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Day after

Lunedì sera alle 23.30 ho spento computer e televisione e mi sono infilata a letto con Mordechai Richler: le saghe israelo-palestinesi sono quanto di meglio per ricordare che c’è sempre qualcuno cui va peggio di noi.
Martedì mattina, ancora sotto le lenzuola, ho controllato le percentuali della disfatta – inspiegabile come la Bonino abbia preso meno voti di quella coatta da grande fratello; diciamo comunque che l’uscita a gamba tesa dell’Onorevole Bagnasco deve avere qualcosa a che fare con questo mistero – e poi mi sono infilata in redazione dove per almeno due ore ho evitato qualsiasi contatto con siti di informazione e quotidiani. Infine, mi sono convinta a volermi abbastanza male da prendere in mano il Corsera: in una giornata così, tanto vale fustigarsi anche con la linea editoriale di De Bortoli.
Ho rimuginato, rimuginato, rimuginato; evitato Facebook e similia; tenuto la bocca chiusa nella maggior parte dei dibattiti tra colleghi.
Infine, dopo tanto pensare, di fronte ai miei occhi si è materializzato chiarissimo il quadro della situazione. Eccomi, quindi.
Punto numero uno: non parlerò della destra. Nessuna citazione a Silvio Berlusconi, Umberto Bossi, il di lui figlio, il mangiatore di asini Ignazio La Russa, il soldato della Padania Cota, quellachepotevafarelastardelGF Renata Polverini eccetera eccetera. Parlerò di noi; anzi, di loro: della sinistra (!).
Punto due: parlerò della sinistra, non del centro sinistra. Perché, parafrasando Moretti, le parole sono importanti e l’abitudine mentale a pensare in termini di cento sinistra è tra responsabili del danno: a noi interessa la Sinistra, non il centro, non la destra transfuga a sinistra, non i clericali vestiti ora da moderati, ora da verdi, ora da mascelloni. Io-sono-di-Sinistra, punto.
Terzo: parlerò della Sinistra come partito, come identità politica, come organismo sancito dalla costituzione nella sua natura di partito organizzato, e che per questo risponde a criteri, obblighi, doveri, statuti, regolamenti, e non a eccitazioni individuali e mal di pancia e voglia di gridare e incazzature di sorta e progetti mai acclarati e compagnia cantante.

Parliamo, dunque. Parliamo del Partito Democratico, infelice eredità del glorioso ancorché fallimentare Pci, mutazione transgenica avvenuta col filtro del moderatismo e del progressismo e del dialoghismo e del buonismo e, soprattutto, dell’incapacità di dire le cose come stanno per paura di essere troppo di sinistra (di cui l’allargamento al centro). Questa è la storia degli ultimi anni, la storia di una diluizione progressiva, che ha reso quelli che oggi si chiamano democratici sul modello americano un partito con poca anima (togliergliela del tutto sarebbe ingiusto e e li metterebbe a livello di Berlusconi e soci: un paragone che francamente non meritano) e scarsissima capacità di capire e ascoltare la gente, a parte le comparsate di Bersani fuori dai cancelli di Mirafiori, fuori tempo massimo visto che fra due anni nemmeno esisterà più. Un partito così teso nello sforzo di apparire moderato che ha smesso proprio di apparire; così progressista e largo nei propri obiettivi da essere incapace di inquadrarne uno concreto (a parte quello di far fuori Berlusconi, cosa che peraltro a queste condizioni non gli riuscirà mai); così rispettoso della Res Publica e delle sue istituzioni da non riuscire a distinguere quando le istituzioni mancano di rispetto a noi. Un partito addormentato, che reagisce poco e reagisce tardi. Un partito la cui unica mossa chiara di recente è stata provare a far fuori Nichi Vendola: e per fortuna che Vendola è più sveglio di loro e ne ha fatti secchi lui un paio.

Poi guardiamo i risultati elettorali e vediamo chi, nella galassia dell’opposizione, è venuto fuori bene da questa tornata. Il buon Vendola, appunto, che mi fregio di additare come speranza della sinistra da anni ormai. Antonio Di Pietro e i suoi. Grillo e i grillini.
La lezione è così chiara che non c’è quasi bisogno di tirare le fila. Ma facciamolo comunque.
1) Gli elettori vogliono messaggi chiari, semplici e che sentano propri e importanti (peraltro il modello della Lega). Vendola ha vinto il secondo mandato in Puglia, andando contro l’apparato e nonostante inchieste e scandali che hanno travolto molti intorno a lui, con la capacità di dire cose elementari ed enormemente di sinistra (a me sembrano di buon senso, ma generalmente vengono ricondotte a sinistra). Per esempio: l’acqua è un bene di tutti e non si paga. Il nucleare è pericoloso e finché non sappiamo come smaltire le scorie non costruiamo centrali a casa nostra. Patti con delinquenti non ne faccio.
Sembrano cose strane? No, eppure avete sentito Bersani dirlo di recente? (O anche non di recente). Quanto ci vuole a dire che privatizzare l’acqua è inammissibile? Ci vuole il coraggio di ricordarsi chi siamo e cosa crediamo e qual è lo spirito della sinistra: evidentemente la nomenklatura del PD non ha il coraggio di affermarlo.
2) Messaggi chiari (magari non nella forma lessicale, ma tant’è) sono quelli che manda Di Pietro, un altro il cui partito è in crescita netta. E quelli che grida Grillo ansimando durante i suoi spettacoli e nelle piazze. Sono tutti da condividere? No, io molti di quelli di Grillo non li condivido affatto. Mancano di sostanza e chiarezza, sono spesso poco più che mere enunciazioni di sogni. Eppure evidentemente la gente ha bisogno anche di sogni con cui vivere: un mondo più verde, energie rinnovabili, città cablate, benzina che costa il giusto. Quant’è che il PD (o i Ds prima, e prima il Pds) non regala un sogno?
A me anni.
3) Cos’hanno in comune i Grillini, l’IDV, la Lega e Sinistra e Libertà? Un leader forte, chiaro e riconoscibile. C’è un altro modo per spiegare come Vendola, giovane (specie al suo primo mandato), omosessuale e di fede postcomunista abbia potuto vincere in Meridione per due mandati di fila?

Quindi, lezioncina. La Sinistra, per tornare a essere tale, ha bisogno di: trovare un leader che lo sia davvero (continuo a suggerire il nome di Nichi); trovare il coraggio di fare un programma che si basi su valori chiari e condivisi e condivisibili; smettere di provare a impallinare l’avversario sentendosi a lui superiore, ma iniziando a impallinarlo con progetti, proposte e discorsi che gli rispondano in modo chiaro e netto; ritrovare l’orgoglio di essere sinistra.

A quel punto, se mai arriverà, avrà di nuovo il mio voto.

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Usa, ’96-2010

Nel giugno 1996 avevo 16 anni e quattro mesi, un caschetto di capelli biondissimi e un paio di enormi valigie da portare con me dall’altra parte del mondo. Parecchie settimane prima, sull’onda di un entusiasmo mai intaccato dalla razionalità, avevo superato le selezioni per un programma di studio negli Stati Uniti: 14 mesi di permanenza e il quarto anno di liceo da terminare lì.

Mentre raccoglievo peluche, scrivevo biglietti agli amici e confezionavo cassette da ascoltare durante il Grande Volo (l’espressione era presa in prestito al più noto romanzo di Enrico Brizzi, uscito l’anno precedente, una sorta di manifesto generazionale per quelli della mia età), mi figuravo e raccontavo la cosa a tutti con le aspettative e la gioia dei pellegrini dei Mayflower; d’altra parte per me allora gli States erano Beverly Hills 90210, la possibilità di guidare la macchina, le palme di Rodeo Drive, il rock ‘n’roll e il rock duro e puro, le spiagge infinite della California, i pancake a colazione e la libertà di appoggiare lo sguardo in qualsiasi punto senza avere nulla a nascondere la linea dell’orizzonte.

Ricordo come fosse ieri il giorno della partenza: un aereo della TWA diretto ad Atlanta era saltato in aria soltanto il giorno prima e mia madre a Malpensa piangeva lacrime incontrollabili. Non era il pericolo che l’aereo esplodesse a preoccuparla, ovviamente, ma questo lo avrei capito soltanto molto dopo. Io, invece, non stavo nella pelle: avevo fretta di salutare i miei e imbarcarmi per quello che sentivo come il primo momento infinitamente grande della mia vita: e su questo, almeno, non sbagliavo.

New York alle sei del pomeriggio era avvolta in un’afa umida e un po’ puzzolente: i giorni dell’ecosensibilità dovevano ancora arrivare e fuori dal Jfk orde di pakistani sgasavano sulle loro Mercedes gialle anni ’80 forti della benzina a 70 centesimi al gallone. Mi guardavo intorno, frastornata dai rumori e dalla luce di un tramonto che si rifletteva sui grattacieli di Downtown, e mi sembrava di galleggiare nell’aria, con lo stordimento misto a compiacimento e quell’euforia che mi faceva sentire improvvisamente adulta e in possesso dell’intero mondo.

Il mio innamoramento per gli States durò l’intera estate, passata a scorazzare sui prati di Yale e nel Greenwich Village, in giro per Brooklyn sui rollerblade comprati per sentirmi subito una di loro (insieme alle magliette indossate inside-out, alla rovescia, come ogni teenager a stelle e strisce che si rispetti), tra le spiagge chilometriche di Long Island e nei fast food a rimpilzarmi di schifezze: allora Mc Donald’s aveva ancora un che di esotico per noi italiani di provincia.

Il mio primo impatto con le stranezze americane si consumò ad agosto, poco prima dell’ingresso nella nuova scuola: a una grigliata di amici addentando un hamburger strafarcito di grassi mi si ruppe un dente. L’intervento del dentista, della durata di un’ora al massimo, mi costò 600 dollari tondi tondi. Una certa sommetta, specie quindici anni fa. Faxai la parcella a casa, insieme alla richiesta di rimpinguarmi il conto in banca, e me ne dimenticai di lì a poco.

Ma l’idillio stava per incrinarsi: i primi di settembre un amico dall’Italia mi inviò un poster di Che Guevara, con dietro una lunga lettera. Lo attaccai commossa nella camera in cui alloggiavo, presso una famiglia di riccastri newyorkesi; dopo due settimane mi sbatterono fuori con l’accusa di fare politica in casa loro. Non sapevo, e con l’ingenuità dei sedici anni anche se lo avessi saputo non avrei saputo come interpretarlo, che lui era una prima linea del partito Repubblicano locale, e che Che Guevara per loro rappresentava un’ossessione comunista più o meno come i giudici oggi per Berlusconi. Fui trasferita, come la merce pericolosa, a qualche centinaia di chilometri di distanza, nel gelo siberiano di Washington D.C. Ad accogliermi una nuova famiglia, questa volta composta praticamente da due ragazzini: Mike aveva 35 anni, era un maggiore riservista dell’esercito e lavorava al NSA (National Security Agency), per cui ogni volta che parlavo al telefono con i miei lamentandomi di qualche cosa mia madre mi ammoniva preoccupata: “Non dire niente, che quello di sicuro ti capisce”; Mel aveva 29 anni, pesava duecento chili, etto più etto meno, aveva un passato nell’esercito e si occupava di spostar tir contenenti non so che lungo le highways americane. Brooke completava il quadretto: due anni e mai una parola spiccicata fino ad allora e in tutto l’anno della mia presenza.

Mel e Mike venivano dal Mississipi ed erano di colore; credo che all’epoca, nella Chiavari bene in cui ero cresciuta, non esistessero famiglie di immigrati. Il fatto di avere la pelle di un colore diverso era strano più per loro che per me: io la vivevo come un qualcosa di esotico, mi nutrivo di musica soul (l’unica che ascoltassero, con una sorta di rigetto per tutto ciò che non fosse colored), ascoltavo i loro racconti su posti lontani e poverissimi e sull’esercito in cui entrambi si erano arruolati per poter studiare; loro mi vedevano come la figlia bene dell’alta borghesia italiana, una che di certo non poteva capire cosa significasse nascere neri nel Mississipi degli anni 60.

Avevano ragione, ovviamente, anche se rischiavano spesso di sconfinare in un razzismo al contrario. Ma a vivere con loro, che comunque erano benestanti e giovani e divertenti, imparai più cose sull’America che andando a scuola, dove seguivo corsi ridicoli prendendo sempre il massimo dei voti (nota di colore: il mio primo tema, un commento a Medea, la tragedia, prese il voto più alto di tutta la scuola. Lo portarono in giro di classe in classe, trattandomi come il genio italiano; in realtà credo fosse in un inglese stentato e probabilmente sgrammatico: evidentemente però meno sgrammaticato di quello dei miei compagni). Viaggiammo in lungo e in largo: Georgia, Mississipi, Missouri, South Carolina, North Carolina, California, Illinois e via discorrendo. Spesso ci scontravamo – Mel era lunatica e scostante, probabilmente un po’ gelosa di una ragazzina nel fiore dell’adolescenza vicino al marito – ma discutevamo anche tanto di cose importanti, come la politica e la loro devozione all’esercito. Entrambi votavano per i Repubblicani (nel ’97 Clinton vinse il suo secondo mandato alla Casa Bianca), e il perché non mi fu mai chiaro, considerata la loro storia personale.

Ho parlato con loro per l’ultima volta dopo l’11 Settembre. Poi, per via del mio vagabondare e del passare degli anni, ci siamo persi di vista. Ma sono certa, assolutamente sicura al mille per cento, che entrambi abbiamo votato per Obama nel novembre 2008. E sono ancora più sicura che l’abbiano vissuta come una rivincita personale, come un sogno diventato realtà, esattamente come profetizzato dal Dottor King. Non potrebbe che essere così: io stessa, bianca con a cuore la storia, l’ho vissuta in quella maniera. Obama ha lo stesso carisma e la stessa struggente umanità di Martin Luther King, la capacità visionaria, la consapevolezza di ciò che la politica è e può fare: cambiare le sorti del mondo. Lo ha dimostrato oggi, con l’approvazione della riforma sanitaria, una scommessa vinta con la capacità di schiantare decenni di stereotipi e ingiustizie e lobbismo sulla pelle della gente.

Gli estemisti di destra definiscono Obama un socialista; pensando ai nostri socialisti mi sembra un insulto molto peggio di quello che vorrebbero, ma loro di certo non capirebbero perché.

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I have a dream

Non è tempo di decisioni facili. Per nessuno, a giudicare da come starnazzano in Tv politici di estrazioni composite (ma con una netta preponderanza liberticida), e nemmeno per me. Ho detto di no a un lavoro che mi interessava, in una rivista nazionale. Ma le condizioni non erano quelle giuste.

Rifiutare un lavoro mi riesce molto difficile; non che sia un epigono di Max Weber, ma appassionata di quello che faccio sì, e parecchio. Prendere decisioni così è come mettere tutto su una bilancia la cui lancetta è governata dal caso; può essere che la scelta sia stata quella giusta, magari invece le circostanze dimostreranno il contrario.

A fare da contraltare, però, c’è sempre il peso dei sogni, e l’insofferenza verso chiunque soffi sul loro fuoco, forte di carriere costruite in anni in cui tutto era semplice. Giorno dopo giorno sono sempre più intollerante verso i cinici cinquanta-sessantenni, quelli che hanno preso tutto e ora alzano le spalle e ti consigliano di lasciar perdere. Hanno quell’atteggiamento tra il razionale e il rassegnato di chi evidentemente non ha mai avuto bisogno di combattere, o di credere che si possa farlo. Ti trattano come una sorta di Don Chisciotte, con un misto di pietismo e comprensione, per l’importanza delle tue speranze.

Il mio lavoro ovviamente non è la lotta al colonialismo o all’apartheid, ma avrei voluto vedere dove saremmo arrivati se Ghandi, Mandela o Martin Luther King avessero avuto quella faccia lì. Eppure, lo hanno fatto anche per loro: per quelli che oggi, democristianamente, a destra o a sinistrissima, alzano il sopracciglio in segno di resa.

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Articolo 1

“La sveglia delle 7 e 15 è una brutta abitudine? Gioca a Turisti per Sempre e  vivi facile. Con Turisti per sempre  vinci subito 6mila euro al mese per 20 anni. E la sveglia sarà solo un ricordo”.

Questo è il messaggio promosso con uno spot radiofonico dal nostro Stato. Quando si dice una repubblica fondata sul lavoro.

(ipocrisia suprema: al termine lo speaker aggiunge “Gioca con moderazione”. Dash lava più coscienze).

[da riascoltare: Indietro Tutta, quando la realtà super l’immaginazione]

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Notizie qualunqui

In un giorno qualunque, su un qualunque giornale italiano, si incappa in notizie come queste:

Avviso di garanzia per il capo della Protezione Civile (e promesso ministro, ndr). E negli appalti spunta la mafia.

Milano, preso con la mazzetta in mano. Arrestato il consigliere comunale: è accusato di consussione.

Vercelli, in manette il presidente della provincia.

La tragica abitudine alle notizie, peraltro, fa sì che le ultime due stiano a pagina 16.

Se questo è un Paese normale.

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Incidentalmente

La commissione di vigilanza Rai – organismo di controllo di complessa composizione, arzigogolate competenze e dubbia indipendenza – vuole fermare le trasmissioni dove si parla di politica un mese prima delle regionali, in virtù della par condicio.

Anche ammesso che la scelta possa avere un fondamento, e personalmente non lo credo, mi resta sulla punta della lingua una domanda. Cosa ne sarà invece delle decine di programmi pomeridiani, quelli di Barbara D’Urso e compagnia cantante, che sotto le vesti di ipertrofici contenitori diffondono con espedienti da melodramma messaggi politici estremamente netti ma mai dichiarati?

Per esempio, mi è capitato un pomeriggio, mentre in Parlamento infuriava la discussione sul processo breve, di assistere a un pezzetto di trasmissione su canale 5: un padre in lacrime raccontava come 15 anni dopo l’omicidio della figlia ancora non ci fosse stata una sentenza di condanna e la D’Urso, prodigio di plastica e sorrisi, con gli occhi lucidi si rivolgeva alla platea: “Avete capito? Qui la politica non c’entra, è la storia di una famiglia distrutta, avranno o no diritto questi genitori ad avere giustizia in tempi brevi?”.

(qui una rassegna di alcuni pregevoli estratti di Pomeriggio 5: la D’Urso e Luxuria, la D’Urso e Corona, la D’Urso e lo stalking. Sempre perché la politica non c’entra).

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A testa alta

Stamane, prima che su Milano scendesse mezzo metro di neve, ho stampato su bella carta una discreta quantità di miei Cv e mi sono incamminata verso una serie di redazioni che ho scoperto si trovano vicino a casa mia.

Sono arrivata alla prima e mentre chiedevo alla portineria il permesso di entrare mi vergognavo come una ladra. Volevo girare sui tacchi e andarmene, perché la verità è  che c’è una bella differenza tra l’essere ignorati con una mail che finisce nel cestino senza essere letta e un direttore che ti sbuffa in faccia. Il secondo fa male.

Ma mi sono fermata un secondo a pensare, cercando di guardarmi dall’esterno; ne ho concluso che non avevo nulla di cui essere in imbarazzo. Anzi. C’è un’enorme dignità nel presentarsi a qualcuno dicendogli che hai voglia di lavorare: mica vuoi rubargli dei soldi, hai voglia di faticare, e per qualcosa che ti piace e che pensi di sapere fare.

Ho consegnato i miei Cv a testa alta pensando che chiunque sia intelligente capisca quanto valga lo sforzo di bussare alle porte sul serio, senza la protezione confortante dell’anonimato digitale. Non so se darà qualche frutto, ma mi sembra di aver imparato una lezione.

(Nota di colore. Redazione di un femminile patinato, lascio il Cv alla segretaria di redazione, non riuscendo ad arrivare a nessun’altro gerarchicamente superiore. Mi guarda: “Ma una foto non ce l’hai da mettere sul Cv?”. Risposta: “Signora, voglio lavorare come giornalista, mica come velina”).

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L’onestà morale, questa sconosciuta

La chiave per capire molte cose degli ultimi giorni è in questo articolo di Gabriele Romagnoli; pezzo di colore ma prima ancora (riuscito) tentativo di riportare sul terreno del concreto una discussione che da domenica vola ormai nell’ideologia e forse anche nell’ecumenismo, a giudicare dall’immaginina “L’amore vince sull’odio” con il Cavaliere in posa agiografica diffusa ieri dal Pdl.

Romagnoli, per chi non avesse il tempo di leggerlo, racconta la genesi del “pazzo” Tartaglia: un ragazzo squilibrato, perché inconcludente e incapace di accettare il fallimento, con evidenti fragilità. Un ragazzo che come molti altri trova se stesso (e perde se stesso) sulla Rete, dove può assumere infinite identità, cercare amicizie che nella vita vera non gli riescono, plasmarsi come non è. Finché non incontra una giovine di belle speranze, che inizia a martellare di richieste; quando questa si fa sfuggente, lui si presenta fisicamente davanti a lei, e lei, spaventata, gli intima di scomparire. A lui non restano che i social network ai quali lei è iscritta per spiarne la vita; su uno di questi scopre la passione della donzella per il Cavaliere. Di lì, probabilmente, la vendetta contro chi era riuscito in quello in cui lui aveva fallito: attirarne le attenzioni e la stima.

Che la ricostruzione di Romagnoli, immagino documentata con la consueta serietà, sia corretta o meno, un merito evidente ce l’ha: sgomberare il campo dalla tesi dell’odio politico brandita a più mani come strumento di consenso, di sovvertimento del reale e molto altro ancora.

I dati sono pochi ed estremamente chiari: Tartaglia non era un ideologizzato, non apparteneva a un movimento, era instabile di mente. Il suo gesto non ha nulla a che vedere con quelli che 40 anni fa aprirono gli anni di Piombo o li animarono; nulla in lui, nel suo percorso di vita, nelle sue motivazioni ha qualcosa a che vedere con lo scontro di ideologie che segnò quell’epoca. Questo lo hanno chiarito da subito gli investigatori: perché allora continuare a ricamarci sopra? La risposta che mi viene in mente, abbastanza semplice, è che conviene: il clima incandescente e il pericolo terrorista sono strumentalizzazioni fatte e finite. Siccome non ho la pretesa di avere la risposta giusta, ammetto che possa non essere così; resta il fatto che, date le premesse, l’odio politico è chiamato in causa in modo inopportuno, quale che ne sia la ragione.

Una sola cosa riporta a quell’epoca: la difficoltà di molti (come all’epoca dell’assassinio Calabresi o dei primi episodi di terrorismo) di condannare senza appello la violenza. Un errore esiziale. Strizzare l’occhio a questi comportamenti è pericoloso, perché abbassa le difese immunitarie che vanno erette contro l’accettazione di qualsiasi violenza.

Condannare con fermezza la violenza non significa però essere buonisti, o sottacere il ruolo cruciale di buona parte della destra pidiellina nel creare il clima incandescente che molto spaventa. Il Presidente Napolitano ieri ha invitato tutti a darsi una calmata e a recuperare toni civili; Cicchitto aveva appena finito di applaudirlo quando ha accusato Repubblica di essere la mano che ha armato l’aggressore del premier. E, giusto per distendere gli animi, quando Antonio Di Pietro ha preso la parola in Parlamento, il Pdl è uscito dall’aula.

Due esempi potrebbero essere sufficienti, ma basta sfogliare a caso qualsiasi quotidiano degli ultimi mesi per leggere dichiarazioni che sanno essere aggressive quasi quanto la statuetta del Duomo sbattuta in faccia a Berlusconi; tanto per fare un breve excursus: quel “coglioni” rivolto da Berlusconi alla metà degli italiani che non votano per lui; “matti antropologicamente diversi dal resto della razza umana detto ai magistrati (sempre il Premier); “sinistra di merda” che deve “morire” (ministro Brunetta); Bossi e i suoi “300 uomini armati dalle valli della Bergamasca”, con la minaccia di “oliare i kalashnikov”, di usare “fucili e mitra, per concludere in stile western “siamo veloci di mano e di pallottole che da noi costano 300 lire”.

C’è bisogno di aggiungere altro?

Per concludere, se per caso non pensassi che il Pdl sta cercando di stumentalizzare la situazione, questa dichiarazione di Cicchitto (sempre lui, sic), ieri mi ha chiarito le cose: “L’episodio dimostra la necessità di intervenire sulla giustizia: l’uso politico della giustizia è stato il cancro responsabile della fine della Prima Repubblica”.

Non le mazzette, non Mario Chiesa colto in flagrante, non Craxi scappato ad Hammamet per la vergogna (e per non fare la galera), non i puff di Poggiolini farciti di banconote. No. Figuriamoci.

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Lasciate ogni speranza voi ch’entrate

PierLuigi Celli, direttore dell’Università Luiss di simpatie sinistrorse, ha pubblicato qualche giorno fa una lettera che ha destato grande scalpore.  Fornendo giustificazioni tanto vere quanto non completamente rilevanti, Celli raccomandava a cuore aperto al proprio figlio  – e per traslato a tutti i giovani – di fare quello che chiunque può già fa: impacchettare le proprie cose e darsela a gambe. In Italia non c’è futuro, lasciate ogni speranza e cercate il vostro destino all’estero: questo il sunto. Non propriamente una novità, ma di un certo impatto detto da chi rappresenta l’istruzione e il viatico al mondo del lavoro.

Alla sua lettera – accorata e un po’ stucchevole, secondo il mio sindacabile parere – ha risposto oggi Benedetta Tobagi, 32enne, candidata nelle liste del PD alle ultime provinciali milanesi ma, soprattutto, figlia del Walter firma di punta del Corsera assassinato dalla Brigata XXVIII Marzo nell’80. La Tobagi ha risposto dicendo, per sommi capi, che è sbagliato incitare a scappare: chi ha il coraggio resta e resiste, rovescia la situazione del Paese, combatte con le unghie e con i denti. All’estero – continua – ci si vada per fare esperienza e a divertirsi, ma la nostra casa è l’Italia.

Lo scambio, pur esaltato da molti, mi pare un perfetto esempio di cosa non va nel Paese, condensato in due missive ai giornali apparentemente cariche di buone intenzioni se non addirittura di rimedi ai mali collettivi.

La prima cosa che mi ha fatto saltare la mosca al naso – non è vero, non è la prima, ma siccome la prima è troppo personale la faccio scalare in graduatoria – è l’ipocrisia di Celli, che si trincera dietro a fatti inconfutabili ma non certo vero cuore del malessere dell’italiano (la lentezza della burocrazia, per esempio). Mi è sembrato che per non addentrarsi in uno spinoso ginepraio politico Celli tergiversasse, indicando fattori reali come elementi decisivi e sorvolando su altri che decisivi lo sono davvero.

Soprattutto, però, Celli trascura un dato: andare all’estero, oggi come ieri come domani, è un privilegio per pochi. Non bastano una laurea, un master e la conoscenza di alcune lingue straniere (tre elementi, in ogni caso, non proprio alla portata di tutti): ci vuole anche una solidità economica – che di certo non può essere prerogativa del 25enne alle prime armi – per mantenersi fuori confine; ci vuole la fortuna di incontrare le richieste di un mercato del lavoro che non si conosce (a meno di non diventare tutti ingegneri o venditori, i cui servigi sono richiesti un po’ ovunque: stiamo però allora consigliando ai ragazzi di rinunciare a tutte le professioni di ispirazione “umanistica?”); ci vuole il supporto, finanziario e morale, della famiglia d’origine. Insomma, la strada indicata da Celli è quella da sempre riservata alla buona borghesia, destinata a produrre nuova borghesia. Una scelta di classe, in qualche modo.

La risposta della Tobagi, per contro, è figlia di un idealismo che non ha nulla a che vedere con le condizioni reali del Paese. Resistere per rovesciare le condizioni: ma di che stiamo parlando? Lo sa la Tobagi che in Italia prima di un contratto di assunzione ci vogliono 12 mesi di stage gratuiti e tre anni di cococopro a cinque, seicento euro mensili? Lo sa che durante stage e cococopro i datori di lavoro ti trattano come un dipendente a tutti gli effetti salvo non darti alcuna delle tutele che spettano al dipendente? Lo sa la Tobagi quanti sono i posti disponibili oggi in Italia per professioni qualificate e quante le domande? Lo sa quali sono le barriere all’ingresso in moltissimi settori?

Sto su un campo che conosco – e che, almeno per alcuni versi, immagino conosca anche lei – il giornalismo. In Italia ci sono 180mila giornalisti professionisti per 17mila posti da assunto. Diventare giornalista professionista significa, oltre a pagare un obolo di 1.000 euro circa all’ordine nazionale (corsi obbligatori di formazione, tasse di iscrizione all’esame, libri da comprare ecc ecc.), che qualcuno ti abbia assunto come praticante nei due anni precedenti: un’ipotesi così remota che per colmare il vuoto sono state istituite delle scuole di giornalismo, dove con la modica cifra di 15mila euro e due anni di alterna frequenza chiunque può comprarsi l’accesso ai banchi d’esame.

Detto questo – e finalmente arrivo al punto – il 95% dei giornalisti professionisti non avranno mai la soddisfazione di vedere un proprio scritto sulla prima pagina di Repubblica. Nessuno di noi, svegliandosi una mattina con l’impellente desiderio di rispondere a Celli, potrebbe pensare di recapitare a Ezio Mauro 5mila battute pulite pulite, destinate al taglio basso dell’indomani. Benedetta Tobagi – che non conosco e cui non voglio mancare di rispetto, ma che calza perfettamente come esempio – lo può fare perché suo padre quasi 30 anni fa è stato assassinato dai terroristi. Per quello lo può fare: perché si chiama Tobagi.

E torniamo così al principio. Quanta voglia avrei io – giornalista professionista alla soglia dei 30 anni, cresciuta tra l’America, la Spagna e l’Italia – di andare all’estero a lavorare? Tantissima. Quante possibiltà ci sono oggi che un quotidiano assuma dei corrispondenti? Zero. Ma non zero per dire: uno zero certificato dallo stato di crisi che blocca qualsiasi assunzione per due anni. Quante possibilità ci sono che questo mio post finisca domani sulla prima di Repubblica? Praticamente zero. Forse perché non me lo merito, in ogni caso di certo Ezio Mauro non mi conosce, nonostante di Cv al suo giornale ne abbia scritti miloni.

Ecco allora quello che Celli e la Tobagi non dicono: a noi non manca la voglia e il coraggio di provare. A noi hanno tolto la possibilità di provare. I 60enni che oggi ci consigliano di lasciare il Paese sono gli stessi che ne hanno sfruttato ogni possibilità, hanno fatto carriera, percepito immense retribuzioni, che possono contare su solide e sicure pensioni. Sono gli stessi il costo del cui stipendio impedisce di assumere giovani; sono gli stessi che danno buoni consigli avendo dato il cattivo esempio. Io da questa gente mi sento presa in giro; vorrei scriverlo sui muri: “Ci avete rubato il futuro”. Forse non era colpa vostra, forse non lo sapevate, forse non lo avete fatto intenzionalmente: ma siccome oggi non siete disposti a staccarvi dalle poltrone per fare posto a noi, almeno smettetela di darci saggi consigli.

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1969/1972

C’è una parte della storia d’Italia da cui sono profondamente coinvolta; curiosamente, coincide con il periodo più nero della recente vita repubblicana.

Sono gli anni caldi che si aprono con la strage di Piazza Fontana – 12 dicembre 1969 – e si chiudono con l’omicidio Calabresi, 1972. È l’inizio di quel vortice che porterà agli anni di piombo; che apre lo stragismo di Stato e il peccato originario di questo Paese. Sono gli anni di una Milano che non ho visto, ma che immagino: una Milano solida, ancora non annacquata nella sua versione da bere, una Milano che confina con la Staliningrado d’Italia (Sesto San Giovanni, roccaforte del Pci e del movimento operaio), una Milano di tensioni politiche e rivoluzionarie. Sono gli anni, infine, in cui si consumano vicende dolorose, drammi individuali che diventano storia: Pinelli, Calabresi.

Il merito di avermi fatto scoprire il valore di quel momento e dei suoi protagonisti (che prima liquidavo con il verso di una canzone dei MCR che oggi non riesco più ad ascoltare: “Anarchici distratti che cadono giù dalle finestre”) è di Mario Calabresi, figlio del commissario assassinato e giornalista, che ha pubblicato il libro forse più toccante che abbia mai letto: Spingendo la notte più in là.

Con la forza e la dignità di chi vuole trasformare il dolore individuale in riflessione collettiva, Calabresi racconta del padre, di Pinelli, di entrambe le famiglie, dei rapporti che li legavano; racconta della sua vita e di quella dei due fratelli, rimasti orfani e con una madre appena 27enne: il più grande, Mario, aveva allora tre anni e l’ultimo ancora non era uscito dal calduccio del ventre materno.

Tratteggia, in modo caldo e sincero, mai volutamente o casualmente patetico, la storia del suo dramma familiare che si fa dramma di un Paese. È un libro che andrebbe letto nelle scuole, regalato ad amici e parenti, distribuito durante le manifestazioni; io ne ho acquistate un paio d’anni fa una dozzina di copie, e le ho donate a molte persone che desideravo lo leggessero.

La moglie di Pinelli, l’anarchico ingiustamente accusato della strage di piazza Fontana e morto in circostanze mai chiarite con un volo dalla stanza del commissariato dove era interrogato, non ha scritto nulla, ma non ha mai smesso di chiedere la verità. Nel 2009 il presidente Napolitano, con un gesto che restituisce dignità alle istituzioni, ha invitato sia lei che la moglie di Calabresi al Quirinale, e ha inserito Pinelli nell’elenco delle vittime di piazza Fontana. A 80 anni passati, Licia Pinelli rilascia poche interviste in occasione della ricorrenza della strage, e con lucidità e compostezza non smette di chiedere che sia fatta chiarezza sulla fine del marito.

Quello che colpisce nelle due famiglie, Pinelli e Calabresi, che la storia ha legato loro malgrado, dipingendole come contrapposte frontalmente, è invece la profonda condivisione, fatta di umanità e dignità rarissime. Sentendole parlare si capisce cosa siano la rettitudine, la tenerezza, la compostezza.

In un Paese sopraffatto dal ciarpame, politico, comunicativo e morale, il messaggio dei Pinelli e dei Calabresi entra nel cuore e sedimenta. Fa crescere un desiderio di cambiamento che non è fuga dal reale, ma urgenza di penetrarlo e stravolgerlo.

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