Archive for category politica e dintorni

Palestina/Dispacci #5

Non è facile trovare qualcosa da ascoltare quaggiù. Qualcosa che non rompa l’armonia scomposta di bambini sempre sorridenti e genitori troppo sospiranti, colline di sabbia, militari distratti, muri di cemento e filo spinato.
Io riesco solo a mettere su Bob Dylan e The joshua three – per il verso profetico I wanna tear down the wall that holds me inside, certo, ma soprattutto per il titolo dei titoli nei secoli: Running to stand still – oltre a Let down, unica canzone al mondo che dove la metti, sta.

E comunque perdonate se non scrivo, ma è come se fossi così piena di cose da non sapere come farle uscire. In Palestina ci sono troppe ingiustizie e troppa forza nell’affrontarle, per una scribacchina come me. Troppa gente che ti prende in casa come fossi una figlia, ti offre narghilé sui tetti la sera, incarta i resti di un banchetto perché tu abbia da mangiare.
È un posto troppo generoso, per quello che riceve dal mondo. E la disparità è un fardello grave da portare, per chi sceglie di essere qui e non ci è costretto dalla storia.

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Ho un po’ di domande

Ma se uno è disposto a spendere tutto quello che ha, a rischiare la propria pelle, quella della propria famiglia e persino quella del bambino che porta in grembo, per attraversare il Mediterraneo e venire in Italia, come si fa a pensare di rimandarlo indietro?
Non è abbastanza per capire che  “indietro” non c’è vita né futuro? Se uno avesse alternative, sceglierebbe di abbandonare tutto per venire qui e poi magari rimanere detenuto in galere altrimenti chiamate per mesi?
E, ancora, il fatto che il tappo nord africano sia saltato e l’ondata migratoria stia ingrossando di ora in ora  non significa forse che fino a ieri abbiamo confinato questi migranti in un posto di morte? Dal quale hanno iniziato a scappare non appena possibile?
E possibile che un Paese come l’Italia che tollera la mafia, la ‘ndrangheta, la corruzione, i baby killer, il lavoro nero non riesca  a gestire qualche migliaia di persone?  Cosa spaventa la famiglia piccolo borghese, medio borghese e aristocratica: che i tunisini rubino loro il lavoro che non vogliono fare? Che gli sposino le figlie? Che preghino Allah mentre il papa recita l’Angelus?
E l’Europa, l’Europa della libera circolazione delle merci, come pensa di avere alcuna autorevolezza finché non rende liberi di circolare gli uomini? L’Europa pronta a far entrare nel suo circolo la Turchia – quattrini, controllo, sponda a est – ma spaventata dai ben più vicini tunisini, non si vergogna almeno un po’?

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noi, provinciali dell’Orsa minore

Ho già avuto modo di dire – forse non qua, ma chi legge quello che scrivo sui giornali se ne è reso conto – di quanto sia cresciuto negli ultimi tempi il mio afflato socialista. Paradossalmente, più capisco e studio cose economiche, e più la repulsione verso tutto il sistema cresce. C’è un movimento, che si chiama decrescita, di cui mi sto occupando molto. Poi c’è l’economia ecologista, che forse è ancora meglio, perché più immediata: la concretezza è il problema di ogni rivoluzione che si rispetti.
In ogni caso, senza farla troppo lunga, stamane stavo leggendo questo estratto di intervista a Mandred Max-Neef, economista cileno, e mi sono venuti i lacrimoni. Può essere che, tra i 31 anni appena compiuti e la caviglia sfasciata, abbia un po’ gli ormoni sballati. Ma secondo me commuove anche voi.

I worked for about ten years in areas of extreme poverty in the Sierras, in the jungle and urban areas of Latin America. And one day at the beginning of that period I found myself in an Indian village in the Sierra in Peru. It was an ugly day. It had been raining all day. And I was standing in the slum. And across from me, a guy was standing in the mud – not in the slum, in the mud. He was a short guy … thin, hungry, jobless, five kids, a wife and a grandmother. And I was the fine economist from Berkeley. As we looked at each other, I suddenly realized that I had nothing coherent to say to that man in those circumstances, that my whole language as an economist was absolutely useless. Should I tell him that he should be happy because the GDP had grown five percent or something? Everything felt absurd. Economists study and analyze poverty in their nice offices, they have all the statistics, they make all the models and are convinced they know everything. But they don’t understand poverty.

I live in the south of Chile in the deep south. And that area is known for its milk production. Top technologically, and in every way the best there is. A few months ago I was in a hotel there for breakfast, and there were these little butter things. I looked at one. It was butter from New Zealand. And I thought, isn’t that crazy? Why? The answer is because economists don’t know how to calculate true costs. To bring butter from 10,000 kilometers to a place where you already make the best butter, under the argument that it is cheaper, is a colossal stupidity. They don’t take into consideration the environmental impact of 10,000 kilometers of transport. And part of the reason it’s cheaper is because it’s subsidized. So it’s clearly a case in which the prices do not tell the truth. It’s all tricks. And those tricks do colossal harm. If you bring consumption closer to production, you will eat better, you will have better food, you will know where it comes from and you may even know the person who produces it. You will humanize consumption. But the way economics is practiced today is totally dehumanized.

We need cultured economists, economists who know the history, where the ideas come from, how the ideas originated, who did what; an economics that understands itself very clearly as a subsystem of the larger system of the biosphere. Today’s economists know nothing about ecosystems, nothing about thermodynamics, nothing about biodiversity – they are totally ignorant in those respects. And I don’t see what harm it would do to an economist to know that if the beasts and nature disappear, he would disappear as well because there wouldn’t be food to eat. But today’s economists don’t know that we depend absolutely on nature. For them, nature is a subsystem of oureconomy. It’s absolutely crazy!

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Se non ora, quando?

La settimana scorsa, dopo la manifestazione del Palasharp, ho scritto un pezzo che ha scatenato anche un piccolo dibattito su altri giornali. La sostanza era che in queste occasioni di riscossa civica i giovani sono sempre meno presenti: non perché non si interessino a quello che succede, ma perché è la politica li ha presi in giro per troppo tempo.
Continuo a pensare che sia verissimo. Ma oggi la risposta all’appello di Se non ora, quando? è stata quasi commovente. A Milano, sotto una pioggia che sembrava un castigo per aver avuto il coraggio di rialzare la testa, c’erano decine di migliaia di persone, e un sacco di ragazzi. Ho avuto la sensazione precisa che la misura sia quasi colma, per tutti. La risposta della gente è appassionata, il desiderio di riscossa palpabile.
L’altra notte, mentre guardavo le foto della festa di piazza Tahrir, ho pensato: Come devono essere felici. E come un’epifania mi ha folgorato il pensiero che la prossima festa sarà la nostra. La cosa pazzesca è che la sensazione di liberazione non sarà nemmeno troppo diversa.
La foto che ho fatto oggi in piazza Castello dice tutto.

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Italians do it better

Eravamo a Campiglio. Un fine settimana perfetto: sole splendente, piste quasi deserte, neve ben battuta, forme fisica oltre le aspettative. E una bottiglia di champagne francese per viziarci un po’.
Poi mentre Nic si lavava e io finivo di scolare le bollicine ho avuto la malaugurata idea di accendere la televisione (maledetta incapacità di staccare mai del tutto). E di fronte mi sono trovata un paesano innamorato del lambrusco e dello zampone (Sono qui a Castelfranco, diziamolo ben agli italiani che il miglior cotechino lo fazziamo qua) e un altro che per aggiungere pathos al proprio eloquio si esprime in brianzolo (Eh in milanese li chiamiamo ciociua uraduri, te capì?), che discettavano di cattolicesimo e politica. Ovviamente in collegamento da una qualche cantina dove si stava affettando il salame, che vorrai mai mollare le abitudini della domenica per andare a Roma in studio e sprecare il fine settimana.
E con la bocca ancora impastata da lambrusco, zampone, ossobuco e riso giallo, con la cadenza al pari di una nenia, si vantavano dell’autorità loro conferita dallo Stato: uno sottosegretario alla famiglia – la propria, di certo – l’altro viceministro di non ricordo che, grazie a dio. E non vale la pena nemmeno di riferire cosa dicessero: perché il mezzo è il messaggio, e il loro non essere in grado nemmeno di esprimersi in italiano la dice lunga sulla qualità del pensiero.
E ho dovuto finire tutto lo champagne da sola, per dimenticarmeli. Poi ho avuto mal di testa il resto del week end.

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mal comune mezzo dramma

Per non farci mancare niente, vi segnalo che la disoccupazione giovanile (19-25 anni) in Tunisia – uno dei fattori scatenanti la rivolta – ha raggiunto il 25%.
In Italia è al 25,4%.
E buona notte a tutti.

Update: la disoccupazione giovanile in Italia è arrivata al 29%. Il dato più alto dal 2004.

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Dicevano, pensi, di essere sfruttati

La scena degli operai di Mirafiori che ballano e festeggiano e alzano i pugni a tempo di musica demodé mentre aspettano i risultati del referendum mi stringe il cuore. Senza retorica o falsa empatia. Semplicemente, mi fa male al petto.
Per buona parte della notte, i no all’accordo hanno prevalso: e loro si davano pacche sulle spalle, sorridevano e sostenevano a vicenda, illudendosi, per qualche ora, di aver fatto la rivoluzione sul serio. Di aver costretto il capo quantomeno a capire che non li può trattare come cose: che potrà anche fotterli, ma loro lo sanno, non sono cretini. E sono stati disposti a giocarsi la fabbrica: cioè il lavoro, la vita, la dignità.
Poi gli impiegati hanno dato il loro contributo alla questione, e hanno scelto il sì: forse perché l’accordo a loro intacca poco, mentre la chiusura della fabbrica sì.
Ognuno ha fatto per sé, e Marchionne ha fatto per tutti. Io l’ho difeso, molto tempo fa. Ne sono amaramente pentita.

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Io sono la crisi

Marta e io abbiamo scritto un bel pezzo sulla crisi in Europa. Abbiamo sentito scrittori, sociologi ed economisti e cercato di capire cosa c’è di diverso tra le routinarie proteste dell’autunno e quelle di quest’anno: i ragazzi che si riprendono le città in Italia, Inghilterra e Francia; i tedeschi borghesi che dicono no al nucleare con inedita partecipazione; la classe media di Grecia, Portogallo e Irlanda che sconta le pene che sarebbero toccate ai banchieri.
Ne viene fuori un quadro composito ma, tagliando corto che magari qualcuno di voi si prende anche la briga di leggerlo, il punto centrale è: la gente si è stufata delle ingiustizie. Inizia a reagire perché ha capito di non avere più un futuro da costruire: mancano i mattoni. Non è una frase buttata lì: i dati economici, che facciamo interpretare a esperti (liberisti), lo raccontano in modo incontestabile. La consapevolezza definitiva che il futuro sarà peggiore del presente e del passato.

Eppure stamattina, come ho scritto a Marta, ho pensato che ci fosse qualcosa di sbagliato in quel pezzo. Noi.
La nostra posizione di giornaliste d’assalto 30enni, che nel mero mettersi di qua dal foglio assumono un distacco necessario alla professione ma dannoso alla realtà delle nostre vite. Mi sono sentita falsa, nel dire “la gente è stanca”. Perché io sono stanca.
Io appartengo alla generazione (che non è solo quella dei trentenni in giù, ma anche di molti quarantenni) che non ha futuro: e se mi permetto di raccontarlo agli altri è solo perché per anni ho potuto studiare, girare il mondo, imparare le lingue, comprarmi e leggere un sacco di libri, ingozzarmi di film con i soldi dei miei genitori.
Mi sono formata sulle loro spalle; a 30 anni, il rapporto tra il numero di ore che lavoro e quello che guadagno è simile a quello tra il debito e il Pil italiano (120%, decimale più, decimale meno). Io sono la gente che è esasperata. E, forse, nell’accettare di scrivere con il distacco necessario alla figura professionale di un giornale che non vive di particolarismi, compio l’errore di farmi stritolare dalla macchina.
Non sono sicura dell’onestà di questa cosa, come d’altra parte non so se esistano alternative.
Ma la mia coscienza ha avuto un sussulto oggi, uno dei tanti di questi tempi.
E non riuscivo a fare finta di nulla.

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Ostalgie

Ed Miliband, 41 anni, nuovo leader dei labouristi inglesi. Con un programma che riporta il partito a sinistra.
E noi rincoglioniti davanti a Internet ad aspettare il videomessaggio di Fini sulla casa di Montecarlo (che poi, manco fosse Bin Laden).

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amnesie

Tremonti intervistato da Massimo Giannini, Repubblica. Due pagine, domande lunghe tre righe, risposte lunghe quindici. Il ministro sta elencando (da 1.500 battute almeno) quello che il Governo ha in serbo per rivitalizzare l’autunno economico del Paese quando arriva il climax: Ma ci sono mille altre cose da fare sulle regole. Le opere pubbliche costano il doppio e si fanno se va bene nel doppio del tempo.
S
tringo il giornale più forte in mano, godendo della stilettata che  Giannini sta per sferrare (perché questo culo non capita mai a me? Uffa, perché?); è così facile che potrei averla scritta io: Le opere costano il doppio se le si fanno fare a Balducci.
E invece no. Accidenti no. Non so come è possibile ma no.
Ministro, se è tutto qui quello che avete da offrire al Paese per la ripresa d’autunno c’è da preoccuparsi…
Ci sono due pagine del Corriere oggi con nuove indiscrezioni sulla Cricca, il nome di un Berlusconi appena saltato fuori (anche sull’edizione odierna di Repubblica), un ministero ancora vacante ma il vicedirettore ritiene che chiedere un chiarimento a Tremonti annoierebbe il lettore. Figuriamoci. 

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