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Essere minoranza

Io, cosa significhi essere minoranza, lo so da sempre.

Sono minoranza dalla nascita, quasi per statuto. Il mio nome non ha santi (né eroi), non è comune e non è nemmeno italiano, anche se io lo sono.

Sono minoranza nella mia famiglia, in cui tutti hanno studiato giurisprudenza, inclusi i parenti acquisiti, e io a cinque anni già impaginavo il giornalino della prima elementare, sapendo che quello avrei fatto — o almeno voluto fare — nella vita.

Ero minoranza alle elementari, unica non battezzata in una scuola di suore, la sola che mi aveva  preso a cinque anni.

Ero minoranza alle medie, quando i miei compagni ascoltavano gli 883 e io ero malata dei Guns N’ Roses e dei Nirvana, per lo sgomento dei miei.
(Mio padre stava guardando il Tg3Notte quando arrivò la notizia che Cobain si era suicidato. Passavo dalla sala per caso, a quell’ora ero già a letto. Scoppiai a piangere, inconsolabile. Mio padre mi gelò: «Cosa cazzo piangi che non lo conosci nemmeno?»)

Ero minoranza nel posto in cui sono nata, Chiavari, una cittadina deliziosa ancorata a routine e abitudini che già a 15 anni mi avevano fatto secca: infatti chiesi di poter andare a studiare in America e scappai. D’altronde, anche i miei erano minoranza, a loro modo: arrivati da Milano, dove erano arrivati da Torino, dove erano arrivati da Aosta, dove si erano conosciuti essendo uno siciliano, l’altra bergamasca. Finiti in un posto in cui la maggior parte degli abitanti è stanziale da generazioni, passandosi case, attività commerciali, espressioni dialettali.

Nell’ultimo decennio sono stata minoranza rifiutando diverse offerte di lavoro, nel momento in cui già il giornalismo era una crisi mostruosa (che sarebbe peggiorata), per paura di annoiarmi, a fare il mestiere così. Andando via da posti di lavoro fissi e incarichi tecnicamente allettanti, pur di sentirmi libera, e poi sentendomi quotidianamente in balia del mutuo, dei conti, delle fatture emesse, pagate, non incassate. Ma comunque meglio che all’altra maniera.

Sono stata minoranza quando mi ha chiamato una parlamentare nota, chiedendomi di lavorare per lei: per due giorni ho pianto, sapendo che accettare era per mille ragioni la cosa più sensata. Non me la sentivo di lavorare per questi, e ho detto no.

Sono stata minoranza altre centomila volte, e lo sono per natura, indole, testardaggine, orgoglio, stupidità, vanità.

Oggi sono minoranza insieme a un sacco di altra gente, ma in modo del tutto diverso. E spaventoso.

Lo sono ogni volta che vedo un tweet di Salvini e capisco cosa c’è dietro, come sta fregando la gente, come la gente ha voglia di farsi fregare. Lo sono quando penso a quelli delle Iene, con ribrezzo per le campagne che hanno fatto negli ultimi dieci anni, e mi rendo conto che hanno vinto loro, che i metodi sono i loro. Non importa che per me Nadia Toffa o Giarrusso non saranno mai giornalisti o scrittori: lo sono per chi li segue, e chi li segue è la maggior parte del Paese. 
Noi che stiamo a casa a imbarazzarci per Conte che tiene su un cartello con scritto #DecretoSalvini con l’aria di un ostaggio, ma senza la dignità per metterlo giù, siamo ultra minoranza: fuori dal nostro recinto per qualcuno è spettacolo, per altri è politica, per altri è normale.

Metaforicamente, siamo già in un ghetto: infatti ci chiamano élite, intellettuali, buonisti, sinistroidi e qualsiasi altra cosa, anche se magari facciamo fatica a far quadrare i conti, abbiamo votato i radicali e non abbiamo mai letto Guerra e Pace. 
Lo siamo perché i criteri che ci eravamo dati, i nostri metri di giudizio, le cose che avevamo imparato per affrontare il mondo, la vita e il lavoro non servono più. Sono superati, sono vecchi. Le nostre ragioni sono vane, perché si esprimono in lingue e sintassi che non sono più universali: anche se volessero, gli interlocutori non riuscirebbero a capirci.

Ero abituata a essere minoranza, ma ora è cambiato tutto. E a questo non ero preparata.

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Il giornalismo nell’era di Twitter

(Soundtrack: Times they are a changing)

Succede che leggi il New York  Times e ci trovi delle storie di giornalismo vero, costate (immagino) molta fatica e molte ricerche ai loro autori: l’unico uomo che ha battuto Putin in un tribunale, le armi chimiche in Iraq, i documenti secretati sul ruolo dei sauditi nell’11 settembre. Poi vai a guardare chi le ha scritte, e benché da anni tu legga i quotidiani Usa, frequenti i programmi d’informazione americani e abbia conoscenza degli States, non hai la minima idea di chi siano questi, o certamente quantomeno non hai la minima idea di che faccia abbiano o di che suono abbia la loro voce. Ed è un sollievo reale: eureka, sono giornalisti!
E cioè: sono giornalisti, non salottari, massmediologi, twittaroli, bellimbusti (o, talvolta, persino bruttimbusti) abbronzati votati alle poltrone Frau dei talk show come ospiti fissi con iPad in mano e pallottiere dei follower nell’altra. Sono giornalisti, ovvero, nelle parole di un mio anziano maestro che non c’è più, artigiani dell’informazione: gente che non cerca visibilità, votata al lettore e alla chiarezza dei fatti.
In Italia, oggi, i giornalisti vendono soprattutto se stessi: esistono persino dei corsi su Come creare un brand, e non è che in sé sia sbagliato – qualsiasi testata giornalistica intelligente deve farsi conoscere – se non fosse che da noi c’è sempre molta confusione tra il singolo e la testata e quale due due sia più importante, ma soprattutto c’è molta confusione tra cos’è un giornalista e cos’è un brand, salvo la crescente attitudine di certi giornalisti a considerare se stessi e un gruppetto di colleghi un brand in carne e ossa, a prescindere da quello che possono offrire al lettore.
L’Italia, per dire, è quel posto in cui un giornalista scrive (peraltro con un’ottima penna) un articolo sul vecchio giornale in cui lavorava e sul direttore, e su Twitter è tutto uno squittire di ex colleghi che si sdilinquiscono, aggiungono, precisano, ritwittano, in un’operazione collettiva (temo persino involontaria) di costruzione di un’immagine lirica, poderosa e sentimentale del giornale stesso. Un’operazione degna delle Pr, in epoca contemporanea, perché anche solo fino a qualche anno fa l’immagine di un giornale se la auto-costruivano i lettori a seconda di quello che pubblicava (nel caso in questione, oltretutto, Il Foglio, fa bene il suo lavoro senza bisogno di questi salamelecchi patetici di chi l’ha fondato: questo tipo di ricostruzione si tollera oggi dalla Rossanda parlando del Manifesto, capirete che tempi e opportunità sono un po’ diversi).
L’Italia è anche quel Paese in cui esistono riviste che dedicano parecchie pagine a un servizio su “Come si costruiscono i quotidiani”, una roba che una volta si studiava alle Medie in educazione tecnica, e che ora invece diventa una specie di messaggio trasversale tra giornalisti, un segno d’arguzia e di fighismo, una gara a chi è più avanti: d’altronde, quella rivista (Studio, sempre senza offesa) la conoscono solo i giornalisti, e per lo più di Milano. Già, perché ormai siccome dei lettori non se ne cura più nessuno e pochissimi cercano ancora storie e notizie che non facciano parte del loro stesso mondo (cioè quello dei media), i lettori sono diventati i giornalisti, in un gioco di specchi e speculazioni con potenza resa logaritmica da quella grande abbuffata per gli ego che è la mangiatoia di Twitter.
L’Italia, infine, è anche quel posto in cui il portavoce del primo ministro (uno, peraltro, che non ha esattamente bisogno che la sua voce sia amplificata, ma capisco che sia una dotazione minima per essere premier) è un giornalista – un ottimo giornalista mi risulta – i cui colleghi oggi magnificano con lunghi articoli e citazioni e sfoggi di amicizia, al posto magari di segnalarne eventuali incongruenze (non sto dicendo che ci sono, sto dicendo che se ci fossero andrebbero segnalate, specie da chi le conosce bene)  o di fare le pulci all’operato del governo e al suo culto della persona.
Lo so: mi odiate. Giuro, io stessa mi sento sempre un po’ retrograda e imbarazzata nel dire queste cose: ma, dannazione, sono vere. Apritevi un account su Twitter e seguiti i 20 giornalisti italiani più popolari su Internet («La popolarità è la cuginetta zoccola del prestigio», dice qualcuno in Birdman, e anche se non è una citazione di Montanelli mi pare assolutamente degna) e constaterete con mano.
Spero che sia chiaro: questo non è un anatema contro Twitter. Twitter è uno strumento, e spesso è utilissimo: il numero di cose che riesco a leggere perché qualcuno le segnala e che altrimenti perderei non si conta. Di recente è stata creata la prima testata solo su Twitter (reported.ly) e fornisce informazioni puntuali, accurate, probabilmente introvabili diversamente. Ci sono giornalisti che su Twitter mi risultano indigeribili, ma poi fanno prodotti editoriali di tutto rispetto. E tuttavia il social network è anche uno stagno in cui specchiare ego gonfiati a dismisura, di giornalisti che con i loro lettori e con l’idea di servire il lettore ormai non hanno più niente a che vedere.
Magari è quell’idea a essere sbagliata: posso accettare il dubbio. Ma qualcuno allora mi spieghi cosa deve fare e chi deve servire oggi il giornalismo.

 

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Tutta colpa di Beautiful (Fuck the biological clock)

Ho capito, maledizione: è tutta colpa di Beautiful.
Di quei pomeriggi alle medie in cui arrivavo a casa e, con l’Invicta ancora sulle spalle, accendevo la tivù e mi piazzavo a guardare Brooke, Ridge e Taylor amarsi e tradirsi, morire e resuscitare, gemere e promettere, sposarsi (preferibilmente su una spiaggia delle Hawaii) e divorziare (preferibilmente nella sauna di Big bear): anni interi di “Un giorno alzerai il telefono ma io non ci sarò più, e allora capirai” a forgiare l’educazione sentimentale delle adolescenti. E a promuovere la cultura amorosa del dramma.
L’ho capito oggi, facendo zapping per caso a ora di pranzo. Una delle tante sorelle di Brooke (che nel frattempo sono state impersonificate da cinque o sei attrici diverse, per mantenere l’età fisica bloccata in epoca riproduttiva intorno ai 35 anni) gridava a uno dei tanti ex mariti di Brooke, che però evidentemente era stato uomo anche della sorella, che Brooke non lo amava davvero, ma sarebbe stata nei pressi soltanto finché un’altra sorella avesse trovato un altro uomo e Brooke avrebbe sentito l’esigenza di rubarglielo provandosi più figa, oppure finché non fosse tornato il sempiterno Ridge, che a questo punto penso sia coetaneo di mio padre ma comunque deve avere ancora il suo certo fascino se tutte si strappano i capelli così.
Comunque: lacrime, parole, abbracci, primi piani di lacrime, primi piani di labbra, sussurri, strade di Los Angeles. Tre minuti e mezzo per capire come mi ha fottuto Beautiful.
Andrebbe messo fuori legge: è una specie di batterio, un’ebola dei sentimenti, un amplificatore del culto della scena madre come sommo gesto d’amore, quella roba che nella vita vera dopo cinque minuti ti chiedi perché sei così demente, e quando la mattina dopo piagnucoli nel letto non ti senti mai come Brooke mentre si prova la lingerie pensando alla prossima preda, ma soltanto una sfigata che nonostante le parcelle dell’analista non ha ancora imparato quando deve mordersi la lingua.
Fottuto Beautiful. Ma ora che lo so mi sento meglio. E conto anche di scrivere una lettera di rimborso alla produzione. Forse potrebbe diventare una petizione globale: una specie di risarcimento internazionale a tre o quattro generazioni di melodrammatiche. Non basterà a ridarci il tempo di infinite sceneggiate, ma magari a fare un viaggio alle Hawaii anche noi sì.

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