Archive for category personaggi
I wanna talk with Common People
Posted by gea in gea and the city, personaggi, viaggi on December 2, 2010
Martedì prossimo pranzerò a Soho, Londra. Insieme a Ken Loach.
La settimana scorsa gli ho scritto una mail per chiedergli un paio di cose. L’indomani la sua assistente mi ha telefonato e abbiamo concordato l’intervista in Wordour street.
Nella stessa mattina Marta ha scritto a Gianni Amelio, dicendomi: Proviamoci con uno verosimile, dai.
Gianni Amelio non le ha mai risposto.
iconoclasta
Posted by gea in alla rinfusa, personaggi, viaggi on July 13, 2010
Edo è andato ad Arles e ne ha tirato fuori un progetto fotografico. Le foto fanno morire dal ridere, guardatele una di seguito all’altra.
(Nota bene: funziona meglio se sapete cosa è il festival internazionale della fotografia di Arles e chi è Paolo Woods – un amico, tra le altre cose).
Just breathe
Posted by gea in musica, personaggi on July 7, 2010
E a un certo punto stasera Eddie Vedder ha chiamato Ben Harper sul palco e passandosi una bottiglia di vino rosso hanno suonato Red mosquito e io ero così emozionata che mi sono dimenticata di essere sul palchetto della stampa e gridavo e saltavo come al mio primo concerto dei Guns n’ Roses a tredici anni e poi c’è stato silenzio e Vedder ha attaccato Just Breathe e ho pensato che mi si crepasse il cuore.
(Un amico di un conoscente di cugini di terzo grado che si trovava a Venezia l’ha per caso registrata. Eccola).
Bide me
Posted by gea in personaggi, politica e dintorni on June 23, 2010
Ieri notte sono incappata nella notizia dell’intervista del generale McChrystal, quella rilasciata a Rolling Stone (America, of course) che potrebbe costargli il posto di comando in Afghanistan viste alcune dichiarazioni non proprio entusiaste su Obama e Biden. Sono andata a leggermela in versione integrale (qui), già che nei prossimi giorni se ne farà un gran parlare e affidarsi alle traduzioni spizzichi e bocconi dei nostri quotidiani non è mai cosa saggia.
Nonostante richieda tempo – a me, venticinque minuti di orologio, saranno 90 mila battute distribuite su sei pagine fitte – la lettura è esaltante e ve la consiglio più che caldamente. Se ne ricava un’idea netta ed emozionante di cosa sia il giornalismo, anche periodico, nella tradizione anglosassone (vedi Vanity Fair U.S., che è un raccoglitore dei migliori scritti degli ultimi 30 anni) e ci si immerge in un personaggio nella sua inquietante interezza, come mai gli striminziti riassunti della nostra stampa lo restituiscono. Soprattutto, si capiscono una quantità di cose sulle guerre, l’esercito, il militarismo e il celodurismo americano, che davvero non è sostanzialmente diverso dalla scoppiettante rappresentazione che ne fece Coppola con il tenente Kilgore.
Eppure, e questo forse avrei dovuto dirlo prima, non credo affatto che le dichiarazioni di McChrystal siano così gravi. Se inserite nel giusto contesto, fanno solo parte di una ruvidità del personaggio, di un ego che si nutre di autocelebrazione; ovviamente, le due frasi estratte da Repubblica e Corriere impediscono di farsi un’idea corretta del tutto. Poi è evidente come il presidente degli States non possa permettersi di tollerare nemmeno una sbavatura dell’ego del suo uomo al comando, ma giusto per onestà intellettuale non me la sento di crocefiggere McChrystal, almeno non per queste sue parole.
quattro e mezzo
Posted by gea in personaggi, politica e dintorni on June 15, 2010
Lilli Gruber a Roberto Cota: Presidente Cota, secondo lei la proposta di Fiat per Pomigliano è corretta?
Roberto Cota: Io so solo che la Fiat ha scelto di non produrre auto in Polonia ma di produrle in Italia.
Se ci sono un sacco di cose che non sai allora è meglio che tu stia zitto, caro padano.
l’uomo nuovo
Posted by gea in personaggi, politica e dintorni on May 3, 2010
Sto seguendo con molta attenzione la vicenda di Clegg, in Gran Bretagna. Da giorni penso che dovrei scriverne qualcosa, non fosse altro perché i reportage dei quotidiani italiani sono al limite dell’imbarazzante: basta dare un occhio a quelli inglesi per rendersi conto di quanto ci si darebbe da dire e non viene detto. La favolosa vita del corrispondente.
Clegg è il quarantatreenne (ripeto: qua-ran-ta-tre-en-ne) leader dei Liberali britannici, il famoso terzo partito nato da una costola del Labour decenni fa, che si candida a rivoluzionare lo scenario politico dopo aver sconvolto una campagna elettorale che sembrava già tracciata e stabilita senza possibilità di errori (ricordo articoli datati 2008: “Novità tra i Tory: il giovanissimo Cameron scelto per battere il Labour alle prossime consultazioni”. Povero Cameron, fa quasi pena oggi). Qualche dato sparso: figlio di un’olandese, sposato con una spagnola, Nick Clegg a 33 anni già lavorava per la UE dopo laurea e specializzazione tra Oxford e Cambridge; europeista convinto, parla cinque lingue e vive nei quartieri nord di Londra, quelli cioè dove esistono supermercati, pompe di benzina e deli-pakistani, ovvero dove sta la gente normale.
Si è imposto all’attenzione dei media e della gente guadagnandosi un posto nel primo dibattito televisivo della storia politica britannica; sapendo di non avere niente da perdere è andato tranquillo e sicuro di sé, spiazzando gli altri due e uscendo vincente nella percezione degli spettatori. Da allora è stato un gioco a rialzo nei sondaggi, alimentato dal suo trottare in lungo e in largo per comizi e incontri con chiunque, dagli studenti ai militari. Anche se non è ancora chiaro se sarà lui a prendere più voti nelle consultazioni di giovedì prossimo (i sondaggi dicono di sì, ma c’è un problema di ripartizione dei collegi a favore del Labour; inoltre il segreto dell’urna riserva sempre qualche sorpresa, come gli italiani sanno fin troppo bene), è però chiarissimo che sarà lui l’uomo chiave della prossima legislatura: né i Tory né il Labour potranno probabilmente creare un Governo senza il suo appoggio e se, come appare molto probabile, la “Grande Coalizione” si farà tra i Liberali e i Laburisti, Clegg si prenderà la libertà di mandare via Brown, detestato praticamente da chiunque.
A quelli come noi abituati a barcamenarsi tra le case con vista Colosseo a 3mila euro al metro quadro e i lunghi coltelli affilati nei loft, il personaggio di Nick Clegg sembra arrivare da Plutone, e questo a prescindere dal suo manifesto politico – peraltro molto interessante, anche se un po’ deficitario sul piano della chiarezza economica: regolarizzazione massiccia degli immigrati sul territorio, contenimento del deficit pubblico tramite tagli di spesa, convinta adesione alla UE, ruolo chiave della spesa sociale, spostamento verso un sistema proporzionale. Il Regno Unito è il Paese europeo più ingessato in un bipartitismo che sa di muffa, nonostante la spinta progressista dei primi due mandati di Blair; una nazione – un’isola, in tutti i sensi – ripiegata su se stessa, che guarda all’Europa con un misto di diffidenza e altezzosità, pur senza avere il coraggio di chiamarsene fuori. L’ascesa e la probabile affermazione di uno come Clegg potrebbe mandare in crisi l’intero sistema, portandolo a una svolta epocale.
Il fattore interessante è però come questo sia possibile: l’esistenza stessa dell’uomo nuovo e il suo radicamento tra la gente sono cose sconosciute agli italiani che anelano al bipartitismo come se fosse acqua nel deserto. Da noi di uomini nuovi non se ne vedono in giro da decenni – se si esclude Bossi e l’armata padana, ormai però stabile al potere da 15 anni – e quando qualcuno prova a farsi avanti i partiti sono solerti nel farlo uscire di scena (si veda il tentativo dalemiano di far fuori Vendola in Puglia). E’ certo vero che qualsiasi situazione sembra migliore dall’esterno che dall’interno – lo scandalo dei rimborsi spese britannici due anni fa ha rivelato al mondo che l’abuso di potere non è prerogativa solo degli italiani pizza-mafia e mandolino – ma dire che il terremoto politico inglese assomiglia per noi a una chimera è quantomeno realistico. A leggere i racconti appassionati dei quotidiani d’Oltremanica viene invidia: da noi i soli pezzi appassionati sono i coccodrilli per personaggi che si spengono dopo 60 anni di onorata carriera. Senza che il loro posto venga preso da altri, naturalmente.
Day after
Posted by gea in personaggi, politica e dintorni on March 31, 2010
Lunedì sera alle 23.30 ho spento computer e televisione e mi sono infilata a letto con Mordechai Richler: le saghe israelo-palestinesi sono quanto di meglio per ricordare che c’è sempre qualcuno cui va peggio di noi.
Martedì mattina, ancora sotto le lenzuola, ho controllato le percentuali della disfatta – inspiegabile come la Bonino abbia preso meno voti di quella coatta da grande fratello; diciamo comunque che l’uscita a gamba tesa dell’Onorevole Bagnasco deve avere qualcosa a che fare con questo mistero – e poi mi sono infilata in redazione dove per almeno due ore ho evitato qualsiasi contatto con siti di informazione e quotidiani. Infine, mi sono convinta a volermi abbastanza male da prendere in mano il Corsera: in una giornata così, tanto vale fustigarsi anche con la linea editoriale di De Bortoli.
Ho rimuginato, rimuginato, rimuginato; evitato Facebook e similia; tenuto la bocca chiusa nella maggior parte dei dibattiti tra colleghi.
Infine, dopo tanto pensare, di fronte ai miei occhi si è materializzato chiarissimo il quadro della situazione. Eccomi, quindi.
Punto numero uno: non parlerò della destra. Nessuna citazione a Silvio Berlusconi, Umberto Bossi, il di lui figlio, il mangiatore di asini Ignazio La Russa, il soldato della Padania Cota, quellachepotevafarelastardelGF Renata Polverini eccetera eccetera. Parlerò di noi; anzi, di loro: della sinistra (!).
Punto due: parlerò della sinistra, non del centro sinistra. Perché, parafrasando Moretti, le parole sono importanti e l’abitudine mentale a pensare in termini di cento sinistra è tra responsabili del danno: a noi interessa la Sinistra, non il centro, non la destra transfuga a sinistra, non i clericali vestiti ora da moderati, ora da verdi, ora da mascelloni. Io-sono-di-Sinistra, punto.
Terzo: parlerò della Sinistra come partito, come identità politica, come organismo sancito dalla costituzione nella sua natura di partito organizzato, e che per questo risponde a criteri, obblighi, doveri, statuti, regolamenti, e non a eccitazioni individuali e mal di pancia e voglia di gridare e incazzature di sorta e progetti mai acclarati e compagnia cantante.
Parliamo, dunque. Parliamo del Partito Democratico, infelice eredità del glorioso ancorché fallimentare Pci, mutazione transgenica avvenuta col filtro del moderatismo e del progressismo e del dialoghismo e del buonismo e, soprattutto, dell’incapacità di dire le cose come stanno per paura di essere troppo di sinistra (di cui l’allargamento al centro). Questa è la storia degli ultimi anni, la storia di una diluizione progressiva, che ha reso quelli che oggi si chiamano democratici sul modello americano un partito con poca anima (togliergliela del tutto sarebbe ingiusto e e li metterebbe a livello di Berlusconi e soci: un paragone che francamente non meritano) e scarsissima capacità di capire e ascoltare la gente, a parte le comparsate di Bersani fuori dai cancelli di Mirafiori, fuori tempo massimo visto che fra due anni nemmeno esisterà più. Un partito così teso nello sforzo di apparire moderato che ha smesso proprio di apparire; così progressista e largo nei propri obiettivi da essere incapace di inquadrarne uno concreto (a parte quello di far fuori Berlusconi, cosa che peraltro a queste condizioni non gli riuscirà mai); così rispettoso della Res Publica e delle sue istituzioni da non riuscire a distinguere quando le istituzioni mancano di rispetto a noi. Un partito addormentato, che reagisce poco e reagisce tardi. Un partito la cui unica mossa chiara di recente è stata provare a far fuori Nichi Vendola: e per fortuna che Vendola è più sveglio di loro e ne ha fatti secchi lui un paio.
Poi guardiamo i risultati elettorali e vediamo chi, nella galassia dell’opposizione, è venuto fuori bene da questa tornata. Il buon Vendola, appunto, che mi fregio di additare come speranza della sinistra da anni ormai. Antonio Di Pietro e i suoi. Grillo e i grillini.
La lezione è così chiara che non c’è quasi bisogno di tirare le fila. Ma facciamolo comunque.
1) Gli elettori vogliono messaggi chiari, semplici e che sentano propri e importanti (peraltro il modello della Lega). Vendola ha vinto il secondo mandato in Puglia, andando contro l’apparato e nonostante inchieste e scandali che hanno travolto molti intorno a lui, con la capacità di dire cose elementari ed enormemente di sinistra (a me sembrano di buon senso, ma generalmente vengono ricondotte a sinistra). Per esempio: l’acqua è un bene di tutti e non si paga. Il nucleare è pericoloso e finché non sappiamo come smaltire le scorie non costruiamo centrali a casa nostra. Patti con delinquenti non ne faccio.
Sembrano cose strane? No, eppure avete sentito Bersani dirlo di recente? (O anche non di recente). Quanto ci vuole a dire che privatizzare l’acqua è inammissibile? Ci vuole il coraggio di ricordarsi chi siamo e cosa crediamo e qual è lo spirito della sinistra: evidentemente la nomenklatura del PD non ha il coraggio di affermarlo.
2) Messaggi chiari (magari non nella forma lessicale, ma tant’è) sono quelli che manda Di Pietro, un altro il cui partito è in crescita netta. E quelli che grida Grillo ansimando durante i suoi spettacoli e nelle piazze. Sono tutti da condividere? No, io molti di quelli di Grillo non li condivido affatto. Mancano di sostanza e chiarezza, sono spesso poco più che mere enunciazioni di sogni. Eppure evidentemente la gente ha bisogno anche di sogni con cui vivere: un mondo più verde, energie rinnovabili, città cablate, benzina che costa il giusto. Quant’è che il PD (o i Ds prima, e prima il Pds) non regala un sogno?
A me anni.
3) Cos’hanno in comune i Grillini, l’IDV, la Lega e Sinistra e Libertà? Un leader forte, chiaro e riconoscibile. C’è un altro modo per spiegare come Vendola, giovane (specie al suo primo mandato), omosessuale e di fede postcomunista abbia potuto vincere in Meridione per due mandati di fila?
Quindi, lezioncina. La Sinistra, per tornare a essere tale, ha bisogno di: trovare un leader che lo sia davvero (continuo a suggerire il nome di Nichi); trovare il coraggio di fare un programma che si basi su valori chiari e condivisi e condivisibili; smettere di provare a impallinare l’avversario sentendosi a lui superiore, ma iniziando a impallinarlo con progetti, proposte e discorsi che gli rispondano in modo chiaro e netto; ritrovare l’orgoglio di essere sinistra.
A quel punto, se mai arriverà, avrà di nuovo il mio voto.
Usa, ’96-2010
Posted by gea in personaggi, politica e dintorni, viaggi on March 22, 2010
Nel giugno 1996 avevo 16 anni e quattro mesi, un caschetto di capelli biondissimi e un paio di enormi valigie da portare con me dall’altra parte del mondo. Parecchie settimane prima, sull’onda di un entusiasmo mai intaccato dalla razionalità, avevo superato le selezioni per un programma di studio negli Stati Uniti: 14 mesi di permanenza e il quarto anno di liceo da terminare lì.
Mentre raccoglievo peluche, scrivevo biglietti agli amici e confezionavo cassette da ascoltare durante il Grande Volo (l’espressione era presa in prestito al più noto romanzo di Enrico Brizzi, uscito l’anno precedente, una sorta di manifesto generazionale per quelli della mia età), mi figuravo e raccontavo la cosa a tutti con le aspettative e la gioia dei pellegrini dei Mayflower; d’altra parte per me allora gli States erano Beverly Hills 90210, la possibilità di guidare la macchina, le palme di Rodeo Drive, il rock ‘n’roll e il rock duro e puro, le spiagge infinite della California, i pancake a colazione e la libertà di appoggiare lo sguardo in qualsiasi punto senza avere nulla a nascondere la linea dell’orizzonte.
Ricordo come fosse ieri il giorno della partenza: un aereo della TWA diretto ad Atlanta era saltato in aria soltanto il giorno prima e mia madre a Malpensa piangeva lacrime incontrollabili. Non era il pericolo che l’aereo esplodesse a preoccuparla, ovviamente, ma questo lo avrei capito soltanto molto dopo. Io, invece, non stavo nella pelle: avevo fretta di salutare i miei e imbarcarmi per quello che sentivo come il primo momento infinitamente grande della mia vita: e su questo, almeno, non sbagliavo.
New York alle sei del pomeriggio era avvolta in un’afa umida e un po’ puzzolente: i giorni dell’ecosensibilità dovevano ancora arrivare e fuori dal Jfk orde di pakistani sgasavano sulle loro Mercedes gialle anni ’80 forti della benzina a 70 centesimi al gallone. Mi guardavo intorno, frastornata dai rumori e dalla luce di un tramonto che si rifletteva sui grattacieli di Downtown, e mi sembrava di galleggiare nell’aria, con lo stordimento misto a compiacimento e quell’euforia che mi faceva sentire improvvisamente adulta e in possesso dell’intero mondo.
Il mio innamoramento per gli States durò l’intera estate, passata a scorazzare sui prati di Yale e nel Greenwich Village, in giro per Brooklyn sui rollerblade comprati per sentirmi subito una di loro (insieme alle magliette indossate inside-out, alla rovescia, come ogni teenager a stelle e strisce che si rispetti), tra le spiagge chilometriche di Long Island e nei fast food a rimpilzarmi di schifezze: allora Mc Donald’s aveva ancora un che di esotico per noi italiani di provincia.
Il mio primo impatto con le stranezze americane si consumò ad agosto, poco prima dell’ingresso nella nuova scuola: a una grigliata di amici addentando un hamburger strafarcito di grassi mi si ruppe un dente. L’intervento del dentista, della durata di un’ora al massimo, mi costò 600 dollari tondi tondi. Una certa sommetta, specie quindici anni fa. Faxai la parcella a casa, insieme alla richiesta di rimpinguarmi il conto in banca, e me ne dimenticai di lì a poco.
Ma l’idillio stava per incrinarsi: i primi di settembre un amico dall’Italia mi inviò un poster di Che Guevara, con dietro una lunga lettera. Lo attaccai commossa nella camera in cui alloggiavo, presso una famiglia di riccastri newyorkesi; dopo due settimane mi sbatterono fuori con l’accusa di fare politica in casa loro. Non sapevo, e con l’ingenuità dei sedici anni anche se lo avessi saputo non avrei saputo come interpretarlo, che lui era una prima linea del partito Repubblicano locale, e che Che Guevara per loro rappresentava un’ossessione comunista più o meno come i giudici oggi per Berlusconi. Fui trasferita, come la merce pericolosa, a qualche centinaia di chilometri di distanza, nel gelo siberiano di Washington D.C. Ad accogliermi una nuova famiglia, questa volta composta praticamente da due ragazzini: Mike aveva 35 anni, era un maggiore riservista dell’esercito e lavorava al NSA (National Security Agency), per cui ogni volta che parlavo al telefono con i miei lamentandomi di qualche cosa mia madre mi ammoniva preoccupata: “Non dire niente, che quello di sicuro ti capisce”; Mel aveva 29 anni, pesava duecento chili, etto più etto meno, aveva un passato nell’esercito e si occupava di spostar tir contenenti non so che lungo le highways americane. Brooke completava il quadretto: due anni e mai una parola spiccicata fino ad allora e in tutto l’anno della mia presenza.
Mel e Mike venivano dal Mississipi ed erano di colore; credo che all’epoca, nella Chiavari bene in cui ero cresciuta, non esistessero famiglie di immigrati. Il fatto di avere la pelle di un colore diverso era strano più per loro che per me: io la vivevo come un qualcosa di esotico, mi nutrivo di musica soul (l’unica che ascoltassero, con una sorta di rigetto per tutto ciò che non fosse colored), ascoltavo i loro racconti su posti lontani e poverissimi e sull’esercito in cui entrambi si erano arruolati per poter studiare; loro mi vedevano come la figlia bene dell’alta borghesia italiana, una che di certo non poteva capire cosa significasse nascere neri nel Mississipi degli anni 60.
Avevano ragione, ovviamente, anche se rischiavano spesso di sconfinare in un razzismo al contrario. Ma a vivere con loro, che comunque erano benestanti e giovani e divertenti, imparai più cose sull’America che andando a scuola, dove seguivo corsi ridicoli prendendo sempre il massimo dei voti (nota di colore: il mio primo tema, un commento a Medea, la tragedia, prese il voto più alto di tutta la scuola. Lo portarono in giro di classe in classe, trattandomi come il genio italiano; in realtà credo fosse in un inglese stentato e probabilmente sgrammatico: evidentemente però meno sgrammaticato di quello dei miei compagni). Viaggiammo in lungo e in largo: Georgia, Mississipi, Missouri, South Carolina, North Carolina, California, Illinois e via discorrendo. Spesso ci scontravamo – Mel era lunatica e scostante, probabilmente un po’ gelosa di una ragazzina nel fiore dell’adolescenza vicino al marito – ma discutevamo anche tanto di cose importanti, come la politica e la loro devozione all’esercito. Entrambi votavano per i Repubblicani (nel ’97 Clinton vinse il suo secondo mandato alla Casa Bianca), e il perché non mi fu mai chiaro, considerata la loro storia personale.
Ho parlato con loro per l’ultima volta dopo l’11 Settembre. Poi, per via del mio vagabondare e del passare degli anni, ci siamo persi di vista. Ma sono certa, assolutamente sicura al mille per cento, che entrambi abbiamo votato per Obama nel novembre 2008. E sono ancora più sicura che l’abbiano vissuta come una rivincita personale, come un sogno diventato realtà, esattamente come profetizzato dal Dottor King. Non potrebbe che essere così: io stessa, bianca con a cuore la storia, l’ho vissuta in quella maniera. Obama ha lo stesso carisma e la stessa struggente umanità di Martin Luther King, la capacità visionaria, la consapevolezza di ciò che la politica è e può fare: cambiare le sorti del mondo. Lo ha dimostrato oggi, con l’approvazione della riforma sanitaria, una scommessa vinta con la capacità di schiantare decenni di stereotipi e ingiustizie e lobbismo sulla pelle della gente.
Gli estemisti di destra definiscono Obama un socialista; pensando ai nostri socialisti mi sembra un insulto molto peggio di quello che vorrebbero, ma loro di certo non capirebbero perché.
Incidentalmente
Posted by gea in personaggi, politica e dintorni on February 11, 2010
La commissione di vigilanza Rai – organismo di controllo di complessa composizione, arzigogolate competenze e dubbia indipendenza – vuole fermare le trasmissioni dove si parla di politica un mese prima delle regionali, in virtù della par condicio.
Anche ammesso che la scelta possa avere un fondamento, e personalmente non lo credo, mi resta sulla punta della lingua una domanda. Cosa ne sarà invece delle decine di programmi pomeridiani, quelli di Barbara D’Urso e compagnia cantante, che sotto le vesti di ipertrofici contenitori diffondono con espedienti da melodramma messaggi politici estremamente netti ma mai dichiarati?
Per esempio, mi è capitato un pomeriggio, mentre in Parlamento infuriava la discussione sul processo breve, di assistere a un pezzetto di trasmissione su canale 5: un padre in lacrime raccontava come 15 anni dopo l’omicidio della figlia ancora non ci fosse stata una sentenza di condanna e la D’Urso, prodigio di plastica e sorrisi, con gli occhi lucidi si rivolgeva alla platea: “Avete capito? Qui la politica non c’entra, è la storia di una famiglia distrutta, avranno o no diritto questi genitori ad avere giustizia in tempi brevi?”.
(qui una rassegna di alcuni pregevoli estratti di Pomeriggio 5: la D’Urso e Luxuria, la D’Urso e Corona, la D’Urso e lo stalking. Sempre perché la politica non c’entra).
Aggiornamenti
Posted by gea in personaggi on January 28, 2010
1. Nelle ultime settimane sto andando in giro a intervistare alcuni dei valorosi che rappresenteranno l’Italia all’Olimpiade di Vancouver, il mese prossimo. Trattandosi di sport invernali, si parla per lo più di gente abituata a metri di neve e temperature simil-artiche, residente in paesini arroccati su picchi dolomitici, con strade non mappate dai navigatori satellitari e tornanti che ti strizzano lo stomaco. La scena è più o meno questa: mi sveglio alle cinque e mezza, mi infilo uno strato sopra l’altro tutto l’abbigliamento tecnico che possiedo, butto in borsa un TomTom ricevuto in prestito dal fratello maggiore risalente al 2005 e mai più aggiornato, prego silenziosamente che la macchina non mi molli a metà. Mentre mi sparo 400 chilometri di cui i primi 200 ancora al buio, rimpiango i servizi patinati in centro a Milano e mi consolo con l’idea di scoprire storie spesso più affascinanti di quelle degli stranoti da prime pagine con casa in quartiere San Siro. Ancora di più, con quella dello strudel caldo e cioccolata che servono generosamente nelle baite della zona.
In tarda mattinata il quadro muta così: verdiccia per la nausea, con gli occhi a mezz’asta, con la schiena e le ascelle umidicce per il riscaldamento impostato a 28 gradi, sono piantata nel mezzo di una strada ghiacciata che sale ininterrotta da mezz’ora, ho l’esatta percezione che sono nel posto sbagliato e in un ritardo tremendo e grido contro il dannato navigatore che ripete da dieci minuti come un disco rotto “Al-la roton-da te-ne-te la des-tra e prende-te la pri-ma usci-ta”.
Il piano B prevede raggiungere un centro abitato e chiedere informazioni. Ed è lì che, come un’epifania, divento improvvisamente consapevole della ridicolaggine di me stessa, Bridget Jones de noantri, sfortunatamente non dilaniata dal dilemma tra Hugh Grant e quell’altro giovinotto ben piazzato con il maglione con le renne. Davanti a una scuola elementare accosto la mia macchinina e scendo con la sciarpa che striscia a terra, la borsa firmata tremendamente fuori luogo, un cappello rubato a mio nipotino calcato sulla testa, gli occhiali da sole appannati per lo sbalzo termico. Mi avvicino a un indigeno e chiedo “Scusi, per Melette?” (anzi: per mèlèttè?). Questo mi guarda torvo e risponde in una lingua creola tra l’italiano, il tetesco e il dialetto. Ci vogliono almeno 3 minuti prima che lui finisca di spiegarmi, io risalga in macchina con una crisi di risarella che preme nella pancia, estragga l’iPhone e chiami il fotografo: “Scusa, mi ripeti dov’è il posto? Perché l’ho chiesto a un tizio ma mi veniva così da ridere che non riuscivo ad ascoltare”.
2. Parlando di cose serie. Dopo la figura di legno di Bologna – il sindaco Delbono costretto a dimettersi per presunte truffe (seppur di poco conto) ai danni dei contribuenti – e della Puglia – Vendola che seppellisce di voti il suo sfidante alle primarie – come fa un elettore del PD ad ascoltarli ancora? Con che faccia D’Alema e Bersani vanno in televisione? Non so, ma io nei loro panni penserei a un piano B.
3. Ancora più serie. Guido Bertolaso critica gli americani per la gestione di Haiti, facendo scoppiare un caso internazionale (e sfiorando il rischio di doversi dimettere). Ovviamente lo fa a pieno titolo: dall’Italia, la regione Lombardia e la città di Brescia hanno già mandato una dozzina di vigili urbani e una cinquantina di coperte. Questione di superiorità. A prescindere, direbbe Totò.
4. Infine. Ho iniziato il corso di francese cui accennavo a dicembre. Mettersi a litigare con le coniugazioni dei verbi a trent’anni fa sentire un po’ ridicoli. Ma dà anche grossa soddisfazione.
5. Ah, dimenticavo. Steve Jobs ha presentato la sua ultima meraviglia, l’iPad (il mondo trema nell’attesa del giorno in cui avrà finito le parole che iniziano per P e per M). Detto da una Apple-addicted, sembra un oggetto un po’ deludente. Con ogni probabilità, fra sei mesi ne avrò uno.