Archive for category gea and the city
Rischio d’impresa
Posted by gea in fermo immagine, gea and the city on July 30, 2014
Qualcuno ogni tanto mi chiede cosa fai da quando hai dato le dimissioni. La risposta figa è: «Scrivo un libro». Quella onesta è: «Mando tra le 50 e le 100 mail al giorno, passo 12 ore al giorno almeno davanti a uno schermo a leggere cose, ne programmo altre che erodono metà del mio micro-cumulo di risparmi e chissà se avranno un qualsiasi ritorno».
Tecnicamente, mi ha ricordato mio fratello, si chiama rischio d’impresa.
Credo che i nomi tecnici siano stati inventati per fare sentire un po’ meno peggio le persone.
Il potere dell’audiomessaggio
Posted by gea in alla rinfusa, gea and the city on July 24, 2014
Parental advisory – explicit lyrics
(Una volta questo era un blog per persone serie.
E vabbè, è andata così)
È iniziato un giorno che ero in motorino e diluviava: dovevo presentarmi a cena da un’amica, ero in ritardo, volevo raggiungere lo schermo dell’iphone in tasca e digitare un messaggio ma la pioggia lo impediva. Quindi, ho parlato: un audiomessaggio su whatsup. Nessuna fatica, risultato immediato e zero errori di battitura – galattico, specie considerato che nel 90% dei casi ricevo (e invio) testi che sembrano in cirillico e vanno disambiguati con l’aiuto di Google translator.
Stamane, un paio di mesi dopo quel pomeriggio, raccontavo a un’amica una serie di vicende un po’ complicate, sempre su whatsup. Ero partita scrivendo, rispondendo a sue sollecitazioni. Poi, intravedendo al largo della giornata il rischio concreto di trascorrere due o tre ore con il telefono in mano, ho pensato di accorciare i tempi e deciso di rilasciare audiomessaggi (alle dieci della mattina quasi tutti hanno ancora l’illusione di combinare qualcosa di produttivo nella giornata testé iniziata). Ho prodotto tipo 29 audiomessaggi in un’ora, da 30 secondi l’uno. Con enorme soddisfazione: finalmente riuscivo a raccontare anche le sfumature della vicenda; quando si scrive, normalmente, si taglia via: non è che puoi stare lì a usare troppi aggettivi o dare ricchezza al discorso perdendoti in dettagli. Bisogna essere essenziali: Praticamente non si capisce una mazza, ma poi ti racconterò meglio è un mio whatsup standard.
Stamane invece aggiungevo, sibilavo, non dovevo ricorrere agli emoticon, me la ridevo, simulavo voci diverse con un delizioso effetto teatrale; e insomma, io e la Cooked stavamo lì al con l’iphone in mano e 300 chilometri nel mezzo a raccontarci la rava e la fava in un corso di psicologia avanzata del creato via audiomessaggi.
Ed ero così esaltata – forse anche perché il mio cervello non ha fatto alcuno sforzo lavorativo in tutta la mattina – che ho scritto su facebook la seguente:
Quindici minuti dopo, sostanzialmente la mia intera rubrica telefonica mi aveva deliziato con un audiomessaggio (premio della critica a mio cugino Titti: Heidi cantata in versione Carmen Consoli e Vasco Rossi, genio).
Tutti incluso Nicola che, con il precisismo che lo caratterizza (precisismo è volontario, se non fosse chiaro), si è sentito in dovere di spiegarmi: «Sai perché la gente non manda audiomessaggi normalmente? Perché è pericoloso. Hai presente come gli hacker e le spie ascoltano e manipolano le nostre conversazioni? Ecco, non vorrai mica che qualcuno prima o poi butti su Internet la tua voce manipolata che dice “Mi piace il ca**o”?».
Non ho fatto in tempo a rispondergli che ho ricevuto un secondo audiomessaggio da lui.
«Ecco, porca miseria, mi sono reso conto che ho appena detto “Mi piace il ca**o” esponendomi a rischi inutili».
Ho riso talmente tanto che, ritenendo la storiella degna di essere condivisa, un paio d’ore dopo mandato un audiomessaggio a una terza persona per raccontare la teoria di Nicola su “Mi piace il ca**o”. La quale terza persona ha apprezzato abbastanza da continuare a ripetere “Mi piace il ca**o” e a valutarne gli effetti.
Riassumendo: soltanto quattro ore dopo la scoperta del potere degli audiomessaggi, possiedo già le registrazioni di due noti professionisti, musicisti e quant’altro che sbraitano sulle loro preferenze sessuali, scandendo bene: “Mi piace il ca**o”.
Se continuo questa storia degli audiomessaggi per una settimana, probabilmente arrivo ad assicurarmi un posto di lavoro iperpagato.
Nel giardino della mia fantasia
Posted by gea in gea and the city on July 21, 2014
You know you’re all alone
Your friends they aren’t at home
Everybody’s gone to the garden
As you look into the trees
You can look but you don’t see
The flowers seem to tease you at the garden
Everybody’s there, but you don’t seem to care
What’s it with you man,
and this garden
Bla bla deutch
Posted by gea in gea and the city on July 17, 2014
Domani vado a Rimini per lavoro (già, anzi, a Misano, a un raduno Ducati: per gli insulti c’è una sezione speciale del blog) e al mio consueto annuncio su Blablacar ha risposto un tale Chris W, evidentemente non italiano. Gli ho dato appuntamento alle 13, specificando: Puntuale, per cortesia, perché in serata ho un appuntamento di lavoro.
Risposta: Sono tedesco, noi siamo sempre puntuali.
Update. Nel messaggio successivo il buon Chris aggiunge: A domani. Ci vediamo alle 12.55.
Uber Alles.
Simpathy for the Devil
Posted by gea in gea and the city, musica on June 23, 2014
Qualcuno avrà scritto che per loro il tempo si è fermato e che il patto col diavolo l’hanno fatto sul serio: balle. Sono vecchi e si vede. Ma non importa, in fondo: gli Stones sono comunque uno spettacolo fantastico.
Anche se il vecchio Keif si è sbriciolato e oggi paga il conto (comunque poco, considerato quello che ha consumato). Anche se a vedere Mick Jagger ci si chiede se non sa fare altro che quel Mick o se sfrutti il suo stesso marchio: se lo è o lo fa, insomma. Probabilmente un po’ di entrambe, ma il risultato abbastanza incredibile è che il suo dimenarsi sul palco con le chiappe strette, le rughe marcate e i pettorali alti è ancora perfetto.
Poi c’è il rituale collettivo, quel momento di catarsi tipica dei super concerti, la calca, il sudore, la schiena rotta, la gente accatastata in ogni angolo, i fiumi di birra con la vescica che esplode, le facce tirate fuori da un quadro espressionista, i giovani e i vecchi, quelli che a Jumpin’ Jack Flash sono già finiti e non riescono nemmeno a tirare su la testa verso il palco e quelli che alla fine cantano ancora per due ore, soli e sbronzi nella notte; insomma, le ore dilatate in cui 70 mila persone tutte diverse sono ognuna lì per un motivo da celebrare con 69.999 sconosciuti, e a tutti va bene così.
E poi ovvio c’è il Circo Massimo con gli Stones dentro: la storia dell’umanità e quella del 900, l’incrocio che gronda istanti, un condensato di malinconia anche, ché a pensarci bene nella porzione di mondo che conosciamo noi pare che sia già stato fatto tutto, e un’altra storia di musica ed evoluzioni sociali così non capita più.
E quando tutto finisce resta Roma: quella Roma che ci invidiano tutti, la Roma caput mundi, del Colosseo, dei Fori Imperiali, di Piazza Venezia, dell’Altare della Patria, dell’Università di Roma, quella Roma sempre con il sole estate e inverno, quella Roma che è meglio di Milano (copyright Remo Remotti).
Sono arrivata a Milano 18 ore dopo e piove un mondo triste. Sarà un caso, eh.
Que serà
Posted by gea in gea and the city on June 17, 2014
Lasciare il lavoro deve essere un po’ tipo smettere di fumare: è impossibile non ingrassare.
Sarà che devi occupare le mani in un’altra maniera o che hai più tempo a disposizione. O magari c’entrano qualcosa quelle bottiglie di Traminer bevute all’aperitivo…
Tutta colpa di Beautiful (Fuck the biological clock)
Posted by gea in gea and the city, tivù on June 3, 2014
Ho capito, maledizione: è tutta colpa di Beautiful.
Di quei pomeriggi alle medie in cui arrivavo a casa e, con l’Invicta ancora sulle spalle, accendevo la tivù e mi piazzavo a guardare Brooke, Ridge e Taylor amarsi e tradirsi, morire e resuscitare, gemere e promettere, sposarsi (preferibilmente su una spiaggia delle Hawaii) e divorziare (preferibilmente nella sauna di Big bear): anni interi di “Un giorno alzerai il telefono ma io non ci sarò più, e allora capirai” a forgiare l’educazione sentimentale delle adolescenti. E a promuovere la cultura amorosa del dramma.
L’ho capito oggi, facendo zapping per caso a ora di pranzo. Una delle tante sorelle di Brooke (che nel frattempo sono state impersonificate da cinque o sei attrici diverse, per mantenere l’età fisica bloccata in epoca riproduttiva intorno ai 35 anni) gridava a uno dei tanti ex mariti di Brooke, che però evidentemente era stato uomo anche della sorella, che Brooke non lo amava davvero, ma sarebbe stata nei pressi soltanto finché un’altra sorella avesse trovato un altro uomo e Brooke avrebbe sentito l’esigenza di rubarglielo provandosi più figa, oppure finché non fosse tornato il sempiterno Ridge, che a questo punto penso sia coetaneo di mio padre ma comunque deve avere ancora il suo certo fascino se tutte si strappano i capelli così.
Comunque: lacrime, parole, abbracci, primi piani di lacrime, primi piani di labbra, sussurri, strade di Los Angeles. Tre minuti e mezzo per capire come mi ha fottuto Beautiful.
Andrebbe messo fuori legge: è una specie di batterio, un’ebola dei sentimenti, un amplificatore del culto della scena madre come sommo gesto d’amore, quella roba che nella vita vera dopo cinque minuti ti chiedi perché sei così demente, e quando la mattina dopo piagnucoli nel letto non ti senti mai come Brooke mentre si prova la lingerie pensando alla prossima preda, ma soltanto una sfigata che nonostante le parcelle dell’analista non ha ancora imparato quando deve mordersi la lingua.
Fottuto Beautiful. Ma ora che lo so mi sento meglio. E conto anche di scrivere una lettera di rimborso alla produzione. Forse potrebbe diventare una petizione globale: una specie di risarcimento internazionale a tre o quattro generazioni di melodrammatiche. Non basterà a ridarci il tempo di infinite sceneggiate, ma magari a fare un viaggio alle Hawaii anche noi sì.
L’essenziale è visibile agli occhi
Posted by gea in gea and the city, viaggi on May 14, 2014
Ho riaperto la custodia del computer che non usavo da tempo: da prima di comprare un iPad, precisamente. C’ho ritrovato dentro la carta d’identità che avevo dato per smarrita, una bustina di oki, una cartina degli States: il mio personalissimo kit di sopravvivenza è lo stesso da anni, evidentemente.
Atto di dolore (o di potere?)
Posted by gea in gea and the city on May 12, 2014
Mio nipote, 8 anni, mi ha comunicato con orgoglio quasi un po’ imbarazzato che sabato farà la sua prima confessione: stava studiando con molto impegno l’atto di dolore, infatti.
Mi sono chiesta che cosa abbia da confessare un bambino di 8 anni. E se sia sano, dopo che avrà detto con un po’ di paura al prete che ha fatto arrabbiare la mamma, fargli ripetere questa preghiera feudale:
Mio Dio, mi pento e mi dolgo con tutto il cuore dei miei peccati, perché peccando ho meritato i tuoi castighi e molto più perché ho offeso te, così infinitamente buono e degno di essere amato sopra ogni cosa. Propongo con il tuo Santo Aiuto di non offenderti mai più, ma di fuggire le occasioni prossime di peccato. Signore, misericordia, perdonami.
Se Dio esiste, difficilmente il suo amore per l’uomo si sostanzia in una schiera di bambini che ripetono perché peccando ho meritato i tuoi castighi. Se credessi in Dio, sarei assai arrabbiata per la preghiera imposta a mio nipote dalla sua Chiesa.
Downshifting
Posted by gea in gea and the city on May 6, 2014
Milano mi ha accolto con una nevicata di pollini e tre giovani hipster in skateboard lungo via Vigevano, e per la prima volta nella vita il corpo si è ribellato ricoprendosi di punti rossi- chissà poi se l’allergia è ai pollini, agli hipster o al ritorno.
Mi sento lievemente rallentata nel riappropriarmi di spazi di vita ai quali avevo totalmente abdicato: mentre giro per la strada con la strana leggerezza di chi non è ben ancorato alla terra non capisco bene se la mia sia pura incoscienza, con più l’aggravante del borghese radical-chic che fa downshifting, o un estremo moto di sanità mentale.
Al momento propendo per la seconda, benché sia abbastanza consapevole da sapere che 10 anni di vita sopra al Capetown renderebbero radical chic anche Ghandi, purtroppo.