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Questa notte è per voi

Domani, finalmente, apriamo le iscrizioni a FreeJourn. Domani, in questo momento della serata, appare ancora discretamente lontano: mi candido a infilare la seconda notte di fila davanti al computer, dopo il secondo giorno incollata al telefono, a basecamp, a documenti da ricostruire, tradurre, emendare.
Pensavo che avrei avuto un cedimento invece, finora, è stato divertente: intenso, stressante, consumante, ma divertente. Ho trascorso gli ultimi giorni con il mac su un tavolino in terrazza, il sole a squagliarmi di giorno e i moscerini a ronzare la sera, parecchie birre e pizze surgelate, Giuliana e Niccolo a guardare le immagini, video da 10 giga da scaricare e foto da scoprire, molti spaventi, qualche insoddisfazione, la paura di non farcela.  
Potrebbe succedere: FreeJourn* è una bella idea che potrebbe andare benissimo ma anche fallire miseramente, perché i soldi, la partecipazione e l’editoria sono al momento tre variabili di un’equazione insoluta. Lo sapevo anche quando ho iniziato a lavorarci sopra e coi mesi mi è stato sempre più chiaro: oggi ne sono consapevole col disincanto di chi ha cresciuto quasi un figlio, ma poi deve accettare che a scuola conosca una gang di teppisti e se ne lasci affascinare. Forse, d’altronde, me ne farei affascinare anche io.
In fin dei conti non conta poi molto. L’importante è quello che ha dato, e cioè il processo della creazione: sembra una frase da TedX di provincia, ma non sempre si è abbastanza bravi con le parole per condensare adeguatamente la carica emozionale che vorresti metterci dentro. 
Ho smesso di credere nel giornalismo da parecchio. Forse quando lasciai la guida di Lettera43, forse molto prima.  Già: esiste qualcosa di peggio di una giornalista che dice qualcosa del genere? Magari mi radieranno dall’ordine, magari mi taglieranno le collaborazioni: sarebbe una bella prova di certe dinamiche e cointeressenze, quindi non credo che succederà. D’altronde non è che non creda al giornalismo come istituzione: figuriamoci, penso di essere una dei cento in Italia a pagare ancora una serie di abbonamenti a riviste anglosassoni. E non è nemmeno che per fare i giornalisti si debba stare per forza in un Paese anglofono – anche se, detto onestamente, credo che aiuti parecchio.
Quello che mi ha stancato è la pratica del giornalismo. Le redazioni chiuse in loro stesse, forzate alla scrivania dal conto economico, costrette al realismo, ai social network, all’innovazione, alle agenzie, all’essere sempre più brillanti, in spazi sempre più stretti («Due scroll! Tre al massimo: ragazzi, nessuno va oltre il terzo scroll, non dobbiamo fargli fare fatica!»), a trasformare qualsiasi tendenza giovanilistica in discorso sociologico, coi capiredattori a fare da risorse umane e i redattori a fare tutto il resto. Certo, non è detto che sia sempre così, eppure di redazioni ne ho frequentate abbastanza per sapere che è un male diffuso.
Forse è colpa – merito? –  di chi mi ha avvicinato al mestiere, forse dei libri che ho letto e di certe idee di ragazzina che a 37 anni ha scoperto di avere un’allergia alle gerarchie e alle sclerotizzazioni che comportano. Ma quello che cerco nelle cose che leggo è una dimensione più intensa, dilatata, anche creativa: sono sempre stata una da racconto lungo, molto prima che long form diventasse una parola di moda. Le cose che mi piacciono non ci stanno in due pagine e spesso nemmeno in sette, di solito oggi diventano video che guardi in cinque minuti senza la fatica di dovertele immaginare mettendo insieme gli elementi. A me piacciono soprattutto quando sono libri, tipo i David Foster Wallace e gli Hunter S. Thompson e i Lester Bangs, che ovviamente non sono esempi facili ma anche oggi c’è chi ha le idee e sa come realizzare, e mi vengono in mente i River Boom, tra molti (sì, sono anche miei amici, il che peraltro mi fa ancora più contenta nel dire che siano geniali).
Forse sono all’antica, di un tempo e di un modo che nella pratica del giornalismo non esistono più e non hanno più nemmeno ragione di esistere: il reportage, le venti pagine di intervista, l’inchiesta che non devi memorizzare 60 nomi in 30 righe, ma in cui li conosci pian piano, entri dentro alla loro vita e alle loro pratiche.
Forse invece banalmente in me la parte giornalistica in senso ortodosso, che a molti dà grandi soddisfazioni e che qualcuno fa molto bene, si è diluita in una cosa più autoriale, che con le notizie si sovrappone solo in minima parte: e so bene che le notizie sono l’essenza del giornalismo (poi, ovviamente, bisognerebbe intendersi sul concetto di notizia e anche di come si informano le persone, ma questo comporterebbe aprire un altro discorso ancora).  
Tutto questo per dire che FreeJourn, pur con qualche limite e gli errori che certamente abbiamo fatto e che faremo ancora, pur col rischio che domani al sign up non tengano i server o chissà che, è stato anche un modo bello di ritrovare l’entusiasmo: dopo Mi fido di te e prima di Godstock (teaser: se davvero andasse bene, Gabri e io ci metteremo un paio di anni a scodellarvelo, temo), trasversale ai miei interessi e alle opportunità. Ci ha lavorato un gruppetto di persone assortito, e tutte hanno dato un contributo essenziale; c’ho trovato dentro il piacere di una squadra fortissimi, un’amica, l’abbattimento di certi pregiudizi, il piacere di chi ha voglia di buttarsi in qualcosa, l’importanza dell’equilibrio. 
Questa notte, insomma, va così.
E se siete giornalisti freelance, buonanotte, questa notte è per voi. 

[* FreeJourn è una piattaforma per reporter freelance, essenzialmente, ma se lo volete scoprire con calma ci sono il blog, i social e fra pochissimo anche i moduli online per iscriversi].  

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Pezzi

Mi son svegliata e pioveva. Diluviava, anzi: a scrosci che nemmeno in novembre. Ho guardato ipnotizzata fuori dalla finestra per due minuti, poi ho deciso di chiamare un taxi. Un taxi a Bologna, io, arrivata lì a parlare di condivisione e carsharing e compagnia bella. D’altronde diluviava anche la sera prima, quindi all’ultimo abbiamo fatto saltare la presentazione e ce ne siamo andati in un’osteria minuscola in via De Coltelli a mangiare – ed era una specie di ritorno al futuro, perché con Lori e Max lì non c’ero mai stata, ai tempi anzi il posto non esisteva nemmeno, e noi avevamo 15 anni di più dell’ultima volta che eravamo stati insieme a cena, e parlavamo di lavoro, figli e compromissione con la politica al posto che di esami, fattanza e feste. Eravamo gli stessi, ma diversi: l’avranno sperimentato tutti almeno una volta nella vita, però mi ha fatto stare bene.
Comunque – dicevo – scrosciava acqua e ho preso in mano il telefono per chiamare un taxi che mi portasse in stazione, sentendomi per un istante irrimediabilmente adulta, borghese e insofferente, come in un fotogramma in bianco e nero alla Godard. D’altronde volevo arrivare a Milano in fretta, ché a furia di andare e venire su e giù per l’Italia, dormendo qua e là, mi si sta consumando la pelle. E poi c’è da capire dove va la vita, mentre io giro a presentare il libro. E c’è il trasloco da finire.
Trasloco, sì, ed è di questo che avevo in mente di scrivere prima che le parole mi scappassero sulla tastiera. Sono arrivata in questa casa nell’agosto del 2008: io e Marco ci eravamo appena lasciati, avevo appena iniziato a lavorare a Sportweek, sapevo che stava iniziando una nuova era. Nei 14 mesi precedenti avevo cambiato cinque case diverse, restando sei mesi in quella più longeva e meno di uno nell’ultima. Traversìe della vita. Quando entrai in via Vigevano, dissi che per almeno cinque anni non mi sarei mossa: questo almeno l’ho rispettato.
Me ne vado otto anni e almeno un paio di vite  dopo. I primi due anni qui sono stati ruggenti: ne avevo 28 e dormivo mai più di cinque ore a notte, uscivo quasi ogni sera, ingerivo una quantità di alcolici che oggi mi metterebbero ko dopo due settimane, riuscivo ad andare a correre anche dopo una sbronza colossale, lavoravo come una matta e tutto sembrava bellissimo. Forse sono stati i due anni più spensierati della mia vita adulta, a pensarci bene. Una sensazione di leggerezza irripetibile.
Poi sono entrata a Lettera43 e tutto è cambiato. Di colpo non avevo più tempo nemmeno per andare a correre, e se dormivo 5 ore era perché avevo finito di lavorare di notte e mi svegliavo all’alba per aprire il giornale. Ciononostante, per un anno circa anche quello è stato bellissimo: un insieme di emozioni travolgenti. Facevo il mestiere che volevo fare, nel modo in cui volevo, in un posto che aveva e mi dava molte opportunità; frequentavo discorsi che fino a quel momento avevo solo sfiorato, uscivo con i colleghi di notte e mi sembrava di essere vicina alla realizzazione totale: una sensazione di potenza forse anch’essa mai più provata.
Poi l’equilibrio si è rotto, per mille ragioni che non vale la pena di elencare. Tutto ha iniziato a sfarinarsi, anche se ci sono voluti altri tre anni perché la palla di neve diventasse valanga e trovassi la forza di saltar fuori dal cerchio. Sono stati tre anni altalenanti, di profonda infelicità e normale serenità, alternate in modo imprevedibile. In me qualcosa è cambiato in modo irreversibile, come se avessi perso la spensieratezza della gioventù e mi fossi infine addentrata nei meandri labirintici dell’età adulta – forse lo dico in modo troppo romantico, può essere, magari è un passaggio obbligato: però fino a quel momento mi ero sentita come invincibile, capace di qualsiasi cosa, e invece mi scoprivo tremendamente vulnerabile e ingabbiata in una realtà più forte di me. La casa, in tutti quei momenti, è stata una costante: è stato il posto che ho sentito più mio in tutta la vita (nonché quello in cui ho vissuto continuativamente più a lungo, se si esclude la casa dei miei fino all’adolescenza, quando son partita per l’America).
Il resto è storia recente: le dimissioni dal giornale, i giri intorno al mondo, la pubblicazione del libro, la promozione associata.
Non me l’aspettavo così: forse perché non mi aspettavo nulla. Non ero mai stata in uno studio tv e non avevo mai parlato alla radio; non sapevo come può essere assurdo restare davanti alla telecamera in attesa che ti diano la parola, annotandoti le cose da dire: poi quando infine tocca a te hai un minuto netto, non puoi dire davvero nulla di sensato in quel tempo lì, e finisci col sentirti un po’ una scimmietta ammaestrata che fa il suo numero. Un numero necessario, lo so: se vuoi scrivere libri li devi anche vendere. Io non so se ne scriverò altri – non so assolutamente nulla del futuro, in questo momento – ma so che intanto questo lo devo promuovere per convincere la gente che vale la pena di leggerlo.
Nel frattempo è successo che ho dovuto decidermi a lasciare questa casa, e siccome non l’avrei mai fatto probabilmente da sola ci si è messo il caso, l’invasione dei bed bugs, la disinfestazione, la successiva discussione con la padrona, un senso di sfinimento per le cose e le persone che non cambiano mai. Ho disdetto il contratto e per sei mesi starò in un appartamento qui vicino: sei mesi soli, sì, proprio perché del futuro non si sa nulla.
Mentre accatasto la roba un po’ mi pento: il trasloco è una fatica immane. Fisica ed emotiva. Ci sono troppe cose da gestire, in un momento in cui gestisco a malapena me stessa. Un po’ è come se ricominciassi tutto da capo: devi ridare un senso ai tuoi spazi e trovare una nuova routine, abituarti a una nuova realtà anche fisica: i vicini, il cortile, il parcheggio del motorino. Mi capita di chiedermi se ha senso farlo per soli sei mesi, ma è una domanda sciocca, perché nella mia vita le cose procedono sempre così, per parentesi e accelerazioni improvvise. Si vede che doveva succedere.
Non sapere cosa c’è dietro l’angolo ha un suo fascino, anche se in fondo – ancorché impercettibile ai più – io sono una che ha bisogno di rassicurazioni. Invece si chiude un’epoca, e la casa piena di scatoloni ne è il segno tangibile. Mi verrebbe la malinconia, ma sono un’ottimista in definitiva. Penso che qui dentro verrà a starci una ragazzina di 20 anni alla sua prima esperienza di vita da sola, e intuisco quanto potrà essere felice di un posto suo, in anni stupendi, senza veri obblighi che non siano gli esami dell’università. E la casa che adesso mi immalinconisce riacquista il suo senso: un senso quasi ontologico, di rifugio, mondo segreto, pietra angolare di avventure ed esperienze. Così è giusto liberarla per lei.

[Poi d’improvviso tutti gli anni per terra
come i capelli dal barbiere
Come la vita che non risponde
e il tempo fa il suo dovere
Soundtrack Parole a memoria]

 

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Patagonia Dispacci #3

Di che religione siete?
Stamattina non sono di nessuna religione. Il mio Dio è il Dio dei viandanti. Se si cammina con abbastanza energia, probabilmente non si ha bisogno di nessun altro Dio.

(Bruce Chatwin, In Patagonia)

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Riverboom

Chi non nutre il cervello ingrassa di noia.
Visit Riverboom.

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Requiem

Per anni ho messo in valigia un libro di Tabucchi in ogni mio viaggio: si trattasse di andare dai miei al mare o dall’altra parte del mondo.
Lo scoprì in Spagna, che ero già grande e lui famoso. Con il naso nelle sue pagine, da cui non riuscivo ad alzarmi per ore intere, capì cosa voleva dire raccontare i turbamenti dell’animo e della vita con colori, atmosfere, profumi, sapori, città, fantasmi.
Le parole non erano mai troppe; i luoghi non erano mai abbastanza.
Mi insegnò ad amare il Portogallo e Pessoa, dei cui segni andai in cerca con una combriccola sgangherata di amici appena ventenne. Mi insegnò che si potevano costruire interi mondi, giocando con le parole. Mi insegnò che in un libro poteva esserci tutto quello che avevo cercato senza riuscire a trovarlo altrimenti.
Mi innamorai di Tabucchi come ci si innamora di un fidanzato. Lessi tutto quello che aveva scritto nell’arco di un mese. E poi aspettai, con pazienza, articoli, nuove uscite, riedizioni.
Tabucchi è morto ed è la prima volta che muore uno scrittore e mi sento orfana di qualcosa. Di ingiustizie è pieno il mondo e la vita, ma sapere che non scriverà più nulla è un’ingiustizia in più.

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Sulla strada per Londra

La letteratura – ha detto un poeta – è la dimostrazione che la vita non basta. Perché la letteratura è una forma di conoscenza in più. Molte cose ci possono bastare, e devono bastare, nella vita: l’amore, il lavoro, i soldi. Ma la voglia di conoscere non basta mai credo. Se uno ha voglia di conoscere, almeno.
Antonio Tabucchi, Viaggi e altri viaggi.

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when will those dark clouds disappear?

Mick e Keith si fanno i dispetti. Un po’ come due vecchi amanti.
Noi avevamo Sandra e Raimondo, l’Inghilterra ha gli Stones.
«So those two things I think, are important. Our bond; his talent. We blink at that point, and go 40 years forward, and he has written a book that says, essentially, that I have a small dick. That I am a bad friend. That I am unknowable».

(riassunto della vicenda per i non aglofoni: Jagger recapita alla redazione di Slate una copia commentata della biografia appena data alle stampe da Richards. Il tutto è esilarante, la cosa migliore che abbia letto nell’ultimo mese. Intendo la bio. E il suo commento).

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se questo è cibo

Partiamo da un assunto: per alcune cose io sono una persona estremamente razionale, con i piedi ben piantati a terra e poco incline al romanticismo. Vivo in una grande città che mi sembra piccola, prendo più aerei che autobus, detesto la montagna senza la neve e qualsiasi posto collocato a più di 50 metri sul livello del mare;  il mio rapporto con la natura si limita sostanzialmente all’acqua, l’unico elemento che davvero mi riporta alla bellezza primordiale (la pianura mi aggrada, ma l’horror vacui mi assale dopo poche ore).
Per concludere lo spregevole quadro di me stessa, aggiungo che non ho praticamente alcun rapporto con animali né li amo particolarmente; nutro simpatia per i cani ma non abbastanza da prendermene in casa uno e fatico a credere alle storie di improvvisi colpi di fulmini tra uomini e bestie – anche se mia madre, che la pensava come me, si innamorò dall’oggi al domani di quelli che sarebbero diventati i suoi cani. Ma dubito fortemente che la storia possa ripetersi (un miracolato in famiglia è più che sufficiente, no?).
Chiarito questo, devo riconoscere che  il mio rapporto con gli animali – meglio, con la loro carne – vive una stagione difficile. Il colpo di grazia me l’ha inferto Eating animals (Se nulla importa), l’ultimo libro di Jonathan Safran Foer, giovanissimo maestro di lettere e fantasia, ma da tempo riflessioni e pensieri covavano sotto le ceneri. Il testo di Foer, vegeteriano non integralista, racconta con il consueto stile delicato ma estremamente immaginifico le sorti degli animali da allevamento. Non si dichiara contro il carnivorismo tout court, ma indaga i moderni sistemi di allevamento degli animali, le farm factory. Qui, per riassumere moltissimo – in rete si trovano tutte le informazioni possibili e immaginabili – volatili, maiali, mucche e tutti gli altri amici della fattoria sono allevati grazie a ritrovati scientifici e tecnologici con il solo obiettivo di crescere molto di più e molto più rapidamente di quanto la natura abbia previsto, così da rendere di più e costare di meno. Elencando alla rinfusa, Foer racconta di ormoni e antibiotici aggiunti ai loro mangimi, di sistemi di illuminazione a giorno che alterano la percezione temporale delle bestie (così le galline fanno uova costantemente), di migliaia di esemplari in poche decine di metri quadrati, di animali morti mescolati a quelli vivi, di bestie lasciate morire e marcire durante il trasporto, di selezione genetica delle specie finalizzata a ottenere unicamente animali più prolifici e resistenti a malanni e virus. Il tutto è estremamente documentato: il libro, frutto di anni di ricerche, ha un ricco appendice con tutti i trattati e le pubblicazioni scientifiche in materia, e Foer stesso si è intrufolato illegalmente in parecchi allevamenti per constatare di persona quello di cui andava narrando.
Accanto a questo aggiunge poi riflessioni sulla natura stessa dell’animale e della sua capacità di soffrire (anch’essa documentata da scienziati di ogni provenienza) e sull’opportunità dell’uomo di considerare alcuni animali come vicini e altri come totalmente estranei (nelle culture occidentali i cani sono più o meno sacri; in India lo stesso vale per le mucche), oltre a inquietanti considerazioni storico-scientifiche su come le moderne tecniche di allevamento siano corresponsabili per moltissime delle mortali forme virali recentemente presentatesi (l’H1N5, per dire) e di disagi quali asma, allergie e intolleranze sempre più comuni. Infine, Foer dà la parola ai detrattori della sua teoria, che spiegano in modo chiaro perché l’allevamento intensivo sia oggi il solo modo per rispondere all’esigenza proteica del mondo, a costi sostenibili per tutti.
Scelgo volontariamente di sorvolare sulla parte sentimentale della cosa – e non sempre senza fatica: alcune delle descrizioni della vita all’interno delle fattorie mi hanno fatto venire voglia di vomitare – e di concentrarmi unicamente su ciò che ha a che vedere con la salute e con l’etica. Perché devo ingollarmi chili di carne farcita di steroidi e antibiotici che indeboliscono il mio sistema immunitario con conseguenze che oggi non siamo nemmeno in grado di valutare? Perché buttare giù composti chimici, residui di animali inceneriti (quelli che muoiono e marciscono all’interno degli allevamenti vengono bruciati e riutilizzati nei mangimi degli altri) e una quantità di mix di farmaci probabilmente devastante? Perché farlo quando, oltretutto, la scienza, i medici e il santo Veronesi ripetono da anni che la carne rossa è potenzialmente cancerogena e andrebbe limitata al massimo? E ancora. Se è vero che gli animali soffrono e sono consapevoli della propria sorte, non è possibile anche che la loro stessa carne assorba il malessere cui la bestia è sottoposta nell’arco della breve vita? E poi: perché riempirmi di carne prodotta a centinaia di chilometri di distanza, alimentando un sistema perverso di trasporto merci, inquinamento ambientale, depauperazione del pianeta?
Una prima risposta a questa serie di domande potrebbe essere la scelta di consumare solo carne da allevamenti “tradizionali”, quelli per dire della bassa mantovana dove il maiale è sacro più o meno come le vacche nei pressi del Gange. Ma, a parte la difficoltà a reperirli in centro a Milano, o nei ristoranti in cui consumo il 97% dei miei pasti, Foer racconta anche di come spesso l’etichetta “bio” sia usata assolutamente a sproposito: per dirne una, la dicitura “allevate a terra”  sulla uova significa solo che la gallina ha avuto diritto magari a una gabbia di 30 per 50 centimetri che poggiava al suolo con una rete a maglie abbastanza larghe da consentire all’aria di circolare, al posto di un comodo loft a tenuta stagna da 20  per 20 centrimetri al decimo piano del condominio stile casermone popolare in cui sono allevate tutte le altre.
Una seconda risposta potrebbe essere smettere di mangiare carne e pesce, ma qui si apre un mondo. Tralasciando gli affettati, cui potrei rinunciare anche solo per la mia tendenza a ingrassare di cinque etti unicamente guardando una fetta di salame, eliminare frutti di mare  e pesce dalla dieta mi costerebbe uno sforzo immane: sono cresciuta in una famiglia in cui la domenica la mamma infilava le aragoste ancora vive nella pentola, e poi chiudeva la porta della cucina per non sentirle piangere (le aragoste piangono, lo sapete, no?). Oltretutto, come si rimpiazza la carne nell’alimentazione da bar quotidiana? Cosa si ordina in pausa pranzo? E la rustichella dell’autogrill alle cinque del mattino? Andando più a fondo, poi, c’è da chiedersi se smettere di mangiare carne non sovverta l’ordine naturale delle cose: non c’è dubbio sul fatto che ai primordi l’uomo fosse carnivoro, e che l’intero sistema sia stato studiato dalla natura o dal vecchio barbuto perché gli umani cacciassero le bestie, che a loro volta cacciavano altre bestie, che a loro volta cacciavano altre bestie e così via, garantendo con un equilibrio delicatissimo la sussistenza di tutti quanti.
Soprattutto, però, il problema che si pone è quello dell’onestà con se stessi. Sono una che vive attaccata all’iPhone, ho un modem wireless a cinque centimetri dal cuscino, guido una Ducati 600 il cui scarico non ha mai visto un filtro antiparticolato, compro vestiti firmati probabilmente prodotti in Cina, le mattine in cui la cervicale mi tormenta mando giù due Oki in un bicchiere d’acqua prima di fare colazione e due subito dopo, per non menzionare poi alcuni eccessi alcolici in cui mi capita di indugiare.
Come si concilia tutto questo con una posizione risoluta e convinta sul vegetarianesimo? Probabilmente non si concilia: o tutto o niente. Ma scegliere il tutto implica diventare un’altra persona, e optare per il niente significa tacere sussulti di coscienza sempre più insistenti.
E quindi?
Sono in attesa di una risposta, o di convincenti riflessioni altrui.
[Colonna sonora di tutti questi pensieri, e loro parte integrante: Mr Wendal, Arrested Develpment, 1992]

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you can feel it

Non ho mai creduto alla teoria secondo cui gli oggetti parlano. Che si tratti di un quadro, di un abito o di un libro, sono troppo pragmatica e amante del razionale per pensare che un campo bioenergetico si crei tra te e l’oggetto della contemplazione, intimandone l’acquisto, lo scorrere di lacrime, l’urgenza del possesso e varie ed eventuali. Semplicemente, direi, c’è un gusto del bello o una fascinazione per alcuni soggetti che tutti abbiamo a guidare le nostre scelte.

È seguendo questo criterio che qualche mese fa ho scrollato la polvere dalla copertina di un libro sepolto in una bancarella di Covent Garden, London town. Decine di microscopici puntini brillanti splendevano sulla cover bianca, e una sola scritta, pulita, recitava: A million little pieces. Bingo. Sul retro, un paio di commenti sbalorditivi del New Yorker e di Bret Easton Ellis avrebbero convinto ad acquistarlo anche un analfabeta.

Me lo sono portato a casa e ho aspettato qualche settimana prima di prenderlo in mano. La sera che è successo, però, non sono più stata in grado di mollarlo. Ero in partenza per la Germania, con un aereo alle 7 am: alle 4 stavo ancora leggendo sotto le coperte. Ho letto in aereo, rannicchiata vicino al finestrino, con qualche lacrima a scorrere furtiva. Ho letto dopo l’intervista, sul taxi, la sera in albergo, la mattina prima di ripartire. Ho letto, e mentre leggevo assorbivo per osmosi un modo di pensare e di essere forti e coraggiosi; un dolore che è rinascita; una rinascita che è paura.

James Frey usa pochissima punteggiatura. I suoi libri sono sussurri e grida; le parole si accavallano sulla pagina, si rincorrono, accelerano d’improvviso come un respiro affannoso. James Frey usa parole semplicissime per dire cose enormi, come la morte, l’amicizia e l’amore. James Frey, soprattutto, è quello che scrive: la storia che racconta – almeno in A million little pieces – è quella incredibile della sua vita.

Una vita che inizia a sfasciarsi a 13 anni con la dipendenza dagli alcolici e diventa dolore allo stato puro intorno ai 17, quando alcol, cocaina e crack prendono il sopravvento. Il libro è la storia di un recupero che inizia sfiorando la morte, e che la accarezza ancora molte e molte volte nel suo dipanarsi. È una storia che passa attraverso la galera, incontri importanti, un talento da scoprire, un istituto di riabilitazione, amici poco raccomandabili. È, infine, un percorso, in cui la traiettoria di James – protagonista nonché autore – finisce con il coincidere con quella di chi legge, in un equilibrio delicato di messaggi e attese. A patto di volerli o saperli cogliere.

Frey è stato per me lo stesso buco nero di emozioni che fu Tabucchi alla sua scoperta, moltissimi anni fa: il desiderio quasi morboso di nurtirmi di parole, di dischiudere l’anima, di cadere a ogni pagina e scoprire come rialzarsi a quella successiva. Frey mi ha dato alcune risposte, che forse erano lì da sempre, ma ancora non avevo afferrato. Insomma, mi ha parlato.

Non è stato sufficiente per cambiare la mia opinione circa il dialogo con gli oggetti, ma abbastanza per comprare a scatola chiusa qualsiasi cosa abbia scritto dopo. In aereo ieri ho finito My friend Leonard, proseguimento del primo.

Oggi mi sento a rota, orfana di qualcosa. Ma ricca, calma, distesa.

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1969/1972

C’è una parte della storia d’Italia da cui sono profondamente coinvolta; curiosamente, coincide con il periodo più nero della recente vita repubblicana.

Sono gli anni caldi che si aprono con la strage di Piazza Fontana – 12 dicembre 1969 – e si chiudono con l’omicidio Calabresi, 1972. È l’inizio di quel vortice che porterà agli anni di piombo; che apre lo stragismo di Stato e il peccato originario di questo Paese. Sono gli anni di una Milano che non ho visto, ma che immagino: una Milano solida, ancora non annacquata nella sua versione da bere, una Milano che confina con la Staliningrado d’Italia (Sesto San Giovanni, roccaforte del Pci e del movimento operaio), una Milano di tensioni politiche e rivoluzionarie. Sono gli anni, infine, in cui si consumano vicende dolorose, drammi individuali che diventano storia: Pinelli, Calabresi.

Il merito di avermi fatto scoprire il valore di quel momento e dei suoi protagonisti (che prima liquidavo con il verso di una canzone dei MCR che oggi non riesco più ad ascoltare: “Anarchici distratti che cadono giù dalle finestre”) è di Mario Calabresi, figlio del commissario assassinato e giornalista, che ha pubblicato il libro forse più toccante che abbia mai letto: Spingendo la notte più in là.

Con la forza e la dignità di chi vuole trasformare il dolore individuale in riflessione collettiva, Calabresi racconta del padre, di Pinelli, di entrambe le famiglie, dei rapporti che li legavano; racconta della sua vita e di quella dei due fratelli, rimasti orfani e con una madre appena 27enne: il più grande, Mario, aveva allora tre anni e l’ultimo ancora non era uscito dal calduccio del ventre materno.

Tratteggia, in modo caldo e sincero, mai volutamente o casualmente patetico, la storia del suo dramma familiare che si fa dramma di un Paese. È un libro che andrebbe letto nelle scuole, regalato ad amici e parenti, distribuito durante le manifestazioni; io ne ho acquistate un paio d’anni fa una dozzina di copie, e le ho donate a molte persone che desideravo lo leggessero.

La moglie di Pinelli, l’anarchico ingiustamente accusato della strage di piazza Fontana e morto in circostanze mai chiarite con un volo dalla stanza del commissariato dove era interrogato, non ha scritto nulla, ma non ha mai smesso di chiedere la verità. Nel 2009 il presidente Napolitano, con un gesto che restituisce dignità alle istituzioni, ha invitato sia lei che la moglie di Calabresi al Quirinale, e ha inserito Pinelli nell’elenco delle vittime di piazza Fontana. A 80 anni passati, Licia Pinelli rilascia poche interviste in occasione della ricorrenza della strage, e con lucidità e compostezza non smette di chiedere che sia fatta chiarezza sulla fine del marito.

Quello che colpisce nelle due famiglie, Pinelli e Calabresi, che la storia ha legato loro malgrado, dipingendole come contrapposte frontalmente, è invece la profonda condivisione, fatta di umanità e dignità rarissime. Sentendole parlare si capisce cosa siano la rettitudine, la tenerezza, la compostezza.

In un Paese sopraffatto dal ciarpame, politico, comunicativo e morale, il messaggio dei Pinelli e dei Calabresi entra nel cuore e sedimenta. Fa crescere un desiderio di cambiamento che non è fuga dal reale, ma urgenza di penetrarlo e stravolgerlo.

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