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Non ci resta che Insorgiamo

Qualcuno si è lamentato che nel 2023 non ho fatto il consueto post di fine anno (Marco, grazie: è incredibile che ti ricordi ancora di leggere questo blog una volta all’anno, cioè più di quanto effettivamente ci scriva), e in effetti è vero: non avevo alcuna riflessione buona da fare. Per gli altri, o per me stessa. Il 2023, ho dovuto constatare con una certa amarezza, è stato per me un anno veramente horribilis, per ragioni personali e non. Per ragioni, direi, che mi legano al discorso pubblico in cui ho scelto di stare, in cui sento il dovere di stare; che riguardano il mondo in cui viviamo, di cui non basta più dire stancamente “è impazzito”, perché, benché condivida tutta la stanchezza, è invece un mondo lucidissimo e nettissimo nelle scelte che fa. Il termine mondo è certo largamente impreciso: parlo di Stati, di istituzioni politiche, di chi fa le politiche, di chi le commenta, di chi ne è governato. Parlo di soggetti terzi, ma anche di amici, di famiglie, di conoscenti. Parlo della difficoltà a non farsi schiacciare dalla propaganda, parlo della difficoltà a mantenere un’autonomia di giudizio, parlo della dinamica della formazione delle opinioni, in questo mondo in cui la scelta alla base è quasi sempre stare coi forti e non coi deboli; opinioni viziate, poco informate, basate su luoghi comuni e accettazione di immutabilità,  “è così”, “non ci si può fare niente”, “non si può dire”. Opinioni che diventano il terreno su cui si prendono e impongono decisioni, sulla cui base poi si giudicano e sanzionano gli inadempienti, in un circolo vizioso che sembra non lasciare scampo, e a me personalmente fa male nel profondo. Perché non è il mondo in cui voglio vivere. 

E quindi, diciamolo subito sempre per il solitario, affezionato lettore, la canzone del 2023 era quasi una scelta obbligata: I fought the Law. D’altronde, non c’è niente che abbia ascoltato quanto i Clash l’anno scorso, invidiando in maniera struggente i tempi in cui potevi entrare in un posto e sentirli suonare, e ritrovarti in quella comunità, in quella lotta che aveva visto in anticipo l’orrore che stavamo costruendo, e che i ruggenti anni Novanta avrebbero consacrato come nuova cornice del sistema. Come sistema stesso.
Quel senso di comunità l’ho ritrovato, pochi giorni fa, nel Capodanno che abbiamo celebrato alla ex GKN, fuori da una fabbrica occupata da due anni e mezzo, trasformata dalla tenacia, dalla forza e dalla consapevolezza del Collettivo nel migliore laboratorio per costruire qualcosa di diverso, sulla base di esperienze di partecipazione e di condivisione, di lotta giusta, dura, onesta contro chi pensa che sia normale licenziarti via whatsapp in piena estate, e poi sparire nelle nebbie di un board meeting, senza mai rendere conto. Di chi non ha capito che la violenza è anche quella che viene esercitata contro le vite dei lavoratori che di colpo sono privati di salario, dignità, libertà. Mi pare un punto centrale: non si fa che sentire critiche alla violenza sui social network (esiste, confermo), o nei cortei quando viene rotta una vetrina (se ne parla meno quando la polizia carica gli studenti, i docenti, i manifestanti in genere); ma la violenza esercitata sulle persone, sui lavoratori, sui migranti, sugli indigenti a cui vengono tolti tutti gli aiuti, la riconosciamo o no? 

La notte di Capodanno, alla ex GKN, Dario Salvetti ha fatto il discorso politico più emozionante che mi sia capitato di ascoltare in un sacco di tempo: leggetevelo, è qui. Ci vogliono cinque minuti, e bastano a capire cosa dovrebbe essere e dire la politica. Invece l’altra sera non c’era nessuno volto noto di opposizione e/o maggioranza a testimoniare vicinanza agli operai: eravamo 3 mila persone, tra cui qualche giornalista, qualche intellettuale noto, docenti universitari, i loro studenti, persone arrivate dall’estero, ma non i decision maker che, da tempo, avrebbero potuto cambiare il corso delle cose. 
Le cose cambieranno lo stesso, forse, spero, perché quella lotta ha contagiato una parte del Paese e ha segnato una strada. Ma la sfida è che diventi un percorso comune, che le istanze di cui si fa portavoce si allarghino e diventino patrimonio condiviso: possibile che tutti blaterino di valori e poi si consenta a qualcuno di licenziare via whatsapp o di tagliere la sanità, cioè in parole più concrete si decida scientemente di privare le persone di cure spesso essenziali? Si decida, cioè, di aggravare la loro condizione? E perché, se non per favorire i privati, se non qualcuno in specifico certamente un mondo, un sistema, una cornice di rapporti di forza?

Ecco, lo vedete perché non volevo scrivere? Adesso siete amareggiati anche voi. E, se così fosse, sarebbe giusto. Credo che l’unico modo per resistere sia convogliare questa amarezza nella consapevolezza di quello che non è accettabile e che va respinto, anche se a volte può significare non essere compresi, essere lasciati soli o scegliere volontariamente di allontanarsi. 
Il motto del 2024, che i lavoratori GKN hanno trasformato da tempo in una chiamata popolare, è INSORGIAMO. Non è mai stato così importante, da quando io ricordi. Almeno non per me. 

 

 

(1 gennaio 2024, pochi minuti dopo la mezzanotte, Campi Bisenzio)

P.S. Alcune di queste cose le ho scritte, articolandole diversamente ed entrando più nel merito, in questo thread. Prima o poi o farò diventare anche un post, ma se volete leggerlo, intanto…

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L’amore è tutto qui

Alla fine è passato anche Natale, e mi si scioglie la penna. Per una serie di ragioni confusamente intrecciate, non riesco mai a fare il bilancio dell’anno prima di Natale, come se questi due giorni concentrati di famiglia, cibo, affetto improvviso, affetto sottratto e sorprese collegate fossero in qualche modo una cartina di tornasole di tutto il resto. Della mia tenuta mentale, in primis; ma anche dell’evolversi dei rapporti, delle cose che avrei voluto, di quelle che son arrivate, di come le ho accolte.
Prima sorpresa: sono stata bene. Erano anni che lamentavo la mancanza di pensieri intorno a me, io che passo le giornate a decidere cosa regalare alle persone a cui voglio bene, in ogni occasione, cosa scrivere nel biglietto collegato, quando distribuire il dono, cosa dire per mascherare l’imbarazzo (già, ci si può imbarazzare a manifestarsi premurosi, attenti, amorosi: e chissà se è solo per insicurezza o perché è un mondo in cui l’ingenuità spesso è punita severamente). Quest’anno ho ricevuto tanti regali quanti forse non mi succedeva dall’infanzia: persino troppi, considerato che passo la metà del mio tempo a lamentarmi di eccessi consumeristici di sorta. Ma il fatto è che ho ricevuto oggetti pensati, da persone inaspettate, da chi non aveva alcuna obbligazione a suonarmi il campanello con in mano un pacchetto, da chi mi ha fatto trovare in mail un pensiero bello, da chi ha passato con me decenni e ancora si sforza di conoscermi man mano che il tempo passa e i rapporti si trasformano.

Presenze e assenze.

Amplificate dal carnevalone natalizio, ma in realtà un leit motiv del 2022: pieni e vuoti, realtà e fantasie, verità e bugie, parole e fatti. È difficile dirlo con sicurezza senza rischiare di sentirsi una polla fra qualche mese, ma la seconda parte dell’anno è stata quella in cui son cadute le maschere, o in cui io son riuscita a smettere di scrivere sceneggiature mentali su come avrei voluto che le cose fossero, e le ho viste invece per quello che erano. Non sempre facile, quasi mai bello. 

E allora non è un caso se la cosa che ho fatto di più quest’anno è stata, paradossalmente, rimanere zitta. Ho ricacciato indietro una quantità di commenti, considerazioni e risposte da scriverci un libricino; ho pensato “testa di cazzo taci” un milione di volte, e un milione di volte mi son detta che non era il caso di esplicitarlo: perché le teste di cazzo sanno già di esserlo, e se non sono in grado di capirlo è inutile provare a spiegarglielo (certo, poi c’è la categoria delle teste di cazzo compiaciute con quel misto insopportabile di debolezze ed egocentrismo mal mascherato, e a quelle bisogna solo stare lontanissimi).

Non so se il mio non parlare sia (stato) l’atteggiamento giusto – il mio analista ha qualcosa da dire in merito, e non solo lui – ma so che quantomeno mi ha permesso di concentrarmi sulle cose importanti per me. Seconda sorpresa: passa il tempo, ma restano sempre le stesse. Semmai si radicalizzano. Prendono spazio, trovano forme. Ci sono stati alcuni momenti tristissimi quest’anno, e su tutti una mattina di maggio in cui sbagliando completamente sono andata da sola a fare un’operazione delicata e poi ho pianto per i due giorni successivi, e mentre la tristezza mi avvolgeva e spingeva verso il basso mi sono letteralmente aggrappata al pensiero che la mia felicità non è mai solo mia, ma vive nell’armonia, nella giustizia, nell’uguaglianza, nella fratellanza, nella consapevolezza della strada da fare insieme. 

Ci ho lavorato parecchio, quest’anno, intorno a questo concetto di felicità individuale e collettiva; ho messo mattoncini di consapevolezza grazie a persone vecchie e nuove, ricavandone nuove volontà, certezze, determinazioni. Di questo, soprattutto, sono grata: può fare tutto schifo fuori, può essere tutto sbagliato e da rifare, ma io – noi – sappiamo qual è la strada. Non è solo che non è poco: è proprio tanto. 

Scrivo con il naso attaccato al finestrino, da un aereo: ho ripreso a prenderne parecchi, da quando la vita è tornata più o meno normale post covid. Sotto di me si srotola Roma, e mentirei se nascondessi che il mio innamoramento per questa città impura e avvolgente è cresciuto ogni giorno da quando sono arrivata, due anni e mezzo fa, come una marziana catapultata su un pianeta alieno e spaventoso. Di Milano oggi mi manca quanto amavo Milano e la mia vita quando ci stavo, null’altro: nemmeno una casa che ho comprato pensando che ci avrei (avremmo) vissuto per sempre e in cui adesso mi fa fatica anche entrare. Credo sia il mio personale miracolo: amare tanto, amare sempre, amare nel momento. E poi andare avanti.

Le canzoni dell’anno, allora, non possono che essere due: L’amore è tutto qui, Piero Ciampi in tutta la sua inafferrabilità, e Keys to my heart, Joe Strummer prima che diventasse Joe Strummer.

Una perché dice la verità, l’altra perché serve: decidete voi come usarle.



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Essere minoranza

Io, cosa significhi essere minoranza, lo so da sempre.

Sono minoranza dalla nascita, quasi per statuto. Il mio nome non ha santi (né eroi), non è comune e non è nemmeno italiano, anche se io lo sono.

Sono minoranza nella mia famiglia, in cui tutti hanno studiato giurisprudenza, inclusi i parenti acquisiti, e io a cinque anni già impaginavo il giornalino della prima elementare, sapendo che quello avrei fatto — o almeno voluto fare — nella vita.

Ero minoranza alle elementari, unica non battezzata in una scuola di suore, la sola che mi aveva  preso a cinque anni.

Ero minoranza alle medie, quando i miei compagni ascoltavano gli 883 e io ero malata dei Guns N’ Roses e dei Nirvana, per lo sgomento dei miei.
(Mio padre stava guardando il Tg3Notte quando arrivò la notizia che Cobain si era suicidato. Passavo dalla sala per caso, a quell’ora ero già a letto. Scoppiai a piangere, inconsolabile. Mio padre mi gelò: «Cosa cazzo piangi che non lo conosci nemmeno?»)

Ero minoranza nel posto in cui sono nata, Chiavari, una cittadina deliziosa ancorata a routine e abitudini che già a 15 anni mi avevano fatto secca: infatti chiesi di poter andare a studiare in America e scappai. D’altronde, anche i miei erano minoranza, a loro modo: arrivati da Milano, dove erano arrivati da Torino, dove erano arrivati da Aosta, dove si erano conosciuti essendo uno siciliano, l’altra bergamasca. Finiti in un posto in cui la maggior parte degli abitanti è stanziale da generazioni, passandosi case, attività commerciali, espressioni dialettali.

Nell’ultimo decennio sono stata minoranza rifiutando diverse offerte di lavoro, nel momento in cui già il giornalismo era una crisi mostruosa (che sarebbe peggiorata), per paura di annoiarmi, a fare il mestiere così. Andando via da posti di lavoro fissi e incarichi tecnicamente allettanti, pur di sentirmi libera, e poi sentendomi quotidianamente in balia del mutuo, dei conti, delle fatture emesse, pagate, non incassate. Ma comunque meglio che all’altra maniera.

Sono stata minoranza quando mi ha chiamato una parlamentare nota, chiedendomi di lavorare per lei: per due giorni ho pianto, sapendo che accettare era per mille ragioni la cosa più sensata. Non me la sentivo di lavorare per questi, e ho detto no.

Sono stata minoranza altre centomila volte, e lo sono per natura, indole, testardaggine, orgoglio, stupidità, vanità.

Oggi sono minoranza insieme a un sacco di altra gente, ma in modo del tutto diverso. E spaventoso.

Lo sono ogni volta che vedo un tweet di Salvini e capisco cosa c’è dietro, come sta fregando la gente, come la gente ha voglia di farsi fregare. Lo sono quando penso a quelli delle Iene, con ribrezzo per le campagne che hanno fatto negli ultimi dieci anni, e mi rendo conto che hanno vinto loro, che i metodi sono i loro. Non importa che per me Nadia Toffa o Giarrusso non saranno mai giornalisti o scrittori: lo sono per chi li segue, e chi li segue è la maggior parte del Paese. 
Noi che stiamo a casa a imbarazzarci per Conte che tiene su un cartello con scritto #DecretoSalvini con l’aria di un ostaggio, ma senza la dignità per metterlo giù, siamo ultra minoranza: fuori dal nostro recinto per qualcuno è spettacolo, per altri è politica, per altri è normale.

Metaforicamente, siamo già in un ghetto: infatti ci chiamano élite, intellettuali, buonisti, sinistroidi e qualsiasi altra cosa, anche se magari facciamo fatica a far quadrare i conti, abbiamo votato i radicali e non abbiamo mai letto Guerra e Pace. 
Lo siamo perché i criteri che ci eravamo dati, i nostri metri di giudizio, le cose che avevamo imparato per affrontare il mondo, la vita e il lavoro non servono più. Sono superati, sono vecchi. Le nostre ragioni sono vane, perché si esprimono in lingue e sintassi che non sono più universali: anche se volessero, gli interlocutori non riuscirebbero a capirci.

Ero abituata a essere minoranza, ma ora è cambiato tutto. E a questo non ero preparata.

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Dispacci, Seattle #4

In giro per la West Coast è tutto un succedersi di cartelli in difesa delle minoranze, dei migranti, della comunità Lgbt. Non menzionano mai Trump nello specifico – ed è  giusto, perché non è dall’uomo che bisogna difendersi bensì da una cultura  profondamente radicata che lui ha contribuito a rivalutare  – ma si riferiscono a tutto quello che è successo negli ultimi due anni, da I believe that Black Lives Matter a Parents and their children shouldn’t be divided by force.

A Seattle, che è una città vivace e non conformista – nonostante Amazon, Microsoft, Boing e Starbuck, la Big America Corporatation che ha sede qui – molti bar e ristoranti hanno affisso adesivi sui vetri con cui rassicurano le persone gay, transgender, rifugiate: Here you are safe, qui siete al sicuro.  

Mi è sembrata una cosa fortissima: siete al sicuro, vi stiamo offrendo protezione, da chi non vorrebbe che foste quel che siete, da chi non vi vuole in giro, da chi potrebbe aggredirvi o farvi male in altra maniera.
Evidentemente specificarlo serve, evidentemente quella cultura di cui parlavamo sopra, l’intolleranza, la rabbia sociale, l’ignoranza, la prevaricazione, l’egoismo e tutto quello che sta rinsaldando il mostro nero dei nostri anni, esiste eccome. Non è solo marketing: potete fidarvi o meno, ma lo so, l’ho sentito, l’ho visto.

Ecco, allora mi chiedo: quand’è che importeremo questa cosa in Italia, dove il nero in giro è lo stesso, se non peggio? (Qui almeno formalmente l’industria più potente al mondo, Big tech, è schierata a favore delle minoranze, talvolta in aperto contrasto con l’Amministrazione su specifiche scelte come il Travel Ban, il divieto di immigrazione per certi cittadini e per i loro congiunti; da noi non mi pare di aver sentito una sola società o famiglia che conta, dalla Ferrari a Della Valle passando per Cucinelli che normalmente è il santo de noantri, dire qualcosa). 

Ce ne sarebbe molto, molto bisogno, e non solo nella solita Milano, che essendo la capitale nazionale del marketing ha capito subito come posizionarsi  – e meno male, non fraintendetemi.
Ci sarebbe bisogno anche che, una volta successo, i media (di destra, soprattutto, ma anche alcuni dei molti che si definiscono indipendenti e menano colpi al cerchio e alla botte con la stessa felicità con cui scrivono tweet) non lanciassero la grancassa canzonatoria delle magliette rosse o dei radical chic o delle bandiere della pace che furono.  

Serve rispetto, anche quello. 

 

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Dall’emergenza pitbull a quella migranti, in tre mosse

L’estate in cui i pitbull divennero emergenza è così lontana che quasi non la si ricorda: era il  2003 e il susseguirsi di aggressioni – o, meglio, del racconto di tali aggressioni sui media – fu così spinto che nel settembre di quell’anno l’allora ministro della Salute Sirchia varò la cosiddetta ordinanza pitbull per mettere paletti alla loro circolazione.
Da allora, i pitbull sono una specie di fiume carsico dell’informazione nostrana: appaiono e scompaiono nelle cronache a seconda della stagione (l’estate è meglio) e della predominanza di altre notizie più urgenti. Con una micro ricerca, si scopre per esempio che ci sono state quattro aggressioni di pitbull nei giorni scorsi, tanto da far scattare la richiesta di un patentino per chi ne possiede uno, ma di queste non si è avuto sostanzialmente notizia: i giornali e i le piattaforme social erano infatti piene della malattia di Sergio Marchionne e di un’altra emergenza, quella dei migranti.

Anche i bambini dimenticati in auto sono – purtroppo – un affluente del fiume carsico dell’informazione: ci sono state estati in cui sembrava che ogni giorno un genitore disgraziamente dimenticasse il proprio figlio, esperti che ci spiegavano della sindrome della memoria, cori collettivi di condanna o di comprensione verso questi sventurati genitori già evidentemente dilaniati dal dolore. Una ricerchina rapida, forse non esaustiva ma solo a titolo di esempio, dice invece che dal 1998 a oggi i casi sono stati otto: tantissimi, ma sono convinta che, affidandosi alla propria memoria, molti ne avrebbero contati molti di più.

Qualcosa di simile sta succedendo quest’estate con gli strupri commessi da richiedenti asilo. Il ministro dell’Interno Matteo Salvini, via social, ci ha informato negli ultimi giorni di due casi – uno a Piacenza, uno a Reggio Emilia – commessi da un ragazzo del Mali e da un ucraino richiedenti asilo. Non esistono ovviamente dati sulle violenze del 2018, perché gli ultimi esistenti – reperibili sul sito dell’ufficio centrale di Statistica del ministero dell’Interno – si riferiscono al 2016. In quell’anno, il totale è stato 4.046.  Nel 2018, parlando al parlamento europeo,  Salvini (allora non ancora ministro) disse: «In un anno i reati compiuti da cittadini stranieri sono stati 250 mila: il 55% dei furti, il 51% dello sfruttamento della prostituzione, il 45% delle estorsioni, il 40% degli stupri, 1.500 stupri in un anno e l’Europa che fa?». La frase già da sé significa che la maggioranza degli stupri sono commessi da italiani e non da stranieri,  ma soprattutto omette che nel 2017 il numero degli stupri è calato di quasi 1.000  rispetto a 10 anni prima, anche se contemporaneamente il numero degli stranieri nel Paese è cresciuto del 71,18%  e quello dei richiedenti asilo del +681,69.
Chi avesse voglia di approfondire ulteriormente può leggersi questo lavoro della fondazione Hume, che peraltro ha un approccio che non minimizza affatto l’apporto che gli immigrati hanno sulle statistiche della criminalità (pur distinguendo il ruolo in diversi crimini: un conto sono i furti con destrezza, un altro sono le lesioni).

Il punto però – e perdonate se ci è voluto un po’ ad arrivarci – è che i numeri, ancorché spesso invocati, non sono poi così semplici da maneggiare: spesso devono essere interpretati, messi in relazione ad altre variabili (emarginazione e povertà, tra gli altri). Da soli sono parziali, per quanto possa sembrare strano, giacché si prestano a essere letti in un modo o nel suo opposto (come dimostra la frase di Salvini sopra riportata). E sono fortemente influenzati dall’emotività: valeva per i pitbull, per i bimbi dimenticati in auto, ora per i richiedenti asilo che stuprano donne.
Senza timore di smentita, si può dire che il ministro dell’Interno è stato molto accorato e molto emotivo rispetto a questi stupri. Ha scritto diversi post su tutti i social, usando caratteri maiuscoli e dopo aver raccolto centinaia di commenti ha anche promesso un’ulteriore stretta sui richiedenti asilo.

Nelle ultime settimane, mi sono sforzata di dedicare molto più tempo di quello che vorrei (e persino che avrei) a discutere su Facebook di migranti, della comunicazione del governo, delle misure proposte. Ho scritto due diversi post che tra risposte e controrisposte hanno totalizzato intorno ai 200 commenti ciascuno (qui e qui).
I post mi hanno costretto a  giornate estenuanti, e la parola non è eccessiva.
Tuttavia, ho imparato alcune cose utili. La prima, forse banale, è che l’emotività vince sui numeri mille a uno. Più di una persona ha risposto dicendo che se ne frega dei numeri, perché quello che conta è ciò che vede coi propri occhi. Potrebbe essere un discorso parziale, ma in parte motivato, se non fosse che persino laddove quello che si vede non coincide con la realtà, le opinioni non cambiano.  «Il lungomare di Chiavari è diventato un posto in cui non puoi neanche far giocare i bambini», ha scritto una persona (riassumo discorsi più lunghi), e domenica mi sono data la pena di andare a controllare: il lungomare non ha segni particolari di sporcizia, degrado o pericolo. Dunque non solo che non si crede ai numeri (una laureata in giurisprudenza ha detto di non fidarsi delle statistiche dell’Istat, perché «chissà come le fanno») ma si deforma la realtà materiale, a portata di mano, per farla coincidere con il proprio pregiudizio.

La seconda cosa che ho imparato è che le persone di cui sopra non sanno discutere di un tema. Non che manchi loro la capacità linguistica, ma non sanno stare su un punto: se si parla di numeri, loro risponderanno con la saggezza popolare. Se si parla di inquinamento, loro tireranno fuori la bontà dei coni gelato. Se chiedi loro di definire radical chic, diranno che non vale la pena parlarne. L’incapacità di rispondere punto su punto è una specie di campanello d’allarme chiarissimo: l’emotività sta prendendo piede e cancella ogni possibilità di un dialogo razionale, se mai potesse esserci. Più si entra nello specifico, poi, più è impossibile ottenere una risposta. E più cresce l’aggressività.

E siamo al terzo punto. L’aggressività non è mai (per fortuna, per ora), esplicita. Ma si manifesta con la derisione, il sarcasmo, il discredito: «Non prendo lezioni da te», «Voi radical chic con la maglietta rossa che fatturate alle multinazionali», «Voi che siete così buoni quanti profughi avete in casa?» sono alcune delle frasi che mi sono state rivolte, e ancorché abbia provato a replicare nel merito a ciascuna, con calma, non solo non ho ottenuto risposta ma ho invece assistito a un esplodere di applausi, faccine sotto ai commenti derisori.
Il metodo, peraltro, arriva dall’altro: i bacioni, le carezze, le derisioni sono pane quotidiano dei politici sui social (mi duole ricordare che gufi, rosiconi e ciaone sono prodotti indecenti della comunicazione renziana e piddina). Ed è un metodo con cui si demolisce il dialogo, si annientano le questioni e si banalizzano numeri, dati, informazioni. Sono il metodo (non lo stile, attenzione: il metodo), a cui sono abituati coloro che passano parecchie tempo sui social.

Insomma: i numeri sono complessi e difficili da interpretare anche da chi vorrebbe farlo. Inoltre molti non sono interessati a farlo, né ci provano: sono più a loro agio con l’emotività solleticata da numeri decontestualizzati, o magari inesistenti, che si tratti di pitbull, di bambini dimenticati in auto o degli strupri commessi dai richiedenti asilo. Una volta solleticata quell’emotività, tuttavia, è impossibile ricondurla alla ragione: si entra nella fase tre, quella della derisione, del sarcasmo e del discredito.

Qualche settimana fa sull’Irish Times è comparso un ottimo pezzo che in sostanza diceva questo: nessun autocrate è partito avendo il 90% dei consensi. Di norma, si parte con qualcosa vicino (o inferiore) al 40% e da lì si sondano gli umori, spostando sempre più in là l’audacia (o la moralità) delle proprie proposte: si vede come reagiscono gli elettori, si aggiusta il tiro, si sposta poco a poco l’asticella. L’esempio riportato era  Trump con la separazione dei figli dei migranti dai loro genitori, su cui poi è stato costretto a tornare indietro.

Ora, la mia sensazione è che le tre fasi di cui sopra siano la palestra perfetta per giocare con questa campagna di conquista del consenso. Si allenano le persone a essere sempre più emotive e sempre meno razionali; si veicolano messaggi che smontano il dissenso con un po’ di sarcasmo e un po’ di umorismo calato dall’alto, condivisibile e replicabile a mezzo hashtag; si prova infine a spingere l’asticella sempre un po’ più in là.

Il risultato non è per forza un autocrate, ma nell’immediato sono provvedimenti che anche solo cinque anni fa sarebbero sembrati inumani. Come la decisione di cacciare le Ong dal mare. O di chiudere i porti. O di stringere sulle richieste d’asilo e di diminuire i permessi umanitari.
Misure su cui non è dato interrogarsi, perché sono giuste per forza: questo suggerisce l’emotività. Dunque non solo si accettano e si sostengono, ma accrescono la fiducia nei confronti di chi le mette in campo. Che poi non servano a risolvere un problema reale, ma solo a creare un consenso basato su percezioni artefatte, che un domani sarà ampliato con altra emotività e altre percezioni artefatte e altre misure per soddisfarle, è un effetto collaterale di cui molti non si rendono conto, ma di cui il politico di turno è perfettamente consapevole.

E hai voglia a dirlo, a raccontarlo, a provare a spiegarlo con i numeri. Chi non gioca con le regole basate sulle tre mosse, è fuori dall’arena. Che abbia ragione o torto nell’esprimere il dissenso, in questo momento non conta nemmeno: è come se parlasse un alfabeto diverso, incomprensibile ai più. Questa è la fase in cui siamo.
Per recuperare un dialogo, e cercare di recuperare la logica, bisogna quindi intanto ricostruire un alfabeto comune. Ma nessuno sa da dove partire.

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La fatica di essere migliori

L’altro giorno, su Facebook, sono incappata nel post di una persona che conosco. Parlava di esperienze lavorative e m’è venuto un colpo: quasi nulla di quello che aveva scritto era vero.  Sono rimasta a fissare lo schermo prima incredula e poi infuriata, trattenendomi dall’istinto di rispondere: avevo già le parole nei polpastrelli, in tre righe avrei potuto smontare non solo la retorica – stucchevole – ma soprattutto le falsità, rivelando la pochezza della persona. Un sacco di gente ne sarebbe stata contenta – a nessuno piace sentirsi preso in giro, magari anche da chi ti ha fatto parecchi brutti sgarri – e molti altri d’altronde devono avere avuto il mio stesso istinto. Ma nessuno  ha risposto niente.
Qualche giorno dopo, ripensandoci, ne sono fiera. Si trattava sì di bugie, ma per smentirle avrei dovuto gettarmi nel fango, abbassarmi a un livello che non voglio considerare, raccontando qualche retroscena. Soprattutto, avrei lasciato la persona alla mercé di un assetato gruppo di incazzosi feriti in cerca di rivalsa, con l’esplosione di una notevole quantità di rabbia e di attacchi di vario genere che – fin troppo facile prevederlo – sarebbero rapidamente diventati personali.  

Non rispondere, insomma, mi è sembrata la scelta più giusta, anche a costo di mandare giù un bel rospo. È stato faticoso, certamente, ma è una fatica che va fatta: per cercare di essere migliori. Non solo della persona in questione, ma soprattutto dei molti che da anni – e negli ultimi mesi ancora di più – vomitano sui social la propria bile, inquinando l’ambiente e il dibattito. C’è chi lo fa per sfinimento, magari perché la vita è stata dura. C’è chi lo fa perché è facile fare i bulli protetti dall’anonimato. C’è chi lo fa per ignoranza e chi perché nel gruppo si lascia andare agli istinti più bassi, alle cose più miserevoli. Penso a quei mentecatti che – quando Mattarella stoppò il primo tentativo di fare il governo con Savona  – commentarono cose truci come «Hanno ucciso il Mattarella sbagliato», o a quelli che per anni hanno dato della puttana a Laura Boldrini o a Elsa Fornero; quelle bestie che mettono in giro notizie false e le lanciano in aria come mangime a piccioni, in attesa solo che inizino a beccare. 

Qualcuno può pensare che sia cosa di poco conto, “roba da social”, ma sbaglia. Intanto perché sui social oggi si svolge gran parte del dibattito pubblico, nel bene e nel male: dal vicepremier Di Maio che ritwitta Jerri Calà (guardare per credere) a Salvini che ogni giorno bombarda Internet di foto, battute e annunci, al ritmo di uno ogni due ore (a proposito: ne preparo ogni sera una selezione per gli amici che bazzicano poco i social: se volete ricevere questo inconsueto “Album del giorno”, scrivetemi). E poi perché questo clima mefitico, i miasmi della rabbia e dei più bassi istinti, si stanno spargendo (da tempo) nel mondo fuori dal web, tirando fuori il peggio da ognuno. Sono circolate storie negli ultimi giorni di attacchi razzisti in spiaggia, un tizio che ha strappato dalle mani il bancomat di una ragazza nigeriana con successiva colluttazione e altre parecchio brutte; uno può anche scegliere di non crederci, ma io posso riferirne di due che so per certo, successe a persone che conosco. 
C’è chi dice che è cambiato il clima nel Paese; altri dicono che è sempre stato così. Io penso una cosa molto più banale: quando un certo tipo di linguaggio e di modalità espressiva vengono sdoganate dall’alto (e quindi in qualche modo, diretto e non, anche incoraggiate), allora chiunque si sente libero di essere la versione peggiore di se stesso. Di dire e di fare quello che magari ha sempre detto e fatto con pochi amici, ma contenendosi in pubblico ed evitando di riversarlo sugli altri: non per convinzione ma per una implicita accettazione della continenza, delle regole imposte dal contesto complessivo, dalla società, dagli standard acquisiti di decenza ed educazione. O anche solo per paura delle reazioni, o della vergogna. Ma se tutto salta – gli standard, la decenza, la vergogna -, se l’operazione di contenimento dall’alto viene a mancare, ecco che diventa legittimo essere la versione peggiori di se stessi. Peggio ancora, la versione peggiore di se stessi viene esaltata, in nome della presunta autenticità del popolo, della rivolta del basso contro l’alto (quali che siano), dei bagni di realtà.

In un clima così, rovesciare le cose è difficilissimo. Ma provare è obbligatorio. Con ogni mezzo, e in primis non essendo indulgenti con se stessi. Certe dinamiche si spezzano solo se – anche indirettamente – non vengono più avallate. Si tratta di un lavoro quotidiano, di un incessante monitoraggio di se stessi, di perdere tempo ad argomentare, ragionare, informare e informarsi. Non usavo così tanto Facebook da anni, ma di recente mi sforzo di tenere animato un dibattito su certi temi e di rispondere argomentando anche a quelli che vorrei mandare a quel paese. Spesso mi scoccio, a volte non mi riesce bene, talvolta vorrei poter essere libera di dire il peggio: ma la differenza tra chi mi piace e chi no è che i primi fanno la fatica di essere migliori. 

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Mattarella, Savona, le opinioni polarizzate e come se ne esce

Quando Conte è salito al Colle, ieri sera, ero bloccata in autostrada in coda. Ho cercato una radio che trasmettesse in diretta i discorsi e il dibattito conseguente; smanettavo su Twitter cercando informazioni aggiornate. Sulla timeline mi appariva il solito mix di battute, notizie e analisi condensate, più o meno motivate, compiaciute, allarmate e polarizzate. 
M’è passato tra le mani un tweet di un collega, coetaneo, molto quotato, di quelli che già c’è chi dice «Quando sarà il direttore del Corriere» (a dirlo sono persone di destra oggi ricompatatte nel centrismo renziano, solo per precisazione), uno per me misurato fino al limite della banalità di quello che chiamo “buonsensismo”, cioè il dire sempre la cosa giusta, quella su cui è difficile dissentire, anche a scapito di una riflessione più profonda e radicale.

Il tweet commentava Paolo Savona, un po’ come fosse stato Savonarola, sostenendo che era «un pericolo per l’Italia e per gli italiani», dunque Mattarella si era trovato in una posizione obbligata. Non era certamente solo: il buonsensismo (e forse qualche interesse personale) ha fatto sì che Savona fosse descritto come un anziano facinoroso, fieramente antieuropeo, con ruggini personali col capo della Bce, pronto a guidare l’Italia – lo ha detto anche Mattarella – fuori dall’euro con rischi incalcolabili. Cose vere? Non dette così.

Che Savona sia scettico con la modalità con cui l’euro è stato costruito, sui parametri di Maastricht, su certe politiche dell’Europa non è in dubbio: e tuttavia,  praticamente chiunque nell’arco politico, in momenti alterni e con frasi diverse, lo è stato e ha manifestato uguali preoccupazioni. Da anni non sentiamo altro che richieste di flessibilità, la necessità di cambiare l’Europa, di renderla più umana, meno germanocentrica, di rivedere i Trattati e via discorrendo.  Savona è stato molto esplicito in certe sue critiche, anche sulla Germania, e anche se non so se abbia del tutto ragione o meno, so però che l’uomo ha ricoperto ogni genere di incarico istituzionale in Italia e per quanto la sua amarezza con la Ue si possa essere accentuata non è lecito né onesto trattarlo come una Le Pen qualunque. Dubito inoltre che, se fosse stato nominato ieri, avrebbe avuto concretamente il modo di condurci su chissà quale baratro: esistono tempi tecnici, riunioni fissate con sei mesi di anticipo, lunghissime negoziazioni. David Cameron lanciò il referendum sulla presenza di Londra nella Ue a gennaio 2012; il referendum si tenne a giugno 2016: ci sono voluti 4 anni, durante i quali se  avessero voluto gli inglesi avrebbero tranquillamente potuto cancellare la consultazione. 

Insomma, Savona avrebbe incendiato l’Italia portandola a picco? Non lo posso sapere ma non credo, un po’ per chi è lui («un signore garbatissimo, con profonda conoscenza della finanza pubblica», lo ha descritto un altro giornalista di recente, uno che lavorava in un settimanale di economia, e oggi, per via della contrazione in Mondadori, lavora a Donna Moderna: quindi, per capirci, un giornalista che non ha la pretesa di influenzare il dibattito del Paese) e un po’ perché esistono regole, tempi e modi ai quali ci si sarebbe dovuti attenere. Credo anche che Savona sarebbe stato molto meno dannoso (molto meno, moltissimo meno, tremendamente meno) che Salvini agli Interni a gestire la questione immigrazione: ma quest’ultimo è un personale giudizio politico. E quindi è stato davvero povero il modo con cui i colleghi, la stampa di sistema  – sì, in questo caso è di sistema, e dirlo non significa fare il gioco di Grillo, bensì dire il vero – ha provato ad azzopparlo, dipingendolo come un cretino. Ritengo che Mattarella abbia fatto un errore molto grosso a impuntarsi, per ragioni sia politiche che istituzionali; penso anche che Mattarella sia in balia di questa crisi, la subisca più che gestirla, abbia sbagliato quasi tutte le mosse. 

Questo fa di me una sostenitrice di Savona, di Salvini, di Di Maio, o una contro la presidenza? Ma ci mancherebbe. Il governo Lega-M5S mi si profilava davanti come un incubo, disprezzo politicamente i due, non conosco l’opera omnia di Savona e credo fortissimamente alle istituzioni: non come modo di dire per darsi un bon ton da élite responsabile – detesto il termine responsabile – bensì perché senza una cornice di regole condivise salta il concetto stesso di Repubblica. 
Rivendico però il diritto di dire che penso che Mattarella abbia sbagliato, che Savona andasse confermato e che la stampa abbia gestito la questione ministro dell’Economia con un’immaturità da  scuola media, dando un contributo cruciale – e di questo sì bisognerebbe sentirsi responsabili – alla polarizzazione del dibattito pubblico. E cioè a dividere tutto in buoni e cattivi, eroi o carogne, giusto o sbagliato, come succede da troppo.

Breve riepilogo per smemorati, e certo mi dimentico qualcosa: quando Berlusconi disse che contro di lui si erano mossi poteri forti e l’Europa intera venne massacrato, oggi lo ammettono candidamente tutti; quando Monti arrivò era il dio della sobrietà col Loden: poi abbiamo infilato il pareggio di bilancio in Costituzione e oggi si pensa che alcuni errori fatti allora (vedi esodati e Fornero, ma anche il tasso di rappresentati di interessi privati in quel governo, vi ricordate la vicenda Ligresti?) siano stati gravissimi; di Matteo Renzi si esaltava qualsiasi stupidaggine, paginate apologetiche sul prendere il Frecciarossa, l’iPhone sempre connesso, la corsetta della mattina e la pizza la sera: oggi Renzi è colui che ha distrutto il Pd.  Tutto, sia detto con grande chiarezza, senza mai una riflessione, senza mai dire «Scusate, abbiamo sbagliato, forse non ci abbiamo pensato abbastanza, ci siamo fatti prendere la mano perché suggeriti, imbeccati, perché vittime di buonsensismo». Poi il buonsensismo sulla Grecia ha fatto sì che chiunque oggi scriva che la ricetta di Europa e Fondo monetario internazionale è stata sbagliatissima, ma quando allora i greci scendevano in piazza con la stessa fermezza venivano bollati come cicale inconsapevoli, o molto peggio. 

Avremmo dovuto imparare dunque, se solo ragionassimo sulle cose, che il bianco e nero non funzionano, non consentono tonalità o sfumature,  impongono strade che poi svoltano repentinamente, e nessuno vuole quelle svolte. Le persone non giudicano più qualcosa accogliendo tutti gli elementi della riflessione, ma sulla base di fedeltà quasi tribali: i responsabili contro gli antisistema, la casta contro l’élite, l’Europa contro i no-euro, il progresso contro i no-tav. La polarizzazione dei giudizi è pericolosissima, ma non si riesce a scapparne, nemmeno tra coloro che dovrebbero costruire il dibattito pubblico (torniamo al tweet su Savona «pericoloso per gli italiani», e c’è da chiedersi se uno non si senta ridicolo nel descrivere così un ex ministro, capo di Confindustria, economista 80enne). Se critichi la gestione della Tav in Val di Susa sei un terzomondista, poco conta che chi te lo dice non sia mai andato in Val di Susa e tu invece ci abbia passato giorni e ti sia letto documenti e conti economici. Se pensi che Mattarella abbia sbagliato, sei contro Mattarella, non contro quella specifica decisione, e via discorrendo. 

Il mondo invece è molto più complesso, ogni elemento andrebbe valutato senza apriori, con profondità di giudizio e riflessioni di lungo periodo. Questo non succede, né tra molta parte delle élite né, tantomeno, tra chi élite non è e formula i propri giudizi su poche informazioni malconce, strumentalizzate, mal scritte e mal documentate. Su Facebook ma non solo; anche banalmente prendendo per buone certe frasi dette in televisione che poi non significano nulla, o sono palesemente sbagliate. L’altro giorno avevo in macchina un tizio – BlaBlacar – che sosteneva che l’Italia avesse venduto le coste alla Francia (vecchia storia, riesumata qualche mese fa da Meloni): quando gli ho detto che le cose non stavano così, che l’Italia non aveva ratificato il trattato, che la Francia aveva ammesso l’errore sulle cartine geografiche  eccetera, ha continuato a sbraitare sul «coglione di Gentiloni», che oltretutto è anche un falso storico perché la vicenda inizia nel 2012.  Abbiamo creato una parola per descrivere questo atteggiamento, post truth, cioè post verità, ma poi non siamo andati a riempirla di quella consapevolezza che serve a “denuclearizzarla”.

Il mio timore è che non siamo in grado di farlo perché il gioco ci è scappato di mano. Ieri sera leader politici invocavano l’impeachment di Mattarella al telefono con Fabio Fazio, che subito dopo aver chiuso con Martina ha dato il palcoscenico a Fedez e J-Ax che cantavano “Comunisti col Rolex”: e oltre all’effetto repubblica delle banane,  è difficile non cogliere la continuità tra quel titolo e quello che stava succedendo politicamente in una sera di pura follia. La coscienza delle persone è annichilita nel pensiero binario, e nessuno si occupa più di formarla in alcun modo: non la scuola – dove ormai i docenti cercano di sopravvivere, non più di strutturare il Paese – non gli opinionisti (avete presente cosa è successo a Michele Serra?), non i giornali o le televisioni, che aizzano gli animi. Il problema non è nemmeno la follia di aver pensato per qualche giorno che un premier praticamente scelto a caso per essere un robot potesse essere teleguidato da due politici e tallonato da responsabili della comunicazione per evitare che assumesse iniziative proprie (infatti Conte avrebbe potuto dire: faccio ministro Giorgetti d’accordo col Quirinale e chiuderla lì, invece ha rimesso il mandato perché così gli hanno detto di fare). Il problema è che le persone, il popolo, la gente, chiamatelo come volete, è una massa informe sovreccitata, che ha le soluzioni senza nemmeno aver messo a fuoco bene i problemi, che cerca “emozioni forti”, che vuole azioni eclatanti perché ha bisogno di rivincita, se non di vendetta. E quando aizzi la gente così, quando porti l’esasperazione a questo livello, il problema  non è più lo spread: è che prima di convincerli a rimettersi ad ascoltare, a capire, a studiare deve succedere qualcosa di bruttissimo. Una guerra, una carestia, le brigate rosse, qualcosa che metta tutti in ginocchio e azzeri forzatamente le cose. 

È uno scenario drammatico, ma io penso che sia quello che ci aspetta. Abbiamo una responsabiltà anche noi in questo, noi con i nostri tweet, con le opinioni certe, con l’assenza di sfumature e la certezza che il nostro bianco sia il solo vero bianco, tutto il resto nero. Ma il mondo, per fortuna, è fatto di grigi. 

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Le responsabilità del giornalismo

E così siamo arrivati alla mattina dopo l’Armageddon, che a pensarci non era poi così imprevedibile e impensabile come parecchie prime pagine e commentatori ci hanno spiegato nelle ultime 24 ore. 

Non serve dire perché non era difficile da intuire – mi fregio di aver detto per settimane che il Pd non avrebbe preso il 20% e che la Lega avrebbe sorpassato Forza Italia; in compenso, sul resto della sinistra e sulla Bonino ho sbagliato grandemente – ma è invece utile ricordare quanto per mesi ci è sembrato scontato che l’unico esito possibile fosse un altro governo Renzi-Berlusconi, il famigerato Nazareno Bis. I giornali, di qualsiasi inclinazione, l’hanno descritta non solo come l’unica soluzione, bensì come il solo progetto possibile per la legislatura nascente: tutti, ogni giorno, con articolesse e commenti e indiscrezioni fatte dei soliti virgolettati piazzati ad hoc. Salvo poi, un paio di settimane fa, ingranare la retromarcia e iniziare a sparare titoli sul Nazareno che non si sarebbe fatto, senza mai nemmeno sprecare una mezza riga per dire: scusate, sono mesi che vi diamo come certa, scontata e quasi indispensabile una cosa che invece non stava nei numeri, ci dispiace, abbiamo fatto una cazzata. 

Considero l’atteggiamento – sia il prima che il dopo – gravissimo, e ne ho discusso a lungo con colleghi (i quali, molti facendo politica, non sono stati esattamente d’accordo: ma non c’è da stupirsene). E credo che sia l’occasione per fare chiarezza, su almeno due cose cruciali.

La prima è l’origine della certezza che ci è stata propinata per mesi, ossia l’inevitabilità della coalizione Pd-Fi. Diciamocelo una volta per tutte: nessun giornalista politico che carpisce una dichiarazione “scomoda” o riflessioni sul futuro – ovvero le cose all’origine degli scenari prospettati –  le pubblica senza avere una specie di assenso di chi l’ha pronunciata o di coloro che gli stanno intorno e se ne fanno interpreti, perché se lo facesse sarebbe destinato a non sapere più niente nel futuro. Verrebbe escluso dal giro di quelli a cui le cose si fanno arrivare, i giornalisti con cui «si parla», come si dice in gergo.
Il giro dei virgolettati rubati e delle indiscrezioni è insomma una partita in cui ogni giocatore, di ogni partito, passa a un giornalista qualcosa che gli fa comodo che venga pubblicato, riguardo la propria formazione o avversari, e di cui il giornalista, a seconda della propria serietà e mezzi, verifica la veridicità o la verosimiglianza.

Cosa significa, all’atto pratico? Che scenari, congetture e piani B sono stati fatti filtrare per mesi sui giornali e sono stati dati come inevitabili, senza che nemmeno i sondaggi suffragassero le ipotesi: si è detto fino all’ultimo giorno che la volatilità del voto era massima. E quindi –  e qui arrivo al secondo punto – i giornali hanno contribuito a dettare un’agenda politica e a polarizzare il dibattito intorno a ipotesi di cui non solo non potevano in alcun modo valutare la fattibilità, ma che chiaramente hanno influito energicamente sulla percezione degli elettori: quanti avranno votato CinqueStelle per evitare il sicuro inciucio Renzi Berlusconi?

A queste mie riflessioni fatte in pubblico, qualche collega ha risposto: «È sempre stato così, bisogna animare il dibattito». Io non so dire se ai tempi della Prima Repubblica fosse così: non c’ero e (ri)conosco le dinamiche del mestiere da meno di 15 anni. So però di certo che la risposta è – per me e, suppongo, per molti elettori – disarmante. Ed è, probabilmente, anche in parte la causa del crollo delle copie dei giornali. 

Esiste una responsabilità nel fare i giornalisti, ed è tanto più ampia quanto più si tocca la materia viva capace di influire sulla vita di tutti. La politica questo dovrebbe essere, e finché viene trattata soltanto come un trono di spade qualsiasi, come intrighi di palazzo e battaglie d’onore e cretini contro furbi, tale sarà percepita dalla gente: con valore zero. Il che spiega perché i primi che arrivano e propongono due cose che suonano concrete («Aboliamo la Fornero», «Il reddito di cittadinanza»: che si possano o meno fare è altro conto) vengono creduti e sostenuti. 

Soprattutto, il giornalista sa che si sta prestando a un gioco, pur con il nobile intento di dare una notizia (che spesso però è una non notizia): ma non lo sanno quelli che dovrebbero leggerlo. 
E il disinvolto dispiegare (non) notizie contrastanti, o scenari opposti, senza nemmeno un briciolo di riflessione su come quanto scritto fino a quel momento possa aver contribuito a un certo risultato – allo scoramento degli elettori, per esempio; al polarizzare il dibattito su cose non reali sottraendo tempo a quelle reali; alla percezione sempre peggiore che i cittadini hanno di molto giornalismo – bè, è il chiaro segno che davvero stiamo dalla parte sbagliata delle vicende: non sopra, come ci piacerebbe far credere, e sicuramente non dalla parte del popolo che vorrebbe essere informato e riflettere con spunti critici, ma da quella di chi deve autoalimentare il proprio circolo di attenzione. 

Non stupiamoci poi se al governo va chi i giornali e i giornalisti li ha sempre trattati a pesci in faccia, portandosi con se metà Italia che non sa nemmeno che faccia abbiano Repubblica o il Corriere: mi pare del tutto comprensibile. Forse, addirittura, inevitabile. 

 

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Le foto di Obama, e quelle di Trump

La settimana scorsa, a Cortona, sono incappata in una conferenza di Pete Souza, l’ex fotografo di Obama alla Casa Bianca. Non so dire se tecnicamente Souza sia un grande fotografo – stando ai parametri a volte perniciosetti per cui gli appartenenti a una categorie professionale parlano degli altri, specie se ancora vivi – ma so di certo che è stato eccezionale. 
Magari non avete idea di chi sia ma avete comunque visto i suoi scatti, essendo stati sostanzialmente in mostra permanente sulla stampa intera per tutti gli anni della presidenza Obama: tra i meriti di Souza c’è quello di aver reso umano un mito e di aver mitizzato l’uomo.  
Indice sommario: il presidente che gioca col bambino vestito da Spider Man, una corsa col cane Bo (e non chiedete perché Dudù non muove alla stessa tenerezza), un hamburger in maniche di camicia, una partitella a basket, oppure lui e Michelle in ascensore, a guardarsi negli occhi dopo una festa, o tutto lo staff nella situation room al momento dell’assassinio di Bin Laden eccetera eccetera. 


È probabile che in questi anni le foto di Souza mi abbiano ammaliato anche per via dell’adorazione che ho per Obama (e no, non perché fosse un nero con una storia costruita ad arte. Trump almeno un merito ce l’ha: la differenza tra i due è così spaventosa che oggi nessuno può più dire che ci piaceva Obama solo perché era “diverso”). Mi sono chiesta più di una volta se mi stessi bevendo uno storytelling ben confezionato – che poi Filippo Sensi ha provato a imitare in modo un po’ grottesco con Renzi -, se stessi inconsapevolmente ripiegando tutto il mio spirito critico, se mi stessi ammalando ogni giorno di più di esterofilia e erbadelvicinismo, per così dire. 
In parte; può essere. Non bisogna essere Asor Rosa per capire che, certo, nel portarci a un centimetro dalla faccia di Obama contratta dalla stanchezza Souza stava servendo un bon bon di benevolenza nella vita politica e nella capacità di giudicarla. Ci stava seducendo nemmeno troppo lentamente, scodellando l’immagine dell’uomo giusto e giudizievole, padre amorevole, marito appassionato, presidente sempre presente a se stesso senza perdere il lato giocoso, affabile, umano.
Non so voi, ma io di donne non innamorate di Obama non ne conosco. E di uomini politici di similsinistra che non abbiano provato a imitarlo, nei modi e nello stile, neppure. 

In ogni caso mi ero quasi rassegnata a dimenticarmi dei momenti felici in cui la mattina aprivo i quotidiani e nel riquadro generalmente destinato a XFactor e alla ricetta del baccalà alla vicentina si trovavano gli ultimi scatti di Souza, quando l’ho sentito raccontare un aneddoto.
Stava mostrando una foto di Trump, preso di spalle, che entra nello Studio Ovale, probabilmente nei giorni del passaggio tra i due presidenti. Sullo sfondo un muro bianco occupato da un grande quadro.
«Ah, quel quadro non c’è più», ha buttato lì. «Quelli di Time hanno fatto un servizio di recente: hanno scattato dalla stessa posizione e ora su quella parete il dipinto è stato sostituito da una grande televisione». 
In sala qualcuno ha riso, inclusa me: un desolato risetto carico di nostalgia. 
A casa, invece, ho aperto Instagram e sono andata a guardare le cose che posta Trump (o qualcuno dei suoi), che generalmente scorro evitando di mettere a fuoco. 
Tipo queste.
 



Sono, semplicemente, rozze. Grossolane, brutte nei colori, senza gusto se non quello di un celodurismo da America della Rust belt che scola lattine di birra sul retro di un pick up.
Stanno alla classe come gli strilli di copertina dei magazine degli Anni 80, alla sottigliezza di pensiero quanto Rovazzi o Bello Figo, all’eleganza quanto la visiera dritta al Borsalino. 
E non è solo questione che l’elettore di Trump, quello cui lui si rivolge scompostamente davanti al maxischermo che fu quadro oggi sempre sintonizzato su Fox News, è sensibile solo (o particolarmente) a questi tipi di messaggi, essendo l’elettore stesso celodurista, incastrato negli anni 80, aspirazionalmente milionario ma senza un centesimo per andare al cinema. 
No, nella scelta comunicativa di Trump c’è di più: c’è Trump. 
Non è una scelta meditata: è lui che deborda. Lui, quello che ha sposato Ivana Trump e che delle donne racconta di afferrarle per i genitali (l’ho scritta bene: I grab them from the pussy suona un po’ diverso). Che ripete 30 parole da scuola media compulsivamente (nasty! sick! bad !good! nice! TUTTE MAIUSCOLE, ovviamente), che si addormenta davanti alla tivù con il telefono in mano e gli scappa di twittare Covfefe digitando a caso, perché non ha nemmeno l’autocontrollo necessario a capire quando sta per crollare e mettere giù lo smartphone. Che rifiuta di leggere documenti della Cia più lunghi di mezza facciata (meglio se glieli riassumono a voce) e articola il pensiero in 140 caratteri massimo. 
Insomma, la comunicazione di Trump è lo specchio di Trump, e ne rappresenta meglio di qualsiasi analisi la superficialità.
Obama trasmetteva un’immagine, anche grazie agli scatti di Souza: semplice ma raffinata, popolare ma di classe, identitaria ma inclusiva. Trump  entra nei social media con la bomba H, ogni post è un piccolo ordigno nucleare che annulla la possibilità di interrogarsi, di diventare curiosi, di coltivare la fantasia. 
Un giro su Instagram, probabilmente, restituisce il personaggio Trump molto più di tutto quello che ne scriveranno i giornali e i biografi. Ha il pregio di togliere i dubbi: lo puoi quasi toccare, lo vedi grande, grosso e goffo, caricaturale in gesti sempre uguali, sempre un po’ troppo.
Il paragone con le immagini di Obama è così feroce da essere quasi intellettualmente insostenibile: pare di aver fatto un salto indietro di tre decenni, prima che instagram e le serie tivù riuscissero a livellare verso il medio anche i gusti dei senza speranza, per pura emulazione.
A breve – penso (spero) – uscirà una semiologia dell’immagine di Donald Trump. Purtroppo all’università non ho studiato abbastanza per scriverla io: sempre dopo ci si accorge di come si è sprecato il tempo. 

[in compenso, con Gabri abbiamo creato questo: esercizi di controcultura mainstream]

 

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Il terrorismo (non) spiegato ai bambini

Mio nipote è tornato a casa da scuola e si è rinchiuso un’oretta tra iPod e XBox, senza dire nulla alla tata.
Ha fatto merenda seduto da solo al tavolo della cucina, mi ha chiamato su Skype con un sorrisetto tirato, poi ha infilato le ultime cose nella sacca della piscina e si è consegnato al rituale bisettimanale del corso che avrebbe tanta voglia di mollare se non temesse di deludere suo padre.
Cinque stile, cinque dorso, dai, tutti giù dal trampolino, gridava l’istruttrice come sempre. Ha fatto le sue vasche senza fiatare – Più veloci ragazzi, siete saraghi o sirenette? – morsicandosi appena le labbra sott’acqua, quasi di nascosto, come facciamo tutti in famiglia quando un pensiero ci tormenta. Poi si è asciugato, rivestito e finalmente era ora di tornare a casa.
Con sua madre – una mamma così delicata che ogni bambino ne meriterebbe una simile – ha preso un po’ di tempo: i compiti, gli amichetti, le prossime vacanze. Alla fine, prima di cena, ha trovato il coraggio. Le parole si sono accavallate l’una sull’altra, la paura mescolata all’imbarazzo, gli occhi già umidi: A scuola mi hanno detto che i terroristi stanno arrivando a Roma, e poi verranno a Genova. Ci ammazzeranno come a Parigi?, ha buttato fuori.
Mia cognata è rimasta di sasso, un cucchiaio in mano e il sorriso accogliente inebiteto in un silenzio da riempire in fretta. Mentire, inventarsi qualcosa, dire la verità, a sapere qual è. No amore, la polizia lavora attentamente e se ci sono dei terroristi li fermerà, noi possiamo stare tranquilli, ha provato a rassicurarlo.
Gli bastava quello, almeno apparentemente: ha ripreso fiato, i gesti si son fatti meno isterici, in bocca son ritornate le solite scemenze da novenne.
Sono passati un paio di giorni e ho visto mia cognata a pranzo. Come si fa a parlare di questa cosa? Come gli spiego chi sono i terroristi?, mi ha chiesto sperando in un aiuto.
Non avevo uno straccio di risposta, ovviamente.
Ci ho pensato a lungo la sera, ma anche cercando su Internet e passando in rassegna i libri che ho in casa non sono riuscita a capire come trattare la vicenda. Il terrorismo non lo capiamo bene noi adulti, come prova il dibattito sguaiato sullo scontro di civiltà e la guerra di religioni e le crociate, un dibattito in cui la semantica si è persa in frasi fatte e le dichiarazioni roboanti servono a convincere seguaci e non persone; provare a spiegare ai bambini quello che noi non abbiamo compreso fino in fondo è una pretesa impossibile.
Poi mi è venuto in mente che ci sono posti in cui quella comprensione diventa semplicemente sopravvivenza: vive chi colpisce per primo. Coetanei di mio nipote che riterrebbero le sue domande senza senso, perché vivono in campi profughi o sotto le bombe o con la minaccia di attacchi costanti: palestinesi, israeliani, siriani, iracheni, afgani, pachistani, sahrawi, scegliete voi chi.
Ho pensato a tutto lo sforzo che potremmo fare noi per spiegare al Titto cos’è il terrorismo, perché capisca  e isoli le persone e i contesti, perché usi tutte le possibilità che ha per comprendere –  magari anche meglio di noi – che le presunte guerre di religione sono sempre guerre di potere, modalità per affermare se stessi su altri, che tutti i testi sacri possono essere ugualmente brutali ma sono i cuori, i cervelli e gli interpreti a fare la differenza. Pensavo a come il Titto potrebbe capire tutto, ma un bambino a 5 mila chilometri di distanza, invece, potrebbe non capire nulla mai, perché suo fratello lo hanno fatto saltare in aria a scuola o chi gli dà da mangiare è lo stesso che gli spiega come il mondo sia diviso a metà tra puri e impuri, e se lui non ammazza gli impuri saranno questi ad ammazzarlo.
Ragionavo su come, tutto sommato e nostro malgrado, la spiegazione che possiamo dare al Titto sia puramente intellettuale, buona sola per le nostre coscienze al caldo, farcite di egalitarismo e buoni sentimenti e migliori intenzioni, a fronte della realtà del suo coetaneo a 5 mila chilometri. E mi dicevo che finché di fronte al Titto ci sarà un bambino che a 9 anni ha già benissimo interiorizzato il terrorismo le spiegazioni saranno inutili, perché annientate dalla potenza dei fatti: una volta diventato adulto, quel bambino potrebbe entrare in un’altra redazione e far saltare in aria tutti quanti, e allora ci sarebbero altri centinaia di Titto spaventati a chiedere rassicurazioni alle loro mamme. L’unica vera rassicurazione andrebbe data a loro, ai bambini a 5 mila chilometri di distanza: Vi leveremo di lì, questa cosa finirà, non dovrete più vivere così. Ma, ovviamente, se li rassicurassimo staremmo mentendo.

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