Archive for category viaggi

yellow fever

Nelle forme più gravi compaiono anche segni di grave interessamento epatico e renale quali ittero, tendenza alle emorragie (petecchie, ematemesi, melena), albuminuria marcata, oliguria sino all’anuria. Non rare le complicanze meningoencefalitiche o miocarditiche.
Il tasso di mortalità varia dal 10% al 15%, ma nel caso di epidemie i decessi possono interessare sino all’80% degli affetti.

Informazioni sulla febbre gialla, la redazione mi manda a fare un viaggetto.

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Beirut/Dispacci #13

Bonjur per, je sui an giurnalist e il è an fotografer
[Grande inizio, sguardi soddisfatti].
Nus vudrem fer an intervist
Ue ue avec tu..tuà…an interpret? Emh, nus avom el Pinarelli
[Marco parla francese? No. Vabbè facciamo finta dai].
So, cant tiemp tu è isi? En chest ville?
E com son les rapport avec lo muslim?
Chesche tu pens de Hezbollah?
[Questa era perfetta, dai].
Ue ue, je compri. Mee lo muslim pensen i stess?
(voce fuori campo)La mem scios, la mem scios
[grande intervento del Pinarelli, interprete vero].
Chesche je pans de Beneduit? Mua? Sur le pop?
[concentrati, Gea, concentrati].
Mon per, je pans que il è diabolik. Diabolik, ue.

Tiro, 4 agosto.

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Beirut/Dispacci #12

soundtrack: Morning bell


Delicatezza non è la parola da associare al Libano, ma l’altra sera, in mezzo a canti palestinesi e calici generosi, quella di Halim mi ha travolto come vento di scirocco.
Era delicato lui, con la timidezza che gli fa scegliere con cura le parole soppesandone il valore, ed era quasi struggente il racconto di uno spaccato della sua infanzia, storie ordinarie di ragazzini cresciuti sotto le bombe della guerra civile.
Tutto il vicinato si nascondeva in un’unica casa, mi ha spiegato, dove dormivamo a decine, sdraiati sui materassi testa-piedi-testa-piedi per guadagnare spazio. Avrò avuto sette anni e mi sono preso la prima cotta per una bambina che dormiva affianco a me, i suoi piedi affianco alla mia testa e viceversa. Così per me le bombe avevano un che di romantico, capisci, quando c’era l’allarme e si correva nel rifugio ero felice, anche se non potevo farlo vedere a nessuno. Ma lei se ne era accorta e un giorno ci siamo svegliati e mi ha baciato un piede in uno slancio di tenerezza. A quel punto mi sono fatto coraggio e l’ho baciata a mia volta, un bacio sulle labbra, una cosa tremendamente appassionata per essere un bambino! Ma la cosa strana è che mentre la baciavo non riuscivo a smettere di pensare che quella stessa bocca aveva toccato i miei piedi un attimo prima, e mi faceva un po’ impressione. Non è strano che lo abbia pensato? E’ il ricordo più forte che ho di quel periodo. Forse per questo ancora oggi non so stare a piedi nudi di fronte a nessuno.

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Beirut/Dispacci #11

Fatico a credere che Robert Fisk, con il quale tra l’altro ho parlato ieri al telefono (grazie Paolo grazie, I owe you one), si sia mai presentato a un’intervista esordendo Si faccia una domanda e si dia una risposta, più o meno come ho fatto stamane con due ore e mezzo di sonno sul groppone e un concerto di shots a crivellarmi il cervelletto. Il mostro DeLille nel frattempo vagava per il posto cercando l’inquadratura perfetta per vincere il Word press photo, divorando focacce libanesi assorbi vodka. Una volta trovata, ovviamente, la tipa non ha voluto farsi fotografare: forse l’acume delle mie domande l’aveva impressionata.

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Beirut/Dispacci #10

There’s always a reason why at the very end the four of you go out to the Barometer and all of a sudden you’ve become the best dancer ever, and while your lifetime mate (doesn’t matter you didn’t know him four months ago, he’s a lifetime mate by now) buys vodka shots one after the other you fall in love with the most incredible guy, and your plane is leaving in 24 hours but maybe the feddayn can do something for you, and if they don’t that’s life man, domani c’è la guerra, so you go to sleep at 5,30 in the morning  and will be waking up in 3 hours for an interview and a shooting and maybe the phone will be ringing and who knows, this is Beirut, and you always have a lot to learn from it, for sure you know that by now.

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Beirut/Dispacci #9 e1/2

E comunque la cosa incredibile di questo paese è che puoi essere sotto alle bombe di pomeriggio e due ore e 70 chilometri dopo ritrovarti catapultato in un concerto di musica sperimentale dove un molleggiato libanese si dimena come uno sciamano davanti a mixer e sintetizzatori, mentre un batterista mena cassa e rullante con vigore ancestrale; e ulteriori due ore dopo ascoltare Perfectly numb in un bar alternowell chiacchierando con un pittore giordano con la scritta delete tatuata sul cuore e pensare per un istante che non è affatto male. Calmi, calmi: per un istante.

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Beirut/Dispacci #9

Stasera, mentre ci allontanavamo da Tiro e sotto gli occhi sfilavano carri armati con militari sulle torrette e gigantesche bandiere della Germania a celebrare l’orrore hitleriano, questa canzone mi è sembrata quasi una preghiera.

Santa Lucia per chi beve di notte/
e di notte muore e di notte legge/
e cade sul suo ultimo metro/
per gli amici che vanno e ritornano indietro /
e hanno perduto l’anima e le ali/
per chi vive all’incrocio dei venti/
ed è bruciato vivo/
per le persone facili che non hanno dubbi mai/
per la nostra corona di stelle e di spine/
per la nostra paura del buio e della fantasia/
Santa Lucia, il violino dei poveri è una barca sfondata/
e un ragazzino al secondo piano che canta ride e stona/
perché vada lontano/
fa che gli sia dolce anche la pioggia delle scarpe/
anche la solitudine.

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Beirut/Dispacci # 8

Sottotitolo: cogliere i segnali.
Siamo di nuovo prossimi al confine sud. Leggo sui giornali di qualche scaramuccia tra Hez e Israele, poi chiama un’amica da Beirut per dirci che alla radio hanno dato la notizia di scontri quaggiù.
Per la prima volta nella vita, mi avvicino all’idea di cosa possa voler dire vivere sempre all’erta, cercare di cogliere i segnali di quello che potrebbe succedere prima che sia già successo: i carri armati sono scoperti? Quanti elicotteri stanno volando? I mezzi Unifil come si muovono? Quante famiglie passano il check point dirette a nord?
È una tensione che si interiorizza, immagino. Ma inedita per chi vive in via Vigevano.
La nostra padrona di casa ride, dice che l’ambasciata le dà 500 dollari al giorno per proteggerci. Sua nipote fa l’estetista: ho fissato manicure e pedicure per domani. Edoardo: fantastico, moriamo sotto le bombe, ma tu sarai elegantissima.

Update: è uno scontro fra eserciti, a 17 km da dove siamo. Hez non c’entra ancora nulla. Quattro morti confermati, tre libanesi e un israeliano; i libanesi dicono ovviamente che hanno iniziato gli altri violando il confine. La gente è ipnotizzata davanti alle tv; questa sera Nasser, capo Hezbollah, decide se entrare o no nel conflitto: alle sei si attende un suo discorso.
Qui la gente dice che tutto dipende da se gli fanno o no recuperare i cadaveri.

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Beirut/Dispacci #7

Glielo ho chiesto due volte al telefono, Cherokee? Is that the cheapest?, e il tizio mi ripeteva tutto convinto, Cherokee, yes yes, the cheapest; così abbiamo imbarcato Marco e Nicola e raggiunto baldanzosi l’autonoleggio. La macchina in effetti era la più economica, solo che si trattava di una Chery-Que, manifattura cinese, simil berlina, leggera come il mio vecchio Zip e con un motore che il Monster in confronto sembra la M1 di Valentino Rossi. I ragazzi erano comunque tutti entusiasti – se poi volessimo aprire un capitolo dal titolo Come trasformare un qualsiasi uomo, meglio se maturo-sensibile-artistico-impegnato-e-poi- certo- giammai-turista-sempre-viaggiatore, in un diciottenne  eccitato come quando rubava la macchina alla mamma semplicemente con due ruote da far sgommare, bè, avrei molte riflessioni da regalare all’umanità – dicevo, tra la gioia dei ragazzi e il traffico più delirante del solito per la presenza in citta dei capi di stato mediorientali e conseguente dispiegamento dell’esercito intero, abbiamo lasciato Beirut in direzione Bekaa.

Con il consueto acume, siamo arrivati a Baalbek, quartier generale di Hezbollah, di venerdì, il giorno del riposo per il mussulmano medio, figuriamoci per quello integralista. Qualsiasi negozio chiuso e sole a picco sulla testa, abbiamo vagato per le rovine archeologiche finché Edo ed io ci siamo messi a importunare coppiette per far loro delle foto. Dietro al sito, in una sorta di grotta di fortuna, Hezbollah ha costruito un grottesco mausoleo con gigantografie di bambini mutilati dagli attacchi israeliani e guerriglieri di cera che imbracciano mitra. Il tutto illuminato da luminarie in stile natalizio e condito da un’affissione dieci per tre in con i nomi delle città israeliane all’interno di mirini, con la scritta If they will be back we will be back. Roba di un certo understatement, insomma.

Tratti in inganno dalla lonely planet, e dalla fame di Marco, abbiamo mangiato nel peggior fast food del Libano, un piatto composito in cui persino il pane era gommoso – il tutto per scoprire dopo venti minuti che mezzo chilometro oltre si apriva un giardino dell’Eden traboccante ristoranti all’aperto e narghilè fumanti: almeno il narghilè comunque ce lo siamo aggiudicati. La situazione ha iniziato a precipitare – per me – quando ai tavolini del bar i ragazzi si sono sostanzialmente dimenticati della mia presenza, e la conversazione è lentamente scivolata dalle magnifiche sorti et progressive del Libano al sesso orale a New York e dintorni, con punte pregevolissime come la teoria dell’insetto (sottotitolo: come liberarsi di una portata a casa da sbronzi la mattina successiva) e la narrazione di epiche scorribande fiorentine – roba un po’ da vecchie glorie, fossi negli uomini rifletterei sul loro lento incedere verso la nostalgica dimensione del ricordo.

In ogni caso, tra una narrazione e l’altra, c’è stato il tempo di incontrare il custode dell’albergo più antico del Libano, un posto assolutamente decadente ma meraviglioso, dove nei momenti migliori soggiornavano De Gaulle e Cousteau, Fairuz e Salazar; abbiamo preso un caffè nel suo giardino con le mattonelle un po’ traballanti, e in una lingua creola tra arabo, inglese e francese siamo riusciti a farci raccontare alcune storielle carine.

Da Balbeek siamo ripartiti l’indomani in direzione Shouf, l’unica riserva naturale del paese. Se Beirut è uno spaventoso conglomerato di cemento, l’interno del Libano è arido e brullo come il deserto: le rocce sono rosse come l’hashish per cui sono famose le sue vallate, e la vicinanza con la Siria rende il paesaggio ancora più esotico, con tribù di beduini che passano il confine e piantano le proprie tende in prossimità dei campi di patate, l’unica coltivazione intensiva. Per vedere i cedri che campeggiano fieri sulla bandiera è necessario raggiungere la foresta, un cinquantina di chilometri sopra la città, un piccolo polmone che farebbe ridere qualsiasi abitante della Valle D’Aosta ma rappresenta un angolo di paradiso per chi da Beirut scappa in cerca di natura. Le strade per raggiungerlo, come d’altra parte quelle dell’intero paese, sono congestionate e totalmente prive di segnaletica: l’ideale insomma perché giovani adulti alla soglia dei 40 anni vogliano dimostrare la propria virilità al volante. Con Delille devastato dal raffreddore – durante il percorso ha creato una sottospecie di molotov di secrezioni nasali infilando a getto continuo fazzoletti fradici in una bottiglietta al mio fianco – il fotografo Pinarelli appena sbarcato da Barcelona ha ingaggiato una competizione a suon di colpi di clacson e freni a mano coi libanesi; spiace ammetterlo ma ci sa fare, quasi riusciamo a farci silurare un paio di volte.

Abbiamo trascorso la notte in un eco-village, un posto carino nonostante le carte di Osho (sic) posizionate in bella vista all’ingresso della mensa; atmosfera un po’ alternowell, con il maestro di yoga che medita in solitudine, un menù vegetariano (la mia conversione è pressoché fatta, devo solo risolvere i conti col pesce), un fiumiciattolo dove fare il bagno e tutto un sentimento ambientalista a 40 dollari a notte: non proprio irrisorio trattandosi del Libano. La capanna sull’albero dove abbiamo dormito mi ha regalato comunque le otto ore di sonno migliori dell’ultimo anno, credo.

Oggi ci siamo infilati in una sagra locale, abbiamo mangiato-sudato-mangiato-ascoltato a massimo volume una cassetta (cassetta!) di musica dance araba comprata l’altra sera, rigorosamente coi finestrini tirati giù e i gomiti fuori, e Marco che tirava il freno a mano ogni volta possibile.

Domani, per calmarlo, lo infiliamo su un minibus per il sud; io ed Edo torniamo sul confine, lui può sfruttare il percorso per un corso accelerato di guida di minivan. Se impara quello, il Libano è nelle sua mani.

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Beirut/Dispacci #6

Così siamo saliti su un bus in direzione sud. Una pletora di soldati dal sapor mediorientale e noi due biondicci. Abbiamo ottenuto un permesso dai militari per superare il checkpoint a metà strada e poi via, nelle mani di un aspirante Schumacher che non ha esitato a deviare su un’autostrada chiusa, con tanto di slalom delle betoniere intente a stendere il cemento, pur di evitare la coda.
E il respiro si è fatto più leggero man mano che le case diradavano e il mare diventava più largo e i colori più ocra e le nuvole più basse, con le casette bianche e i bananeti e piccole piazze brulicanti di uomini e merci a costruire un paesaggio inaspettatamente accogliente.
Venti chilometri dal confine con Israele. Soldati stropicciati ai bordi delle strade, bandiere dell’Unifil, gigatografie di Fadlallah, mezzi corazzati, simboli di Hezbollah, filo spinato, spiaggia, spiaggia, spiaggia, palme, palme, palme.
Accogliente.
Una colonia di bambini panzetti e di bimbe in burkini in un ristorante a cinquanta metri dall’ultimo checkpoint, con un giardino di cemento e piscine d’acqua bassa sormontate da enormi Paperino a mo’ di scivoli – paperini con cappellini verde in onore della milizia, ovviamente; un pranzo lucculiano per due spicci; il profilo della costa da seguire con lo sguardo chiedendosi cosa può mai cambiare, laggiù.
E per scoprirlo abbiamo passato il checkpoint diretti verso un posto di cui tanto ci avevano parlato, piccola oasi naturalistica in mezzo all’inferno del fuoco incrociato. Siamo saliti sulla Mercedes scarnificata di un tizio che ci ha offerto un passaggio; era sbronzo marcio, ma ce ne siamo accorti solo quando ha iniziato a tirare bottiglie di birra fuori dal finestrino e a fare lo slalom tra i tank dell’Unifil, strombazzando e fermandosi e gridando saluti scomposti. Per un secondo ho pensato Siamo due pirla, e più o meno deve essere stato quando si è infilato su una collinetta fuori dalla strada principale e di colpo mi è tornato alla mente il riquadro della lonely planet in cui parlava dei campi infestati da mine e dell’obbligo di non abbandonare mai la strada segnata. Ma era sbronzo, non stupido o cattivo; voleva che andassimo a casa sua a bere con lui. A una manciata di chilometri dal confine Edo ha alzato la voce in modo risoluto, il tipo ha girato la macchina e ci ha portato al nostro appuntamento: una coppia inconsueta che vive immersa in un fazzoletto di natura e sabbia, anche mentre Israele lancia razzi dalla spiaggia ed Hezbollah risponde con mezzi di fortuna. Ci hanno aperto le porte di casa, offerto birre, dato le chiavi del cancello per un angolo di mare in cui gli uomini non hanno mai visto una donna in bikini – don’t you dare swim naked, they’d kill you.
Autostop, ancora, in cerca di un albergo. Ci ha tirato su il proprietario di un albergo. Caro, troppo per noi. Uno dei suoi ragazzi ci ha accompagnato in un vicolino stretto, dove una signora ci ha affittato una camera della sua casa spartana per venti dollari. Cena in un baracchino sugli scogli; orate, verdura, hummus di melanzane, birra, limonata fresca: sette euro cada.
In cerca di storie, oggi ne abbiamo trovata una nel più antico fabbricante di narghilé di Tiro, un posto da ambientazione cinematografica; qualche ora dopo la passeggiata in un cimitero ha portato il ricordo ai bambini martirizzati dall’Iran negli anni della guerra con l’Iraq: utilizzati per camminare sui campi minati, così da far saltare le mine e poterci mandare i carri armati. Due milioni di morti. Edoardo ha visto il cimitero, lo ha anche fotografato; scrivetegli così vi fa vedere le foto, inedite.

Poi pranzo agli stabilimenti per famiglie, un succedersi di sgangherate casette di legno allineate sulla spiaggia, rigorosamente numerate alla maniera romagnola: anche i pasti ricordano l’abbondanza romagnola. Spiaggiata sul bagnasciuga, ho seguito con lo sguardo la linea costiera e pensato che se tutto va bene e riusciamo a fare quello che vogliamo fare, io in Israele ci voglio andare.

Di ritorno a Beirut dopo tre ore di minibus, scossoni e soste ogni quindici metri circa, Nicola ci ha accolti con una pasta allo scoglio resuscita morti. I miei capelli, invece, li resusciterà forse – forse – solo il parrucchiere. Sembro uscita da un video delle bananarama.

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