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Piazza Tahrir, Milano
Posted by gea in gea and the city, personaggi, viaggi on February 5, 2011
Sono stata alla manifestazione di Libertà e Giustizia, proseguimento ideale di quel Resistere! Resistere! Resistere! con cui Borrelli quasi dieci anni fa risvegliò le coscienze italiane già assuefatte al berlusconismo.
Ci sono andata combattendo la stanchezza e la pigrizia, ma ne sono uscita rigenerata.
C’erano dieci mila persone. C’era l’Italia che non solo non si rassegna, ma sa fare chiarezza in un presente deviato e pruriginoso. C’erano oratori di capacità eccezionale, da Gustavo Zagrebelsky a Umberto Eco, passando per Roberto Saviano, Concita De Gregorio, Susanna Camusso. C’era la voglia di insistere: per riprendersi, prima ancora dell’Italia, dei temi di discussione degni di questo nome. Non il Bunga bunga ma il lavoro, i giovani, la cultura. In un crescendo di consapevolezza.
Ha parlato Loretta Zanardo, l’autrice del documentario Il corpo delle donne, summa spiegazione della società dell’immagine che crea ragazzine anoressiche e 16enni che prendono 9mila euro a sera per farsi guardare dal presidente del consiglio. Tra le molte cose intelligenti che ha detto (“Un altro corpo è possibile” diventerà il mio mantra), mi ha colpito l’invito a non spegnere la televisione come gesto di egoismo e autodifesa. Ha spiegato, in sostanza, che finché le persone dotate di senno e capacità critica continueranno a rifiutare di entrare in contatto con i mostri che la tivù ha prodotto – da Non è la Rai a Uomini e donne c’è solo l’imbarazzo della scelta – sarà impossibile capire quanto e perché tutto sia precipitato. Bisogna conoscere il nemico, per abbatterlo. E bisogna aggregarsi per trovare il coraggio e la volontà di articolare una risposta forte e comune.
Lei lo ha fatto producendo il film, che oggi è diventato materia di studio in molte scuole. E’ illuminante per capire la condizione femminile e, più in là, anche certe forme degenerative dei rapporti interpersonali: fino ad arrivare ai festini di Arcore.
Concita ha letto il fondo che aveva scritto per l’edizione odierna dell’Unità: un pezzo stupendo, lucido e commovente. Da stampare e appendere sopra al letto, come una poesia che si recita nei giorni tristi.
E mentre Moni Ovadia invitava tutti alla mobilitazione permanente, ché di questo c’è bisogno oggi, per un secondo mi sono sentita parte di una resistenza. Gad Lerner dal palco aveva appena dato notizia delle dimissioni dal vertice del partito di Mubarak, e ho pensato che, con le dovute proporzioni, il Palasharp in quel momento era la nostra piazza Tahrir. Senza carri armati ed esercito, ma comunque segno di una rivoluzione delle coscienze. Di un Non ci sto tracimato dagli animi esausti, da vite segnate in molti modi da vent’anni di scempio politico, umano e istituzionale. E di diritti negati: perché anche quello al giusto salario o alla possibilità di mettere al mondo un figlio è un diritto inalienabile.
Italians do it better
Posted by gea in politica e dintorni, viaggi on January 22, 2011
Eravamo a Campiglio. Un fine settimana perfetto: sole splendente, piste quasi deserte, neve ben battuta, forme fisica oltre le aspettative. E una bottiglia di champagne francese per viziarci un po’.
Poi mentre Nic si lavava e io finivo di scolare le bollicine ho avuto la malaugurata idea di accendere la televisione (maledetta incapacità di staccare mai del tutto). E di fronte mi sono trovata un paesano innamorato del lambrusco e dello zampone (Sono qui a Castelfranco, diziamolo ben agli italiani che il miglior cotechino lo fazziamo qua) e un altro che per aggiungere pathos al proprio eloquio si esprime in brianzolo (Eh in milanese li chiamiamo ciociua uraduri, te capì?), che discettavano di cattolicesimo e politica. Ovviamente in collegamento da una qualche cantina dove si stava affettando il salame, che vorrai mai mollare le abitudini della domenica per andare a Roma in studio e sprecare il fine settimana.
E con la bocca ancora impastata da lambrusco, zampone, ossobuco e riso giallo, con la cadenza al pari di una nenia, si vantavano dell’autorità loro conferita dallo Stato: uno sottosegretario alla famiglia – la propria, di certo – l’altro viceministro di non ricordo che, grazie a dio. E non vale la pena nemmeno di riferire cosa dicessero: perché il mezzo è il messaggio, e il loro non essere in grado nemmeno di esprimersi in italiano la dice lunga sulla qualità del pensiero.
E ho dovuto finire tutto lo champagne da sola, per dimenticarmeli. Poi ho avuto mal di testa il resto del week end.
Sarajevo (subtitle: I want to tear down the walls that hold me inside)
Siamo entrati a Sarajevo di notte, ascoltando questa. (The Edge con la pedaliera in confronto è un dilettante).
E con il buio, la neve, i vialoni larghi, i palazzoni sforellati e la gente vestita troppo poco per il freddo che fa, ho pensato di essere nel posto giusto al momento giusto.
In realtà la città prêt-à-porter è un’altra, e il contrasto mi ha reso la vita difficile. Il quartiere turco, intorno a cui si snoda la Sarajevo delle guide, è bella e ben sistemata: moschee, musei, bazar, negozietti, localini, una piazzetta raccolta. Troppo per me: negli ultimi anni ho sviluppato una fascinazione per i posti ruvidi e sconquassati, dove i conti con la storia sono ancora aperti.
Ho avuto la sensazione che tutto sia pronto per il turismo di massa, per infiocchettare i giorni dell’assedio nel menù servito ai veneti che arrivano a fiotti, complice il marco bosniaco che impallidisce di fronte all’euro.
Sono voluta scappare dalla città bella, alla ricerca del resto.
Il resto c’è. Ed è una distesa di cimiteri interrotta qui e là da minareti, case e chiese. Dovunque ci sia uno spazio libero, sulle colline arrampicate intorno alla conca così come nei parchi cittadini, i bosniaci hanno sepolto i propri morti: decine di migliaia. Lapidi bianche, con nomi incomprensibili, sobrie e dignitose, affondate nella neve alta mezzo metro: uno spettacolo che rompe il fiato.
Intorno, l’atmosfera è quella dell’alba atomica: crudele e stupenda. Saliti in cima ai palazzoni di Nova Sarajevo, Nicola e io non siamo riusciti a vedere cosa ci fosse sotto: tutto avvolto dal fumo delle ciminiere con cui gli europei stanno succhiando alla gente del posto ogni minerale che la terra abbia prodotto.
Il 1 gennaio, mentre nel gelo di un campo sperduto guardavo un video sui giorni dell’assedio, ho pensato a che figata deve essere stato fare il corrispondente durante l’ultima guerra dell’epoca moderna. L’ultima senza attacchi aerei, con la Nato tristemente immobile, i cecchini sui palazzi e le donne che correvano per attraversare le piazze, i bambini abbarbicati addosso e qualche patata infilata nelle tasche. Nella mia testa, ho proprio usato proprio la parola figata. E mi sono spaventata: come quando capisci che per il tuo istinto vanesio la guerra diventa un’immagine da raccontare.
Sarajevo here we go
Posted by gea in gea and the city, viaggi on December 22, 2010
Deve esserci una ragione se ogni volta che sto per partire per un posto in cui per salutarsi si spara con il kalashnikov mi vengono la febbre e le placche in gola.
Forse il vecchio barbuto cerca di salvarmi la pelle.
Sulla strada per Londra
La letteratura – ha detto un poeta – è la dimostrazione che la vita non basta. Perché la letteratura è una forma di conoscenza in più. Molte cose ci possono bastare, e devono bastare, nella vita: l’amore, il lavoro, i soldi. Ma la voglia di conoscere non basta mai credo. Se uno ha voglia di conoscere, almeno.
Antonio Tabucchi, Viaggi e altri viaggi.
I wanna talk with Common People
Posted by gea in gea and the city, personaggi, viaggi on December 2, 2010
Martedì prossimo pranzerò a Soho, Londra. Insieme a Ken Loach.
La settimana scorsa gli ho scritto una mail per chiedergli un paio di cose. L’indomani la sua assistente mi ha telefonato e abbiamo concordato l’intervista in Wordour street.
Nella stessa mattina Marta ha scritto a Gianni Amelio, dicendomi: Proviamoci con uno verosimile, dai.
Gianni Amelio non le ha mai risposto.
Bologna-Milano, solo donne
Posted by gea in gea and the city, viaggi on November 14, 2010
Esterno sera, all’interno dell’abitacolo di un’auto, autostrada A1 Bologna – Milano.
Quattro donne, amiche, di ritorno da un week end amarcord nel capoluogo emiliano, cui tutte sono legate da un rapporto speciale (qualcuna anche da due o tre, ma non sottiliziamo).
Voce 1. Il punto è, vedete, che io non mi innamoro. Cioè da quando mi sono separata da beep non ho più conosciuto nessuno che mi facesse battere il cuore. Non voglio mica fare la femminista e dire che gli uomini sono tutti uguali e fanno schifo; no, molti sono belli e piacevoli e quando li vedo penso a come si deve stare bene al loro fianco. Ma c’è già qualcuna, sempre. Poi ne resteranno di fantastici, ma io non li conosco. Non ne incontro uno: non al lavoro, non in giro, non nei locali. Quindi ecco, sono sempre più scettica sulla mia possibilità di sposarmi e fare dei figli.
Voce 2. Ma piantala. Lo sai che è sempre così: si dice così e poi domani trovi l’uomo della tua vita, fra sei mesi ci vai a vivere insieme e fra un anno sei incinta.
Voce 1. Vi odio, vi odio quando fate così. Quelle che ti fanno scendere dall’alto della loro tranquillità emotiva e affettiva il contentino, la rassicurazione miserrima dei poveretti: “Non fare così, i miracoli succedono”.
Voce 3. No vabbé, e poi io la sua tranquillità emotiva mica la vorrei. Hai presente con chi ha appena comprato una casa?
Risate.
Voce 4. E comunque io mi sciroppo quella stronza di mia cugina tutte le volte. Un cesso, un cesso colossale. Una sfigata che non è mai uscita da quel paese del cazzo in cui è nata e non ha avuto uno straccio di maschio fino a due anni fa, poi ne ha trovato uno orrendo, vecchio, che di sicuro la tradisce, e ogni volta mi guarda con sufficienza e dice: “Ma allora, non hai ancora trovato un uomo?”
Voce 2. Ma chi è, è quella che ha messo in giro la voce che sei lesbica?
Risate, lunghissime.
Voce 4. Quella stronza, sì, che il prete si è avvicinato per dirmi di “tornare sulla retta via” l’ultima volta che l’ho incrociato.
Risate incontrollabili.
Voce 3. Comunque tu sbagli: tu devi dire che è vero che sei lesbica. Anzi se vuoi una volta ci vengo io li con te e ci baciamo davanti a tutti, ma sai che risate che ci facciamo? ‘Sti stronzi. Io glielo ho detto a mia madre, l’ultima volta che mi ha riferito che la sua amica tutta preoccupata le ha chiesto quando mi sarei sposata. Le ho detto, guarda mamma, dille pure che sono lesbica e non mi sposerò mai e che la smetta di romperci le palle.
Voce 1. Giusto, io ai miei glielo ho detto, te lo ricordi, c’eri anche tu presente: “Bisogna affrancarsi da questa morale cattolica per cui se non sei fidanzata non trombi”. Eccheccazzo.
Voce 4. Sì e poi, fatemi finire, quella stronza di mia cugina, sempre lei, l’ultima volta mi ha detto: Ma tu facebook ce l’hai? Ma com’è che un uomo non lo trovi nemmeno lì? No ragazze mi è uscito il fumo dalle orecchie! Le ho risposto: Ma tu hai presente che sei la figa più brutta dell’emisfero boreale, non ti ha mai cagato nessuno, hai sposato uno sfigato di vent’anni più vecchio che ti tradisce e tocca il culo alle ragazzine, sei diventata un barile – climax – e non ti lavi nemmeno???
l’animale che mi grida dentro
Posted by gea in gea and the city, viaggi on November 12, 2010
Fra due giorni mio padre sale su un aereo, recupera la barchetta che lo aspetta a Lanzarote e si lancia in Atlantico, destinazione Brasile. E da lì la sua seconda circumnavigazione del globo.
Questa sera ho salutato Gabriele, amico fotografo, che domani parte per il giro del mondo. Un anno pagato da una delle riviste italiane più importanti, cui manderà lavori settimanali (i dettagli non si possono dire, ma tanto fra poco lo troverete in edicola).
Entrambi realizzano un sogno che è anche il mio. E ogni volta mi spacco a metà tra il desiderio di mollare tutto e correre dietro all’animale che mi grida dentro e la consapevolezza che ci vuole tempo, per fare le cose nel modo giusto: prima o poi arriverà anche il mio. Però che fatica aspettare.
Equatore
Trentaquattro gradi, il cento per cento di umidità e la superiorità manifesta della natura sull’uomo.
L’equatore è una vera figata.