Archive for category gea and the city
Don’t think twice, it’s all right
Posted by gea in gea and the city, musica, personaggi on February 27, 2014
Ci sono giorni in cui mi chiedo se esista qualcosa di più doloroso di una canzone di bob dylan, e normalmente convengo che no.
Mind the translation
Posted by gea in gea and the city on February 25, 2014
E così ho scoperto che pormonaise patè significa salsiccia di cane con pasta scondita cotta sei giorni fa.
Nomadi (in cerca d’identità)
Posted by gea in gea and the city on February 24, 2014
Non che volessi provare alcunché a me stessa, ma svegliarmi dopo quattro ore di sonno e un concerto dei nashville pussy, tornare a casa mia, prendere la valigia, infilarmi su un treno fino a ginevra, poi saltare su una metro, bivaccare due ore in aeroporto e da lì trovare un bus per il confine francese mi ha fatto capire che compiere 34 anni non significa poi molto, per fortuna.
Twitto, dunque esisto
Posted by gea in gea and the city, giornali e dintorni, politica e dintorni on January 7, 2014
Sto per dire una cosa reazionaria, e per di più proibita tra coloro che – come me – si guadagnano da vivere (anche) grazie a Internet e affini. Non solo: sto per dire una cosa terribilmente banale, che squalifica il dibattito vivace e interessante (qui e qui e qui qualche esempio) che da tempo i migliori osservatori (incluse persone con le quali ho lavorato fianco a fianco) dicono sul web e sulle possibilità che permette, oltre che sul mondo che ha creato.
In realtà, e qui sta un primo punto, riassumendo in modo grezzo e dozzinale parte della migliore riflessione sulla rete, si può dire che Internet non ha creato nessun mondo, ma è il mondo: nel senso che su Internet normali persone che fanno e farebbero comunque la loro vita creano rapporti, interagiscono con altri, scrivono e leggono cose, con i difetti che verosimilmente hanno anche in qualsiasi altra interazione quotidiana con il panettiere, il compagno di banco o il capo azienda.
Eppure, e qui sta un secondo punto, se l’osservazione è vera in assoluto, c’è una categoria per la quale paradossalmente è meno vera che per gli altri. E sono i giornalisti. I giornalisti sono una categoria strana, e parlarne è sempre complesso: un po’ si rischia di fare una difesa ridicola del passato, un po’ si rischia di fare una difesa generazionale altrettanto ridicola. Certamente è vero però che gli anziani del giornalismo se ne sono allegramente sbattuti di Internet, e hanno infine preso a usare twitter e affini soltanto per non farsi dare dei dinosauri fuori dal tempo. Quelli della mia età – i 30/40enni – ci sono rimasti in mezzo, presi tra la fascinazione del passato (il giornale su carta, i tempi dilatati, la possibilità di andare in giro a vedere prima di scrivere eccetera eccetera) e la necessità di buttarsi in un futuro che ancora non è definito, perché l’unica cosa certa nella tempesta dell’industria editoriale è che la soluzione è lungi dal venire, e che tutte le sperimentazioni del momento sono appunto solo sperimentazioni, ma non sono né la via di uscita né l’assetto futuro di un settore che non sa più dove sbattere la testa.
E qui, infine, arrivo al dunque. In questa seconda categoria, la rete ha creato dei mostri. Una ricognizione su Twitter lo spiega benissimo (lasciamo perdere la questione ermeneutica, il fatto che nessuno ci obbliga a leggere tutto, che si può scegliere chi seguire e quant’altro): l’esigenza della visibilità fa sì che orde di giornalisti, aspiranti tali o persone che comunque di quello vivono o vorrebbero vivere, riversino qualsiasi cosa sul social network. Non solo pensieri propri, o condivisione di altri, ma anche scambi di battute, interazioni a due, banalità di sorta. Più nel dettaglio, mi pare che esista una sorta di presenzialismo su Twitter, per cui diventa obbligatorio dimostrarsi attivi. La regola del twitto, dunque esisto, che risponde in parte ad alcuni meccanismi del reclutamento dell’industria editoriale e dei suoi contenuti, spesso però sfiora il ridicolo. Mi capita di soffermarmi sulla timeline di persone che conosco e di scoprire che ogni 15 secondi stanno twittando qualcosa. Pur di esserci. Vale anche per i politici: Gasparri (@gasparripdl), Brunetta (@renatobrunetta) e lo stesso Renzi (@matteorenzi) sono tre esempi calzanti.
Ma sui giornalisti (o gli aspiranti tali, o tutti gli altri di cui sopra) l’effetto è – almeno per me – un po’ patetico. Lo trovo quasi imbarazzante: si fa gomiti per guadagnarsi il proprio angolo di visibilità, in modo quasi ingenuo. Sapere usare i social network oggi è fondamentale, in quasi tutte le professioni. Non riuscire a staccarsi dall’esigenza di apparire è inopportuno.
Resta che twitter è divertente e utile, che anche io ho un profilo (@geascanca), che qualcuno troverà me inopportuna, che magari qualcuno di quelli che io trovo ridicoli diventerà il nuovo guru dei tre mondi. Può essere tutto, e io mi sbaglio spessissimo. A me, comunque, vedere uno che twitta ogni 13 secondi, magari anche del divorzio con la moglie, fa pensare male.
Ma l’avevo detto che sono reazionaria, su certe cose.
Il paragone con Cristo
Posted by gea in alla rinfusa, gea and the city on August 7, 2013
Questo è un post a rischio noia. Parole chiave: cuore, età, dolori. Uomo avvisato…
Un signore che mi ha insegnato qualche cosa, tempo fa, mi disse che a fare i giornalisti ci si mette una corazza sul cuore e si va avanti. Io seguì più o meno alla lettera l’insegnamento – all’epoca andavo in giro per campo profughi palestinesi, oggi più o meno dirigo le operazioni, e ça va sans dire rimpiango i palestinesi – ma ho capito anni dopo che era proprio una cazzata.
Coprirsi – il cuore, gli occhi, i pensieri – è proprio l’ultima cosa che uno deve fare nella vita. Squadrare le cose, sentire la carne che brucia, connettere i neuroni, reagire: questo bisogna fare.
Mi sono così abituata a coprire che mi si è offuscato lo sguardo. Mi sono così abituata a coprire che ogni tanto mi alzo la mattina e nella mia routine da automa perdo il contatto con il mondo: dove sono, che cosa sto facendo, come lo sto facendo?
Mio padre l’altro giorno mi diceva, alla comoda distanza di sicurezza di qualche migliaia di chilometri, che non sono più giovane.
Il discorso era complesso e lungo e inanellava tutta una serie di cose sulle quali non me la sento di tornare (sparare dei razzi terra-aria sui pensieri dei figli senza aver fornito uno scudo antimissile, comunque, dovrebbe essere proibito dalla convenzione per i diritti dei trentenni). Ma alla fine sono rimasta lì a chiedermi quando è che uno diventa grande. Ho 33 anni: in che categoria rientro? Cosa determina il passaggio da giovani ad adulti?
Quando avevo 16 anni – non proprio un’infante – avevo una certezza sul mio futuro: a 27 sarei stata sposata con figli e un lavoro appagante. Non che lo volessi o lo desiderassi, non sono nemmeno mai stata particolarmente barbiefiordipesco nei sogni. Semplicemente mi pareva scontato: a 27 anni si è adulti e gli adulti così fanno (meriterebbe una nota sociologica a margine il riferimento al lavoro appagante: le distorsoni provocate dagli agi della provincia borghese sono inimmaginabili).
Va da sé che era una idiozia colossale, e non ho avuto bisogno di arrivare alla data ics per rendermene conto. Col tempo l’idea dell’essere adulto in me è stata semplicememte sospesa: lavoravo, amavo, viaggiavo senza mai chiedermi quale età sarebbe stata giusta per cosa.
Poi, il tempo ha iniziato a passare senza che io facessi nulla che vi rimanesse impresso. Niente per me, poco per gli altri, salvo un mirabile caso.
Adesso tutto presenta il conto. Sarà il paragone con Cristo, che a 33 anni lasciò il marchio per sempre.
E comunque mi accontenterei anche di qualcosina in meno della crocefissione, sia chiaro.
Rio mare
Posted by gea in gea and the city on August 7, 2013
Come stai?
Come una tonna rio mare, mi spezzi con un grissino.
Scene da un agosto milanese
Posted by gea in gea and the city on August 5, 2013
Ho sognato che lavoravo in una struttura simile a un campo estivo per studenti (ma poteva anche essere un campo di concentramento, il che la dice lunga sulla mia chiarezza mentale), e un giorno la nostra routine veniva sconvolta dalla notizia che la Germania era andata in default e lo aveva tenuto nascosto. Partivano i cacciabombardieri e una serie di ordini d’attacco, mentre io facevo chissà perché un dettato in inglese che iniziava con I think that life… Sarebbe stato bello sapere come finiva, ma il ventilatore ha smesso di funzionare e mi sono svegliata in un sudario.
Due giorni fa mi è andata peggio. Dormivo da un’oretta quando mi sono svegliata per caso. Non so come né perché, ma mi sono tirata su a guardare fuori dalla finestra. E fuori dalla finestra c’era una nuvola di fumo nero e decine di persone che mi gridavano di scendere e scappare.
Pensavo di essere turbata da quella mozzarella scaduta reperita poche ore prima in frigo e divorata senza ritegno, ma hanno iniziato a bussarmi alla porta di casa con tale intensità che ho temuto la sfondassero. Ho aperto totalmente rintronata in mutande – in perizoma per essere precisi – e un ragazzo che da vero gentiluomo ha finto di ignorare le mie nudità mi ha detto di correre fuori, che il palazzo stava bruciando. Bruciando, sì.
Ho avuto il tempo di infilarmi al contrario una camicia, e volevo prendere su qualcosa di utile – metti che mi bruci la casa, almeno l’iPad lo vorrei salvare, con quello che costa – ma non ero abbastanza presente a me stessa, e per di più a quel punto già mi vedevo delle scene tipo Twin Towers con via Vigevano 1 che si accartoccia su se stessa e io che devo lanciarmi già da un ballatoio senza nemmeno un fotografo a immortalarmi per consegnarmi alla storia; insomma, alla fine l’unica roba che ho preso è stata la crema antizanzare. Trenta secondi dopo ero in strada con ai piedi due birkenstok di diverso tipo, addosso una camicia aperta e, temo, una fiatella pazzesca (la famosa mozzarella avariata, ricordate).
Un fotografo, in effetti, c’era: Niccolò. Ma senza macchina, e comunque io mi ero salvata. Il bar di Peppuccio no, però.
Cahiers de doléances
Posted by gea in gea and the city on June 20, 2013
Amicizia è una email con oggetto «Non morirai» da un’amica alla quale appena snocciolato il bollettino quotidiano dei tuoi dolori.
Le certezze, in effetti, sono un bel lenitivo.
Message in a bottle
Posted by gea in gea and the city on June 6, 2013
Qualcuno ha aperto questo blog e gli è rimbalzato l’eco. Darò notizie di me appena le avrò.
Navigo a vele spiegate sul mio stagno. Il mio pensiero più ricorrente e ardito è il conteggio delle calorie dello stracchino: la consistenza inganna.
Le apparenze contano eccome.