Archive for category giornali e dintorni

yellow fever

Nelle forme più gravi compaiono anche segni di grave interessamento epatico e renale quali ittero, tendenza alle emorragie (petecchie, ematemesi, melena), albuminuria marcata, oliguria sino all’anuria. Non rare le complicanze meningoencefalitiche o miocarditiche.
Il tasso di mortalità varia dal 10% al 15%, ma nel caso di epidemie i decessi possono interessare sino all’80% degli affetti.

Informazioni sulla febbre gialla, la redazione mi manda a fare un viaggetto.

4 Comments

l’Apocalisse

Il cronista che fa politica in Italia lo riconosci subito. Anche se ha 30 anni e l’agenda telefonica ancora piuttosto sguarnita.
Credo che appena assunti corrano da Benetton a comprare uno stock di gilet a V, meglio se a rombi ma vanno bene anche in tinta unita, purché tra il grigio fumo e il marrone – negli anni, diventeranno di Loropiana, quei gilet, ma con lo stipendio base si fa quel che si può.
Poi, perdono i capelli: iniziano a stempiarsi precocemente, finché a quaranta rimane al più qualche ciuffo scomposto stile Gad Lerner. Ovviamente, indossano giacche mai troppo di moda e  nemmeno troppo eleganti, il giusto per sentirsi vestiti meglio dell’uomo normale e, soprattutto, più boheme.
Il punto vero, però, più che nei dettagli di stile sta nelle conversazioni. Il fatto di avere qualche numero di telefono in rubrica li fa sentire importanti; lo negheranno, sempre, ma mentono sapendo di mentire. Sfogliano gli altri giornali e difficilmente dicono che il pezzo di un collega è bello; piuttosto, che sta facendo una campagna indecente, che non capisce il valore della notizia, che rincorre delle voci, che sente sempre gli stessi. Il cronista di politica, da noi, difficilmente racconta delle cose ai lettori: le racconta agli altri giornalisti, a quelli seduti in Parlamento, a qualche imprenditore, a mamma e papà.
È un meccanismo che ho visto in atto molte volte negli ultimi anni, e vedo in questi giorni – non me ne vogliano i colleghi, che stimo, ma credo di essere difficilmente smentibile. Ed è tanto peggio quando riguarda la nostra generazione, quella di coloro che dovrebbe aver smaltito la sbornia del quanto-è-figo-essere-giornalisti, perché non abbiamo né il peso specifico dei 50-60enni né tantomeno i loro stipendi e privilegi: siamo manovali, e impariamo insieme ai lettori.
Oggi sulla Stampa, l’unico quotidiano cartaceo che ormai vale la pena di leggere, Barbara Spinelli parla di “apocalisse del giornalismo”, riferendosi alla battaglia incrociata che sta tenendo banco: il Giornale contro il Sole contro il Corriere contro il Fatto contro Repubblica e via discorrendo. Intanto la casalinga di Voghera, ma anche Gea Scancarello, si è rotta le palle di leggere l’autodifesa referenziale della testata e della categoria, e cerca storie. Io grazie a dio le trovo all’estero, e provo a portarle in Italia; ma la casalinga di Voghera che magari non ha chiarissimo perché anche Obama è importante per lei, chiude i giornali e accende la tv.
Les jeux sont fait.

2 Comments

operazione sunshine

Ci sono malinconiche giornate preautunnali piene di lavoro e di ricordi dell’estate in cui pensi che niente ti farà tornare il buon umore. Come sempre ti sbagli: basta andare dal parrucchiere e incappare nel Premio internazionale della fedeltà canina.

1 Comment

amnesie

Tremonti intervistato da Massimo Giannini, Repubblica. Due pagine, domande lunghe tre righe, risposte lunghe quindici. Il ministro sta elencando (da 1.500 battute almeno) quello che il Governo ha in serbo per rivitalizzare l’autunno economico del Paese quando arriva il climax: Ma ci sono mille altre cose da fare sulle regole. Le opere pubbliche costano il doppio e si fanno se va bene nel doppio del tempo.
S
tringo il giornale più forte in mano, godendo della stilettata che  Giannini sta per sferrare (perché questo culo non capita mai a me? Uffa, perché?); è così facile che potrei averla scritta io: Le opere costano il doppio se le si fanno fare a Balducci.
E invece no. Accidenti no. Non so come è possibile ma no.
Ministro, se è tutto qui quello che avete da offrire al Paese per la ripresa d’autunno c’è da preoccuparsi…
Ci sono due pagine del Corriere oggi con nuove indiscrezioni sulla Cricca, il nome di un Berlusconi appena saltato fuori (anche sull’edizione odierna di Repubblica), un ministero ancora vacante ma il vicedirettore ritiene che chiedere un chiarimento a Tremonti annoierebbe il lettore. Figuriamoci. 

No Comments

Cerva d’Italia

La cosa più intelligente sulla morte di Cossiga – meglio, su come i media hanno trattato la morte di Cossiga – l’ha detta Matteo, il nostro direttore (mio ancora per poco, sto per infilarmi in un mondo in cui il primo turno della mattina inizia alle 5 e l’ultimo finisce a mezzanotte e c’è un solo riposo settimanale; insomma, il quotidiano, ma ne parliamo bene dal 1 settembre).

Dicevo. Ieri mattina è entrato e mi ha chiesto, con il consueto mix di provocazione e curiosità: Tu che sei attenta lettrice, dopo due giorni di coccodrilli, cosa sai della moglie di Cossiga?. Ci penso un attimo. Che si chiama(va) Giuseppa. E che probabilmente era incazzata perché lui era un donnaiolo impenitente. Giusto, e poi: è viva o morta? Dov’è? Hanno figli?

Bingo. Degli articoli fiume straripanti parole, ricordi, tenerezze, ammiccamenti, rivalutazioni e il consueto impasto di vorrei ma non posso che impedisce all’italiano di essere sincero – specie di fronte alla morte, che sai, c’è così tanta sofferenza che non si può essere anche cattivi o semplicemente onesti – nessuno, nessuno, nemmeno chi narrava di esserne amico intimo, cronista privilegiato, spirito affine, ha raccontato qualcosa della vita privata dell’ex presidente. Non si sa nulla. O, meglio, nessuno ha voluto metterci il becco.

Così Matteo si è messo a cercare negli archivi.

Cossiga era sposato con Giuseppa, e la tradiva con tale frequenza e noncuranza che per lei era stato coniato il soprannome Cerva d’Italia. Lei non è mai andata a vivere al Quirinale e, anzi, le cronache dell’epoca raccontano che quando lui venne eletto tornò a casa per dirglielo e non trovò nessuno, le finestre sprangate e le luci spente. Dimessosi nel 1992, Cossiga ha chiesto la separazione nel ’93; nel ’97 arriva il divorzio. Infine, chapeau, nel ’98 la Sacra Rota annulla il matrimonio.

Di tutto questo, nemmeno una parola. Rispetto per la vita privata del presidente? Non credo che la privacy sia in cima alle preoccupazioni di cronisti ed editori, considerate le fatture per la cucina Scavolini acquistata a Montecarlo, i trans e le escort, le tette e i culi che salutano giornalmente dalle prime pagine. Piuttosto, mi viene da pensare alla scelta deliberata di non farsi delle domande: per esempio come ha potuto il Vaticano dichiarare nullo quel matrimonio, sulla base di cosa? E perché Cossiga sputtanava tutti ma nessuno ha sputtanato lui?

Mi pare che questo silenzio ex post su una vita scomposta sia un magnifico esempio di come funziona il potere, anche in chiave retroattiva. Berlusconi deve essersi mangiato le mani, per non avere imparato di più dal Picconatore.
(premio prima pagina, come sempre, al Manifesto).

3 Comments

La verità ti fa male lo so

pausa pranzo, Gazzetta dello Sport

– Sai, una volta io Berlusconi lo difendevo: il modo di fare della sinistra, quest’incapacità di crearsi un’identità e un programma se non con l’antiberlusconismo…bè non lo sopporto. Non che mi piacesse Berlusconi, ma davvero lo difendevo. Però ora non si può più…
– Gli scandali recenti?
– Sì e poi sai, non ci compra un giocatore da due anni…

3 Comments

Sant’Oro

Sulla questione Santoro sto facendo una fatica bestiale. Uno sforzo grande per leggere tutto, ascoltarlo parlare, aspettare l’accordo ufficiale, ricacciare indietro l’ondata di populismo che mi verrebbe da cavalcare, indignata, quasi offesa. Non tanto come “seguace di Santoro” o di Raiperunanotte – ché io con le identificazioni tout court non ci vado molto d’accordo – ma più come giornalista impegnata in una battaglia quotidiana contro gerontocrati e stati di crisi dell’industria editoriale.

Ma, appunto, mi sforzo di aspettare di avere il quadro chiaro. Qualche pensiero comunque si può mettere in fila, giusto per stimolare la riflessione. Per esempio: sul fatto che Michele Santoro sia una prima donna, talvolta antipatico e tuttavia di certo il miglior professionista nel suo campo, non ci sono grandi dubbi. D’altra parte, lo share della sua trasmissione lo dimostra in pieno: sarà anche guardata solo da quelli di sinistra – ma davvero ce ne sono così tanti in Italia? – ma Ballarò, per dire, quei numeri non li fa. Altrettanto è vero che non deve essersela passata bene, a livello di stress, negli ultimi anni: costantemente sotto osservazione, minacce, proiettili, intercettazioni in cui lo vogliono far chiudere, ogni puntata sudata contro tutti e tutto, ogni stagione in bilico fino alla fine. Si può dire anche che Santoro non è proprio un simpaticone, è un egocentrico, ha lavorato a Mediaset – anche se continuare a sottolinearlo è una forzatura: in Italia ci sono due aziende editoriali televisive, quindi il fatto di andare a Mediaset non rappresenta per forza una “svendita” di sé, quanto l’evidenza dell’anomalia del sistema – è andato al Parlamento UE per poi mollare tutto disgustato appena lo hanno reintegrato in Rai. Dicono di lui i cattivi che l’epurazione a opera di Berlusconi sia stata la sua fortuna, ma io non lo credo, visto che parecchi grattacapi glieli deve aver provocati, e comunque il suo talento e la sua capacità trascinatrice all’epoca erano già ben noti.

Insomma, ora gli danno 3 milioni di euro e se ne va in prepensionamento, e firma con l’azienda un accordo per cui nel prossimo anno produce per loro 7 docufiction – pare fosse la sua fissa da tempo – alla cifra di un milione di euro l’una. Provo a pensare come valuterei la vicenda se al posto di Santoro ci fosse un impiegato di un’azienda, chessò, che produce scarpe: da anni lo mobbizzano, non lo vogliono far lavorare, gli fanno una guerra costante e a un certo punto ha la possibilità di andarsene e di portarsi via qualche soldo (per lui non sono nemmeno così tanti, 3 milioni di euro). Chi non direbbe sì? Infatti accetta. Però, siccome nel produrre scarpe è bravissimo ed è capace di invetarsi sempre cose nuove, al posto di affittarsi una casetta a Cannigione in Sardegna e godersi il mare continua a fare esperimenti e a trovare nuovi modelli. Già, ma a chi li vende? A quelli che lo hanno odiato e gli hanno reso la vita un inferno? A quel capo che detestava vedere la sua faccetta smunta alla macchinetta del caffé e diceva al caporeparto: “Il signor Rossi bisogna che se ne vada di qui in fretta, trovi un modo per toglierlo di mezzo!”? Secondo la legge del mercato magari sì, può vendere anche a loro, e alla fine potrebbe persino fare un favore ai consumatori se propone loro delle scarpe fichissime, di buona qualità a un prezzo giusto. Però, a pensarci bene, io non vorrei dare il mio prodotto migliore a chi ha fatto di tutto per rovinarmi la vita: piuttosto mi ingegno e apro un negozio on line, ma un favore così non glielo faccio, no?

Ecco, questo mi verrebbe da dire. Perché Santoro non le vende a La7 le sue docu-fiction? O se invece semplicemente vuole provare un genere nuovo perché non farlo dall’interno, in qualità di dipendente? (Magari la risposta è che non avrebbe potuto farlo per questioni tecniche, visto che c’è un controricorso sul suo reintegro in corso). In ogni caso, questo mi fa pensare: non che se ne vada e che gli diano dei soldi (dovuti e nemmeno molti, ripeto) per farlo, ma quella collaborazione esterna, oltretutto molto remunerata.

Perché da un lato non mi pare in linea con le battaglie ideologiche di Santoro, ma su questo forse mi sbaglio o pongo male la questione. E poi perché c’è dietro una considerazione spicciola, che quelli della mia età che fanno il mio mestiere non possono non fare: finché la Rai quei dieci milioni di euro li dà a Santoro spazio e soldi per i giovani non ce ne saranno mai. E hai voglia a raccontare di come se la passano male in fabbrica finché fingi di ignorare cosa succede nel cortile di casa tua.

2 Comments

sulle intercettazioni e l’impegno

Questa mattina ho mandato questa mail a un gruppo di amici, molto diversi per età, professione e dislocazione geografica. La condivido qui e attendo risposte, nel caso voleste dare il vostro contributo.

cari tutti,
ho appena terminato di leggere l’editoriale di Ezio Mauro sulla questione delle intercettazioni, che spiega il problema e il disegno sottostante con estrema chiarezza e linearità.
Quello che mi stupisce in questo contesto è il silenzio della società civile. Può essere che le persone non siano sufficientemente informate – ancor meno del solito, che già è pochissimo – o può essere che non si rendano conto della portata della cosa fino in fondo; in pochissimi, d’altra parte, si sono presi la briga di spiegarla. Nel 2002 la CGIL riuscì nella battaglia contro l’abrogazione dell’Art 18 dando vita a uno straordinario momento di partecipazione collettiva; l’anno precedente i Girotondini e il “resistere, resistere, resistere” di Borrelli aprirono la stagione dei movimenti, che per un breve periodo fece sognare l’Italia di avere ancora una società civile forte, consapevole e orgogliosa. Oggi tutto tace, e questo mi spaventa molto.
Chi oggi ha più di 50 anni può anche decidere di disinteressarsene, forse più preoccupato a difendere la propria pensione per poi scappare su un’isoletta dei tropici (o anche solo nella veranda di casa propria); noi, che comunque la pensione difficilmente la vedremo, no. Chi oggi ha dai 20 ai 40 anni dovrebbe scendere in piazza e dire che non ci sta; dovremmo dire che non siamo addormentati, che siamo consapevoli di quello che stanno cercando di fare, che di vivere in un Paese così no, non ci va. E siccome non sempre si può scappare, bisogna riformarlo dal basso, almeno fino a dove si può.
Non è uno scavalcamento della politica, è essere noi stessi politica, così come l’etimologia della parola la ha sempre intesa.
Se nessuno fa niente, qualcosa lo dovremmo fare noi. Spiegare alla gente, parlare alle assemblee di quartiere, organizzare manifestazioni. Non parlo di un impegno astratto, ma di un impegno concretissimo e anche molto “umile”, che non sia accantonato in virtù del lavoro, dei figli, della moglie, della stanchezza che già si vive tutti i giorni nel cercare faticosamente di fare la propria strada: perché a furia di averlo accantonato, questo è quello che succede.
Alcune situazioni sono senza ritorno, e l’Italia ha da tempo imboccato una di queste. La legge sulle intercettazioni potrebbe essere il colpo di grazia. Noi dovremmo fare qualcosa.
Le persone cui mando questa mail sono molto diverse per età, occupazione e residenza, ma sono convinta che tutte potrebbero e dovrebbero dare il proprio contributo per fermare la deriva, senza aspettare che lo faccia qualcun’altro – giornali, politica o sindacati. Noi a Milano potremmo iniziare con l’organizzare delle manifestazioni o delle serate di informazione, chiamando esperti che spieghino il problema. Ognuno nel proprio posto può fare qualcosa.
Lamentarsi dopo serve a poco, ed è una tendenza troppo diffusa.
Un abbraccio
Gea

19 Comments

questione di standard

Non so quanti racconti non ho iniziato a scrivere perché mi sembravano banali e già visti. Per non parlare di articoli di giornale: il 95% di quelli che per un istante penso di proporre a qualcuno sono cancellati di lì a poco dalla mia lista mentale. Se l’obiettivo è quello di far passare cose nuove e davvero belle (mi scuso per la pochezza dell’espressione, ma è quella più onnicomprensiva), una forma di autocensura è inevitabile e necessaria, almeno per non finire nel ciarpame che già quasi ci soffoca.

Poi però compro quotidiani e riviste a tonnellate e ci trovo dentro cose tremende: spunti spesso rubati a qualcun’altro, fatti vecchi di giorni presentati come novità, contributi di esperti le cui riflessioni rasentano il livello della discussione da bar. Oltre, naturalmente, alla difficoltà a prendere una posizione chiara e univoca sulle cose.

The Indipendent, quotidiano londinese che normalmente mi piace parecchio, esce oggi dopo un battage bestiale con un restyling e un secondo sfoglio interno – un po’ tipo R2 di Repubblica, per intenderci – strillato in prima pagina con toni più o meno di questo calibro: “The most complete  and inedite set of ideas, opinions, facts and images” e via discorrendo. Tanto per iniziare, si parte con una riflessione su questi giorni di blocco del traffico aereo, affidata a un eminente pensatore  inglese rimasto casualmente incastrato in Finlandia dopo una conferenza. Dopo essersi tonificato nella sauna, aver rinfrancato l’anima con un po’ di vodka d’oltreconfine ed essersi strafogato di tartine di paté di renna – in sostanza quello che sto facendo io; anzi, perché non l’hanno dato da scrivere a me? – il pensatore se ne esce con un diecimila caratteri, virgola più virgola meno, che sostanzialmente dicono questo:

1) abbiamo imparato una lezione: la natura è incontrollabile! (ma dai?)
2) le linee aeree moderne sono profondamente democratiche perché consentono a tutti di viaggiare
3) molte delle merci che oggi viaggiano via aria dovrebbero viaggiare via terra
4) le moderne tecnologie potrebbere consentire alle aziende di ridimensionare il numero di meeting vis à vis in favore di quelli virtuali
5) [corollario del precedente] vedersi faccia a faccia non è la stessa cosa che usare skype

Siete sopraffatti dalla portata del pensiero? Ecco, appunto. Che bisogno c’era di sprecare beni che scarseggiano come carta, tempo (incluso il mio) ed energia per infilare una serie tale di banalità? Alzi la mano chi queste cose non le ha già pensate e, peggio, non ha già deciso che fossero così scontate da non meritare di essere fissate su carta qualificandole come “contributo alla riflessione su un fenomeno”.

Probabilmente è tutta una questione di standard che uno si dà. Probabilmente sono io che sbaglio e dovrei smettere di scartare incipit e idee:  forse il desiderio di fare bene può diventare un ostacolo. Forse, inoltre, la visione dall’interno è fuorviante: tutto ti sembra già detto perché tu hai letto un miliardo di cose che probabilmente gli altri non hanno avuto per le mani, e a quel punto è difficile valutare il reale interesse di una cosa. Però proprio non mi riesce. Accettare il livello minimo, fare le stesse cose di quelli che penso facciano male, mi sembrerebbe una sconfitta.

E non so se sia orgoglio, consapevolezza o, invece, insicurezza.

update l’indomani, The Indipendent ha iniziato un’operazione politica-editoriale che la dice lunga sullo stato di salute del giornalismo oltre la Manica. Chapeau.


4 Comments