare e comprensibile.

Tutto intorno a Pham Ngu Lao la città brucia di traffici: vendere, non importa cosa, è la principale occupazione dei vietnamiti. Al mercato di Cholon, territorio di influenza cinese, si cammina stretti tra centinaia di chioschi grandi tre o quattro metri quadrati e con la più alta densità di oggetti mai vista: dalle caramelle ai fermagli per capelli, qualsiasi cosa è offerta in decine di migliaia di riproduzioni identiche. I venditori non fanno caso ai pochissimi turisti; chiacchierano tra di loro sdraiati per terra, cercando un centimetro quadrato dove ripararsi dall’afa. Un ragazzo giovane ci ha fermato, sperando di rifilarci qualcosa: “Where are you from?” “Italy” “Oh, so nice, do you know Abbey Road?”. Che ci vuoi fare, tra i Beatles e Toto Cotugno la sfida è persa in partenza.

[segue].

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2009/2010

Milano, 21 dicembre: 30 centrimetri di neve a terra, altrettanti in arrivo nel corso della notte, città in panne e uno strano, beato, silenzio ovattato. Un sms sul mio telefono.
A Bangkok venerdì sono previsti 34,7 gradi. Guarda fuori dalla finestra e dimmi se non ti senti una figa.
Risposta. Mezz’ora fa sono entrata in farmacia  ricoperta di neve, ho comprato una crema solare protezione 40 e il repellente per zanzare più forte sul mercato.

Yes sir, siamo in partenza. Bangkok, Saigon, Delta del Mekong, isola di Pu Quo, Cambogia. Tre settimane di quelle che si ricordano; soprattutto, di quelle che attendo da tempo. Niente iPhone, niente Internet, niente lavoro, niente sms, niente di niente: anni che non stacco così. Non sto nella pelle, letteralmente. Vantaggi collaterali di un viaggio che già di per sé ha moltissimo di vantaggioso: un salto in lungo su tutta la melassa del Natale, il frastuono del cenone, l’angoscia dei regali, il coma iperglicemico indotto da flebo di zuccheri saturi e lipidi nascosti in ogni pietanza. God bless Vietnam.

L’assenza dello stato comatoso alimentare che segue la tre giorni 24-25-26, quando di norma mi rigiro nel letto sudando burro e agognando il tapis roulant, mi impedirà però di fare una cosa: la lista dei propositi per l’anno venturo. Un classico delle notti insonni con le mani sulla panza che lievita, mentre faccio la spola tra il letto e il cassetto della cucina in cerca di un malox, pensando Mai più, giuro che l’anno prossimo me ne chiamo fuori, e da gennaio a dieta!. Segue, nella mezz’ora in cui attendo la quiete dei succhi gastrici, un bilancio sommario dell’anno in procinto di chiudersi, e un elenco di idee e intenzioni per quello a venire. Negli anni, non ho quasi mai avuto la forza di verificare la riuscita effettiva dei propositi nella lista, ma il 2009 in questo senso è stato da record, e vale la pena metterlo nero su bianco.

Banalità a parte – dieta, miglioramento del tono muscolare, acquisto di oggetti a lungo desiderati grazie a un risparmio forsennato (!) – affronto la fine dell’anno con una serenità cui non son abituata, frutto di un percorso emotivo alimentato nei mesi con libri, canzoni, pensieri, stato d’animo vissuti fino all’ultimo respiro, chiacchierate, lacrime liberatorie, lettere scritte e ricevute, pranzi di famiglia, amore puro per la vita, incontri imprevedibili, affetti solidi, amicizie ritrovate, scoperte quotidiane. Cose che probabilmente non sono prerogativa esclusiva dei dodici mesi passati, ma che bisogna riuscire a riconoscere ed esplorare. Ho esplorato abbondantemente la mia emotività nel 2009, mi sono concessa il lusso di vivere ogni momento come arrivava, e di viverne il più possibile. Take it as it comes, è un piccola frase del libro del Tao che ho messo al sicuro nel cuore. Chi deve arrivare arriva, chi deve andare va, qualcuno torna; tu resta quieta di fronte alla vita, abbracciala nella sua interezza.

Sono piccole cose, o forse giganti; sono consapevolezze, in ogni caso, che mi hanno un po’ stravolto i pensieri. E che ho combinato con un altro faro guida di comportamenti e azioni, piccolezza che vale comunque la pena di condividere: Share it all. Non c’è stato un oggetto ricevuto in regalo e che non mi servisse che non abbia dato a qualcuno che invece ne aveva bisogno; l’adagio che i regali non si regalano mi pare una sonora idiozia di fronte all’aiuto reciproco, alla necessità di contenere la sovrapproduzione, di non inquinare oltre il Pianeta. Un amico mi ha chiesto mesi di ospitalità perché in difficoltà economica: non è stato sempre facile stare in due in 35 metri quadrati, ma gliela ho data. Ho raccolto stranieri sbronzi in botta fuori dalle discoteche e li ho riportati a casa alle sei della mattina: è stato divertente. Ho comprato biglietti aerei per alcuni amici per portarli a Londra per il mio 30esimo compleanno e ho chiesto a tutti di non chiedermi se c’è un regalo che voglio, a Natale o per il compleanno o in qualcunque altra occasione, ma di pensare abbastanza a me per sceglierne uno che mi si addica.

Piccolezze, non c’è dubbio.  Madre Teresa continua a essere molto distante, i miei difetti e talune insicurezze sono tutti lì. Ma ho vissuto meglio, e mi va di dirlo. Ragion per cui i miei propositi per il 2010 non sono molti, ma ben circoscritti:

1) Parlare di meno al telefono.
I cellulari sono un mostro le cui conseguenze sulla salute saranno evidenti solo negli anni. Questo spaventoso articolo uscito giovedì su Repubblica la dice lunga. Per me si tratta di uno sforzo sovraumano, contando il lavoro che faccio e quanto la mia vita sia connessa, nel senso che piace a vodafone. Ho iniziato con il tirare fuori l’auricolare dell’iPhone.

2) Smetterla di gridare alla gente in macchina.
Preservazione della specie: prima o poi qualcuno mi mena. L’ho scampata troppe volte prima dei 30, non è detto che la fortuna mi arrida anche dai 30 in poi.

3) Pulire casa da sola, smettere di pagare una signora che mi dà una mano e investire i soldi in un corso di francese.
L’idea di riiniziare a stirarmi le camicie mi fa accapponare la pelle, ma forse posso smettere di indossarle.

4) Correre la mezza ad aprile, in un tempo decente.
Poco da dire: ci vuole tanto allenamento e io di recente non ho mai corso più di tre volte a settimana, scoppiando entro un’ora. La mezza è lontana. Lontanissima.

5) Non smettere mai di cercare.
Come diceva Steve Jobs in quel video, Stay hungry Stay foolish. Il segreto è tutto lì.

Ah. Il mio regalino per voi è questa canzone; ne avrei scelta un’altra, ma il testo era poco in linea con le buone intenzioni che cerco di diffondere. In ogni caso, per superare le ferie, affondate nei Belle and Sebastian. Io lo farò dall’aereo.

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