Archive for category politica e dintorni

La verità ti fa male lo so/2

Le elezioni anticipate sembrano ormai certe. La campagna elettorale di Berlusconi parte con l’acquisto di Ibra.

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Cerva d’Italia

La cosa più intelligente sulla morte di Cossiga – meglio, su come i media hanno trattato la morte di Cossiga – l’ha detta Matteo, il nostro direttore (mio ancora per poco, sto per infilarmi in un mondo in cui il primo turno della mattina inizia alle 5 e l’ultimo finisce a mezzanotte e c’è un solo riposo settimanale; insomma, il quotidiano, ma ne parliamo bene dal 1 settembre).

Dicevo. Ieri mattina è entrato e mi ha chiesto, con il consueto mix di provocazione e curiosità: Tu che sei attenta lettrice, dopo due giorni di coccodrilli, cosa sai della moglie di Cossiga?. Ci penso un attimo. Che si chiama(va) Giuseppa. E che probabilmente era incazzata perché lui era un donnaiolo impenitente. Giusto, e poi: è viva o morta? Dov’è? Hanno figli?

Bingo. Degli articoli fiume straripanti parole, ricordi, tenerezze, ammiccamenti, rivalutazioni e il consueto impasto di vorrei ma non posso che impedisce all’italiano di essere sincero – specie di fronte alla morte, che sai, c’è così tanta sofferenza che non si può essere anche cattivi o semplicemente onesti – nessuno, nessuno, nemmeno chi narrava di esserne amico intimo, cronista privilegiato, spirito affine, ha raccontato qualcosa della vita privata dell’ex presidente. Non si sa nulla. O, meglio, nessuno ha voluto metterci il becco.

Così Matteo si è messo a cercare negli archivi.

Cossiga era sposato con Giuseppa, e la tradiva con tale frequenza e noncuranza che per lei era stato coniato il soprannome Cerva d’Italia. Lei non è mai andata a vivere al Quirinale e, anzi, le cronache dell’epoca raccontano che quando lui venne eletto tornò a casa per dirglielo e non trovò nessuno, le finestre sprangate e le luci spente. Dimessosi nel 1992, Cossiga ha chiesto la separazione nel ’93; nel ’97 arriva il divorzio. Infine, chapeau, nel ’98 la Sacra Rota annulla il matrimonio.

Di tutto questo, nemmeno una parola. Rispetto per la vita privata del presidente? Non credo che la privacy sia in cima alle preoccupazioni di cronisti ed editori, considerate le fatture per la cucina Scavolini acquistata a Montecarlo, i trans e le escort, le tette e i culi che salutano giornalmente dalle prime pagine. Piuttosto, mi viene da pensare alla scelta deliberata di non farsi delle domande: per esempio come ha potuto il Vaticano dichiarare nullo quel matrimonio, sulla base di cosa? E perché Cossiga sputtanava tutti ma nessuno ha sputtanato lui?

Mi pare che questo silenzio ex post su una vita scomposta sia un magnifico esempio di come funziona il potere, anche in chiave retroattiva. Berlusconi deve essersi mangiato le mani, per non avere imparato di più dal Picconatore.
(premio prima pagina, come sempre, al Manifesto).

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La verità ti fa male lo so

pausa pranzo, Gazzetta dello Sport

– Sai, una volta io Berlusconi lo difendevo: il modo di fare della sinistra, quest’incapacità di crearsi un’identità e un programma se non con l’antiberlusconismo…bè non lo sopporto. Non che mi piacesse Berlusconi, ma davvero lo difendevo. Però ora non si può più…
– Gli scandali recenti?
– Sì e poi sai, non ci compra un giocatore da due anni…

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Bide me

Ieri notte sono incappata nella notizia dell’intervista del generale McChrystal, quella rilasciata a Rolling Stone (America, of course) che potrebbe costargli il posto di comando in Afghanistan viste alcune dichiarazioni non proprio entusiaste su Obama e Biden. Sono andata a leggermela in versione integrale (qui), già che nei prossimi giorni se ne farà un gran parlare e affidarsi alle traduzioni spizzichi e bocconi dei nostri quotidiani non è mai cosa saggia.

Nonostante richieda tempo – a me, venticinque minuti di orologio, saranno 90 mila battute distribuite su sei pagine fitte – la lettura è esaltante e ve la consiglio più che caldamente. Se ne ricava un’idea netta ed emozionante di cosa sia il giornalismo, anche periodico, nella tradizione anglosassone (vedi Vanity Fair U.S., che è un raccoglitore dei migliori scritti degli ultimi 30 anni) e ci si immerge in un personaggio nella sua inquietante interezza, come mai gli striminziti riassunti della nostra stampa lo restituiscono. Soprattutto, si capiscono una quantità di cose sulle guerre, l’esercito, il militarismo e il celodurismo americano, che davvero non è sostanzialmente diverso dalla scoppiettante rappresentazione che ne fece Coppola con il tenente Kilgore.

Eppure, e questo forse avrei dovuto dirlo prima, non credo affatto che le dichiarazioni di McChrystal siano così gravi. Se inserite nel giusto contesto, fanno solo parte di una ruvidità del personaggio, di un ego che si nutre di autocelebrazione; ovviamente, le due frasi estratte da Repubblica e Corriere impediscono di farsi un’idea corretta del tutto. Poi è evidente come il presidente degli States non possa permettersi di tollerare nemmeno una sbavatura dell’ego del suo uomo al comando, ma giusto per onestà intellettuale non me la sento di crocefiggere McChrystal, almeno non per queste sue parole.

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voglio di più (e non mi basta mai!)

Se per caso vi fosse sfuggito, da oggi abbiamo un nuovo ministro: Aldo Brancher, Attuazione del federalismo.

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quattro e mezzo

Lilli Gruber a Roberto Cota: Presidente Cota, secondo lei la proposta di Fiat per Pomigliano è corretta?
Roberto Cota: Io so solo che la Fiat ha scelto di non produrre auto in Polonia ma di produrle in Italia.

Se ci sono un sacco di cose che non sai allora è meglio che tu stia zitto, caro padano.

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Sant’Oro

Sulla questione Santoro sto facendo una fatica bestiale. Uno sforzo grande per leggere tutto, ascoltarlo parlare, aspettare l’accordo ufficiale, ricacciare indietro l’ondata di populismo che mi verrebbe da cavalcare, indignata, quasi offesa. Non tanto come “seguace di Santoro” o di Raiperunanotte – ché io con le identificazioni tout court non ci vado molto d’accordo – ma più come giornalista impegnata in una battaglia quotidiana contro gerontocrati e stati di crisi dell’industria editoriale.

Ma, appunto, mi sforzo di aspettare di avere il quadro chiaro. Qualche pensiero comunque si può mettere in fila, giusto per stimolare la riflessione. Per esempio: sul fatto che Michele Santoro sia una prima donna, talvolta antipatico e tuttavia di certo il miglior professionista nel suo campo, non ci sono grandi dubbi. D’altra parte, lo share della sua trasmissione lo dimostra in pieno: sarà anche guardata solo da quelli di sinistra – ma davvero ce ne sono così tanti in Italia? – ma Ballarò, per dire, quei numeri non li fa. Altrettanto è vero che non deve essersela passata bene, a livello di stress, negli ultimi anni: costantemente sotto osservazione, minacce, proiettili, intercettazioni in cui lo vogliono far chiudere, ogni puntata sudata contro tutti e tutto, ogni stagione in bilico fino alla fine. Si può dire anche che Santoro non è proprio un simpaticone, è un egocentrico, ha lavorato a Mediaset – anche se continuare a sottolinearlo è una forzatura: in Italia ci sono due aziende editoriali televisive, quindi il fatto di andare a Mediaset non rappresenta per forza una “svendita” di sé, quanto l’evidenza dell’anomalia del sistema – è andato al Parlamento UE per poi mollare tutto disgustato appena lo hanno reintegrato in Rai. Dicono di lui i cattivi che l’epurazione a opera di Berlusconi sia stata la sua fortuna, ma io non lo credo, visto che parecchi grattacapi glieli deve aver provocati, e comunque il suo talento e la sua capacità trascinatrice all’epoca erano già ben noti.

Insomma, ora gli danno 3 milioni di euro e se ne va in prepensionamento, e firma con l’azienda un accordo per cui nel prossimo anno produce per loro 7 docufiction – pare fosse la sua fissa da tempo – alla cifra di un milione di euro l’una. Provo a pensare come valuterei la vicenda se al posto di Santoro ci fosse un impiegato di un’azienda, chessò, che produce scarpe: da anni lo mobbizzano, non lo vogliono far lavorare, gli fanno una guerra costante e a un certo punto ha la possibilità di andarsene e di portarsi via qualche soldo (per lui non sono nemmeno così tanti, 3 milioni di euro). Chi non direbbe sì? Infatti accetta. Però, siccome nel produrre scarpe è bravissimo ed è capace di invetarsi sempre cose nuove, al posto di affittarsi una casetta a Cannigione in Sardegna e godersi il mare continua a fare esperimenti e a trovare nuovi modelli. Già, ma a chi li vende? A quelli che lo hanno odiato e gli hanno reso la vita un inferno? A quel capo che detestava vedere la sua faccetta smunta alla macchinetta del caffé e diceva al caporeparto: “Il signor Rossi bisogna che se ne vada di qui in fretta, trovi un modo per toglierlo di mezzo!”? Secondo la legge del mercato magari sì, può vendere anche a loro, e alla fine potrebbe persino fare un favore ai consumatori se propone loro delle scarpe fichissime, di buona qualità a un prezzo giusto. Però, a pensarci bene, io non vorrei dare il mio prodotto migliore a chi ha fatto di tutto per rovinarmi la vita: piuttosto mi ingegno e apro un negozio on line, ma un favore così non glielo faccio, no?

Ecco, questo mi verrebbe da dire. Perché Santoro non le vende a La7 le sue docu-fiction? O se invece semplicemente vuole provare un genere nuovo perché non farlo dall’interno, in qualità di dipendente? (Magari la risposta è che non avrebbe potuto farlo per questioni tecniche, visto che c’è un controricorso sul suo reintegro in corso). In ogni caso, questo mi fa pensare: non che se ne vada e che gli diano dei soldi (dovuti e nemmeno molti, ripeto) per farlo, ma quella collaborazione esterna, oltretutto molto remunerata.

Perché da un lato non mi pare in linea con le battaglie ideologiche di Santoro, ma su questo forse mi sbaglio o pongo male la questione. E poi perché c’è dietro una considerazione spicciola, che quelli della mia età che fanno il mio mestiere non possono non fare: finché la Rai quei dieci milioni di euro li dà a Santoro spazio e soldi per i giovani non ce ne saranno mai. E hai voglia a raccontare di come se la passano male in fabbrica finché fingi di ignorare cosa succede nel cortile di casa tua.

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sulle intercettazioni e l’impegno

Questa mattina ho mandato questa mail a un gruppo di amici, molto diversi per età, professione e dislocazione geografica. La condivido qui e attendo risposte, nel caso voleste dare il vostro contributo.

cari tutti,
ho appena terminato di leggere l’editoriale di Ezio Mauro sulla questione delle intercettazioni, che spiega il problema e il disegno sottostante con estrema chiarezza e linearità.
Quello che mi stupisce in questo contesto è il silenzio della società civile. Può essere che le persone non siano sufficientemente informate – ancor meno del solito, che già è pochissimo – o può essere che non si rendano conto della portata della cosa fino in fondo; in pochissimi, d’altra parte, si sono presi la briga di spiegarla. Nel 2002 la CGIL riuscì nella battaglia contro l’abrogazione dell’Art 18 dando vita a uno straordinario momento di partecipazione collettiva; l’anno precedente i Girotondini e il “resistere, resistere, resistere” di Borrelli aprirono la stagione dei movimenti, che per un breve periodo fece sognare l’Italia di avere ancora una società civile forte, consapevole e orgogliosa. Oggi tutto tace, e questo mi spaventa molto.
Chi oggi ha più di 50 anni può anche decidere di disinteressarsene, forse più preoccupato a difendere la propria pensione per poi scappare su un’isoletta dei tropici (o anche solo nella veranda di casa propria); noi, che comunque la pensione difficilmente la vedremo, no. Chi oggi ha dai 20 ai 40 anni dovrebbe scendere in piazza e dire che non ci sta; dovremmo dire che non siamo addormentati, che siamo consapevoli di quello che stanno cercando di fare, che di vivere in un Paese così no, non ci va. E siccome non sempre si può scappare, bisogna riformarlo dal basso, almeno fino a dove si può.
Non è uno scavalcamento della politica, è essere noi stessi politica, così come l’etimologia della parola la ha sempre intesa.
Se nessuno fa niente, qualcosa lo dovremmo fare noi. Spiegare alla gente, parlare alle assemblee di quartiere, organizzare manifestazioni. Non parlo di un impegno astratto, ma di un impegno concretissimo e anche molto “umile”, che non sia accantonato in virtù del lavoro, dei figli, della moglie, della stanchezza che già si vive tutti i giorni nel cercare faticosamente di fare la propria strada: perché a furia di averlo accantonato, questo è quello che succede.
Alcune situazioni sono senza ritorno, e l’Italia ha da tempo imboccato una di queste. La legge sulle intercettazioni potrebbe essere il colpo di grazia. Noi dovremmo fare qualcosa.
Le persone cui mando questa mail sono molto diverse per età, occupazione e residenza, ma sono convinta che tutte potrebbero e dovrebbero dare il proprio contributo per fermare la deriva, senza aspettare che lo faccia qualcun’altro – giornali, politica o sindacati. Noi a Milano potremmo iniziare con l’organizzare delle manifestazioni o delle serate di informazione, chiamando esperti che spieghino il problema. Ognuno nel proprio posto può fare qualcosa.
Lamentarsi dopo serve a poco, ed è una tendenza troppo diffusa.
Un abbraccio
Gea

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l’uomo nuovo

Sto seguendo con molta attenzione la vicenda di Clegg, in Gran Bretagna. Da giorni penso che dovrei scriverne qualcosa, non fosse altro perché i reportage dei quotidiani italiani sono al limite dell’imbarazzante: basta dare un occhio a quelli inglesi per rendersi conto di quanto ci si darebbe da dire e non viene detto. La favolosa vita del corrispondente.

Clegg è il quarantatreenne (ripeto: qua-ran-ta-tre-en-ne) leader dei Liberali britannici, il famoso terzo partito nato da una costola del Labour decenni fa, che si candida a rivoluzionare lo scenario politico dopo aver sconvolto una campagna elettorale che sembrava già tracciata e stabilita senza possibilità di errori (ricordo articoli datati 2008: “Novità tra i Tory: il giovanissimo Cameron scelto per battere il Labour alle prossime consultazioni”. Povero Cameron, fa quasi pena oggi). Qualche dato sparso: figlio di un’olandese, sposato con una spagnola, Nick Clegg a 33 anni già lavorava per la UE dopo laurea e specializzazione tra Oxford e Cambridge; europeista convinto, parla cinque lingue e vive nei quartieri nord di Londra, quelli cioè dove esistono supermercati, pompe di benzina e deli-pakistani, ovvero dove sta la gente normale.

Si è imposto all’attenzione dei media e della gente guadagnandosi un posto nel primo dibattito televisivo della storia politica britannica; sapendo di non avere niente da perdere è andato tranquillo e sicuro di sé, spiazzando gli altri due e uscendo vincente nella percezione degli spettatori. Da allora è stato un gioco a rialzo nei sondaggi, alimentato dal suo trottare in lungo e in largo per comizi e incontri con chiunque, dagli studenti ai militari. Anche se non è ancora chiaro se sarà lui a prendere più voti nelle consultazioni di giovedì prossimo (i sondaggi dicono di sì, ma c’è un problema di ripartizione dei collegi a favore del Labour; inoltre il segreto dell’urna riserva sempre qualche sorpresa, come gli italiani sanno fin troppo bene), è però chiarissimo che sarà lui l’uomo chiave della prossima legislatura: né i Tory né il Labour potranno probabilmente creare un Governo senza il suo appoggio e se, come appare molto probabile, la “Grande Coalizione” si farà tra i Liberali e i Laburisti, Clegg si prenderà la libertà di mandare via Brown, detestato praticamente da chiunque.

A quelli come noi abituati a barcamenarsi tra le case con vista Colosseo a 3mila euro al metro quadro e i lunghi coltelli affilati nei loft, il personaggio di Nick Clegg sembra arrivare da Plutone, e questo a prescindere dal suo manifesto politico – peraltro molto interessante, anche se un po’ deficitario sul piano della chiarezza economica: regolarizzazione massiccia degli immigrati sul territorio, contenimento del deficit pubblico tramite tagli di spesa, convinta adesione alla UE, ruolo chiave della spesa sociale, spostamento verso un sistema proporzionale. Il Regno Unito è il Paese europeo più ingessato in un bipartitismo che sa di muffa, nonostante la spinta progressista dei primi due mandati di Blair; una nazione – un’isola, in tutti i sensi – ripiegata su se stessa, che guarda all’Europa con un misto di diffidenza e altezzosità, pur senza avere il coraggio di chiamarsene fuori. L’ascesa e la probabile affermazione di uno come Clegg potrebbe mandare in crisi l’intero sistema, portandolo a una svolta epocale.

Il fattore interessante è però come questo sia possibile: l’esistenza stessa dell’uomo nuovo e il suo radicamento tra la gente sono cose sconosciute agli italiani che anelano al bipartitismo come se fosse acqua nel deserto. Da noi di uomini nuovi non se ne vedono in giro da decenni – se si esclude Bossi e l’armata padana, ormai però stabile al potere da 15 anni – e quando qualcuno prova a farsi avanti i partiti sono solerti nel farlo uscire di scena (si veda il tentativo dalemiano di far fuori Vendola in Puglia). E’ certo vero che qualsiasi situazione sembra migliore dall’esterno che dall’interno – lo scandalo dei rimborsi spese britannici due anni fa ha rivelato al mondo che l’abuso di potere non è prerogativa solo degli italiani pizza-mafia e mandolino – ma dire che il terremoto politico inglese assomiglia per noi a una chimera è quantomeno realistico. A leggere i racconti appassionati dei quotidiani d’Oltremanica viene invidia: da noi i soli pezzi appassionati sono i coccodrilli per personaggi che si spengono dopo 60 anni di onorata carriera. Senza che il loro posto venga preso da altri, naturalmente.

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Chi di swing ferisce

[Antefatto. La settimana scorsa Alitalia mi ha perso il bagaglio sia all’andata che a ritorno da Chicago: due volte in meno di dieci giorni. E’ arrivato a Milano appena in tempo perché, senza nemmeno disfarlo, lo caricassi su un nuovo aereo per Londra. Adesso, bloccata a Londra dalla famosa eruzione del vulcano, chiamo il callcenter Alitalia – su loro precisa indicazione – a 0,70 centesimi al minuto e mi tengono in attesa 48 minuti d’orologio; quando finalmente un’addetta mi risponde mi dice che avrei dovuto selezionare il tasto 1 al primo menù di scelta: così non mi può proprio aiutare. Su suo suggerimento, invio una email all’assistenza clienti: ricevo un Out of office automatic reply. Da ultimo, provo a consultare il sito: the server is too busy. Quando si dice un’efficace gestione della crisi].

E quindi bloccata a Londra. Giro con un amico che vive qui e incontriamo un po’ di giovani rampanti neoyuppie della finanza, tutti rigorosamente di stanza tra South Ken e la City, quartieri bene di ragazze con tacco dodici, pochette sotto braccio, capelli lunghi e vestiti luccicanti, accompagnate da giovani uomini di sicura carriera, camicie strette, capelli ben tagliati e vacanze estive già programmate. Figge de famiggia udù de bun che ti peu ammiàle senza u gundun, cantava De André.

Affondati su divanetti di pelle, forse umana, di locali posh dove tre cocktail si pagano con la carta di credito, mi sforzo di chiacchierare con questi amici di amici di cugini di ex compagni di università che ci si ritrova a vedere di quando in quando in virtù della comune condizione di italiani della diaspora. Scopro che hanno poco più di trent’anni e vivono qui già da sei o sette; ci sono arrivati da neolaureati, magari con uno stage in Goldman Sachs, e poi ci sono rimasti, fino a diventare senior analyst più qualche altra parola incomprensibile, che tutto insieme significa che sono quelli che gestiscono fondi, derivati, quattrini e tutte quelle operazioni che complessivamente spostano gli equilibri mondiali, fino ad arrivare al nostro conto in banca, al prezzo della benzina, alla difficoltà di pagare le bollette perché i costi energetici sono schizzati oltre l’immaginabile, a dare a chi ha lavorato per quarant’anni una pensione che sia almeno dignitosa. Poi alle sette escono dall’ufficio, montano su un cab e si ritrovano per qualche drink in questi bar lucidi e lucenti, melting pot del meglio dell’intellighenzia finanziaria che sarà, e parlano di cosmetici e automobili, vacanze e pizze, di come Londra sia difficile da girare e cose così, tremendamente normali.

Storco il naso e risulto antipatica, come sempre mi succede quando mi sforzo di contenere giudizi certamente affrettati su persone che mi risultano a pelle insopportabili. Ma è la mancanza di consapevolezza che mi atterrisce. Non è colpa loro, ovviamente: come nella catena di montaggio, ognuno fa bene il proprio piccolo pezzo di lavoro e magari non si rende nemmeno conto di quale sarà il prodotto  finale. Ancora più ovvio, per chi ha studiato brillantemente economia, marketing e finanza, a 23 anni uno stipendio di parecchie centinaia di pound nelle società più swinging della swinging London è un traguardo (o un punto di partenza) tremendamente meritato. Eppure il risultato finale è questo: una generazione di giovani professionisti tanto efficienti quanto alieni al reale, che si muovono come schegge impazzite sullo sfondo di una città in cui è possibile vivere sempre on the edge, che del doman non v’è certezza.

Leggeranno i giornali? Si porranno le questioni etiche che rimbalzano dalla Casa Bianca alle discussioni dei bar di paese? Avrei voluto chiederglielo ma non l’ho fatto, per paura delle risposte.

[P.S. La scritta della foto è stata scattata all’interno del bagno del Dolphin, Hackeny Road, quartiere popolare dell’East London dei film di Ken Loach che furono; mercati di fiori, ristrutturazioni di ex fabbriche di mattoni rosse, localini accoglienti e colorati, prati enormi e aria frizzante. Se siete in partenza per Londra, fate un salto in Columbia Road e Shoreditch High, e vi sentirete sollevati].

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