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Patagonia Dispacci #1
C’era caldo in viaggio. Tenevo la fronte schiacciata contro il finestrino appannato e i raggi del sole scappati alle nuvole parevano saturare le crepe dell’io: tre mila metri sopra la Patagonia. Giù in basso, invece, pioveva. Pioveva su questa gente esule, sul mondo alla fine del mondo, terra di confine, tentativi e amalgami. E tirava un vento cattivo, una lama orizzontale che fresava l’acqua del mare con frustate regolari.
Anche l’aereo è finito sotto il tiro del vento: un vuoto d’aria che ci ha tirato giù per una manciata di secondi, abbastanza perché guardando fuori dal finestrino la Cordigliera sembrasse così vicina da rischiare di toccarla con l’ala. Parecchi passeggeri hanno urlato e io ho preso a sudare, lo stomaco intrecciato, le mani a conca sulla faccia; ho contato i minuti fino all’atterraggio, e non m’era mai successo prima. Accoglienza straordinaria, Chatwin aveva ragione.
Ushuaia, la città più a sud del pianeta, è un insieme raccogliticcio di case e stili; complice il clima plumbeo, mentre la attraversavamo per raggiungere l’imbarco m’è parsa il sobborgo di una cittadina inglese in una mattinata infrasettimanale in un film di Ken Loach. Solo che a fianco delle casetta basse in mattoni ci sono costruzioni in legno con tetti spioventi di lamiera, rubate a Monaco di Baviera. E piccoli blocchi di cemento colorati che fungono da negozietti e poi ancora un campo da atletica come quello del mio liceo in Maryland. Il fondo a tutto c’è il molo commerciale, con le enormi navi da pesca su un lato – equipaggi giapponesi, europei, americani – e le più modeste navi da crociera dall’altro, poco più che traghetti della Terra del fuoco. Di fronte al molo, ben visibile da chiunque a bordo, una scritta larga qualche decina di metri ricorda ai turisti europei e americani che sbarcano qui goffamenti bardati che l’onta delle isole Malvinas – le Faulkland per il resto del mondo – non è stata cancellata.
Non saprei dire quanti dei vacanzieri sovrappeso alla prima esperienza di mare si ricordino esattamente di quella guerra. Mi sarebbe anche piaciuto chiederlo, ma avrei turbato l’esuberante momento di presentazione dele nazionalità, momento fondante di ogni crociera, coi tovaglioli alzati al cielo insieme ai calici. Però, in attesa di sbarcare a Capo Horn, prima di addormentarmi ho riascoltato una delle dieci canzoni contro la guerra più belle di tutti i tempi. Was it worth it?
La pagina femminile di Pane e sharing. Dispaccio #1: Tecniche italiane di sopravvivenza
Posted by gea in Dispacci, gea and the city, viaggi on August 31, 2014
Alla ragazza che mi ospita in casa qui a Colonia si è bucata la ruota della bicicletta: apparentemente un dramma tipo olocausto atomico.
Così, ieri pomeriggio, tra un recupero di cibo e l’altro, ha trascinato me e l’altra coinquilina all’angolo della strada dove l’aveva abbandonata per cercare di ripararla (ignorava, ingenua, che finché si tratta di alimenti ce la posso fare, ma con la manualità sono messa peggio di un bradipo).
Arrivate lì e considerato lo stato della ruota e il fatto che non avevamo nemmeno uno degli strumenti che mi hanno spiegato essere imprescindibili, l’operazione pareva rapidamente naufragata e io stavo già sognando di trascinarle a mia volta a bere una birra al bar d’angolo.
Ma lei si guardava intorno disperata, fino a spingersi dentro un negozio per chiedere una mano al titolare, il quale da buon precisetto tedesco le ha spiegato che lui sarebbe stato certamente capace di aggiustare tutto e sostituire la camera d’aria, ma ci voleva il tempo giusto e gli attrezzi giusti, e cara amica riportati la bici a casa e quando avrai più tempo se ne parla. Auf wiedersehen
Nicole era così sconsolata che ho preso in mano la situazione. Ci penso io, le ho detto spingendo la bici fino al bar poco distante. Questa è una tecnica italiana, stai tranquilla.
Ho piantato la bici fuori dal locale, in mezzo a un capannello di ragazzi che in un altro Paese avrei definito hipster ma in questo si vestono tutti comunque così alla come capita che non saprei dire se il risultato finale era desiderato o meno, e ho spiegato loro che sono straniera, e non so proprio come si fa, ed è così difficile caspita essere in un Paese diverso e ho sorriso parecchio, e insomma la vecchia storia del fingiti una donna scema e incapace che chiede aiuto al superuomo e lo fa sentire importante è talmente vera da travalicare i confini e le dogane, e dopo cinque minuti – benché lamentandosi perché stava per inziare la partita del Bayern – un tizio con una maglietta bianca e due spalle larghe quanto corso Buenos Aires aveva tirato fuori da non so dove tutti gli attrezzi, e dopo altri dieci ci riconsegnava la bici perfetta tra i risolini generali.
Ero così esaltata di aver dato prova alle compostissime ragazze tedesche che l’italianità non è sempre un male (tralascio il dibattito seguitone: ma tu sembrare scema! E invece io essere furba!) che arrivate a casa ho deciso anche di cucinare un risotto con la zucca. E per essere io, e io in Germania, e io con alimenti da me stessa recuperati dagli scarti dei supermercati, stavo facendo un lavoro galattico. Peccato che finito il tutto, per dare un po’ più di zapore, le ragazze abbiano voluto metterci su quell’erbetta che non so nemmeno come si chiama perché in Italia penso sia proibita dalla Convenzione per i diritti dell’uomo, e nel resto del Nord Europa la piantano sul salmone crudo (qui si chiama Dill, comunque), tanto per dire quanto sono vicini i due sapori. Secondo loro, così era un risotto fantastico; io ho preso l’erbetta e l’ho tolta di nascosto.
Anche per questo sabato ho fatto mio figurone.
San Paolo/Dispacci #4
Posted by gea in Dispacci, fermo immagine, viaggi on April 24, 2014
Credo che tecnicamente questo si chiami usare le cose fino in fondo.
Non tecnicamente, invece, è essere grati di ogni passo fatto.
San Paolo/Dispacci #3
Posted by gea in Dispacci, gea and the city, viaggi on April 23, 2014
Comunque volevo dirvi che sulla Paulista c’è un mimo che fa l’urlo di Munch. Nel senso che sta li sul suo piedistallo con la faccia scavata, le mani sul volto e la bocca semi aperta, imitando il quadro.
Prendere nota, se per caso tutto dovesse andare male…
San Paolo/Dispacci #2
Infine è arrivata Pasquetta e mentre amici e parenti mandavano foto di loro al mare, loro sui prati verdi, loro col maialino arrostito, loro in mezzo alla neve (questo mio padre, ché si sa che lui è sempre un po’ più eccezionale degli altri) io e il Galimba ci siamo trovati con il compito improbo di organizzare la giornata nella megalopoli del cemento, non potendo nemmeno contare su uno degli elicotteri che qui i fighi usano per andare in giro (la macchina è plebea; il traffico infame).
Appuntamento a pranzo a Libertade per un sushi, scampolo di esotismo nell’asfalto. Ma anche il più grande quartiere giapponese del mondo cambia e il nostro ristorante nel frattempo aveva chiuso, anzi, era stato abbattuto, si suppone per fare spazio a un palazzo ancora più grosso e massiccio ché vuoi mai dare un po’ di respiro allo sguardo.
Dopo aver ripiegato su un altro ristorante, studiato la mappa e provato a trovare riferimenti in un paesaggio monotono come un pezzo della Pausini, Gabri ha trattacciato la rotta per il centro. La mappa, a dire il vero, è finita ripiegata in dieci minuti, perché per farla corrispondere con le strade vere ci vuole più fantasia che a inventarsi il percorso: la segnaletica funziona in modo casuale, con i cartelli agli incroci che non indicano a quale via corrisponde quale nome, ma più o meno soltanto che quelle quattro vie hanno quei quattro nomi, e magari anche sei, rua do mago do nacimiento do sao paulo do brazil – più o meno così, ecco.
Siamo comunque arrivati intorno alle 16 all’Edificio Italia, il palazzo più alto di San Paolo, un po’ affaticato dallo scorrere del tempo ma comunque intriso di una sua certa nobiltà: incluso il fatto di pagare due o tre persone per pigiare il bottone dell’ascensore dodici ore al giorno seduti su uno sgabellino rivolto verso una parete di metallo.
All’ultimo piano, comunque, la vista è tale che ripaga di ogni sforzo: spero che la tizia che di mestiere pigia il bottone abbia dieci minuti di pausa per potere guardare il panorama, ogni tanto.
Chiamarlo panorama, in realtà, è improprio: c’è un solo elemento – blocco verticale di cemento rispondente al nome di grattacielo – ripetuto per decine di centinaia di volte, per decine di chilometri, finché arriva lo sguardo. Però è un panorama eccome, e forse uno dei pochissimi al mondo così.
Infatti ci siamo seduti in questa terrazza chic dove solo per entrare vogliono 30 reais – per essere una vista sull’asfalto, se la fanno pagare – e abbiamo preso due alcolici come due signori dell’alta borghesia. Poi abbiamo guardato, guardato, guardato: ma alle cinque eravamo pronti ad andarcene. Ehm, dunque ora cosa facciamo?. Vuoto pneumatico: in una città da 20 milioni di abitanti, non c’è un solo posto dove fare una passeggiata. Potremmo andare…ehm…ehmm, al museo!. Cazzo è chiuso oggi. E allora andiamo ehm, mmmm, ehm, sulla Paulista.
La Paulista è l’arteria principale del traffico di San Paolo, praticamente un inferno di palazzi ed elicotteri che atterrano sui loro tetti, disseminata di centri commerciali; è anche la loro strada più celebre, nonché l’unica su cui la gente cammini avanti e indietro. Dunque ci siamo presi anche noi la nostra parte di striscio. Alle 17.30 abbiamo iniziato a guardarci di sottecchi. Entriamo?. Sì, dai, ho già mappato le wifi lì..
Dieci minuti dopo eravamo seduti in mezzo a una distesa di fast food dall’odore letale, in mezzo a gente obesa, con i telefonini in mano cercando come forsennati di beccare una connessione gratuita: scene da americani del Wyoming alla prima gita a Kansas city.
Non ho mail a cui rispondere.Neanche io.Vabbè, camminiamo ancora un po’ sulla Paulista.
All’altezza del museo di arte moderna, ci siamo fermati al mercatino nero delle figurine panini, l’unico elemento di umanità viva nell’isolato (che l’umanità sia utilizzata da 50enni per scambiarsi immagini di calciatori, meticolosamente registrate su fogli e schedate una a una, è un dettaglio folcloristico).
Cos’è quel palazzo lì Gabri?. Ha un aspetto diverso dagli altri. Dai, andiamo a vedere. Ovviamente era un centro commerciale. Ci siamo seduti in mezzo, i telefoni alzati al cielo in cerca di un segnale wifi. E io non l’ho nemmeno trovato.
Per fortuna poi erano le 19 e abbiamo potuto salire su un taxi, fare mezz’ora di zigzag tra i palazzi, finire in un altro quartiere di palazzi (benché più fighi) per farci raccontare a cena da amici – che nel frattempo si guardavano le spalle per paura di essere rapinati – quanto è bella San Paolo e quanto ci si vive meglio di Rio.
Sì, certo.
San Paolo/ Dispacci #1
Bè, mi dicevo in taxi appena sbarcata all’aeroporto, alla fine non può essere così male, sarà tipo Chicago o New York.
Ma no, la quantità di cemento armato e asfalto di San Paolo non è paragonabile a nulla che avessi visto finora: una giungla di palazzi, semplicemente. Soltanto che dopo essere stata per settimane nella foresta vera, questa è disarmante a prima vista, benché non priva di un suo inspiegabile fascino alienante.
L’impressione è che la città sia cresciuta a caso, senza pianificazione o segni di riconoscimento, con il solo obiettivo di creare spazi via via più sicuri e inaccessibili per sfuggire alla criminalità e alla diseguaglianza sociale.
Magari questa foto (presa da Gabri) aiuta a farsi un’idea.
Bahia/Dispacci #4
Posted by gea in Dispacci, gea and the city, politica e dintorni, viaggi on April 19, 2014
Sono uscita all’alba prima che il panico generale per lo sciopero della polizia si facesse largo anche in me, mio malgrado. Tutto era quieto. I primi negri stavano aprendo le loro botteghe, spingendo i miseri baracchini al ritmo di Bob Marley o leggendo i giornali al fresco dell’atrio dei palazzi della Ladeira.
C’era un’energia intensa nell’aria, una calma ferma e satura di storia. Mi sono seduta per terra al centro del Pelourinho, dove fino a 140 anni fa gli schiavi venivano venduti, con i cavalli e gli acarajé, e ho messo le mani aperte sui ciottoli, cercando di assorbire l’energia della terra.
Tre minuti di condivisione totale.
Mi sono sentita bene.
Bahia/Dispacci #3
Posted by gea in Dispacci, gea and the city, viaggi on April 19, 2014
Breve riassunto delle puntate precedenti.
Sono arrivata a Salvador de Bahia, 12 ore di meraviglia e poi lo sciopero della polizia: assalti agli autobus, saccheggi nei supermercati, negozi sigillati, città deserta, stranieri chiusi a chiave in alberghi e ostelli perché troppo pericoloso uscire.
Poi Dilma ha mandato questi, che a vederli così paiono anche simpatici ma giuro che non ci si sente tanto bene a essere circondati da ragazzetti col dito sul grilletto.
Stasera stavo finalmente uscendo per andare a mangiare qualcosa di diverso di carne secca e farofa, altrimenti detta sabbion o segatura, che sono arrivati qui da Brasilia per arrestare il capo dei poliziotti scioperanti accusandolo di crimini contro la sicurezza nazionale; in dieci minuti le strade si sono di nuovo svuotate, i tassisti hanno ripreso a bruciare i rossi e quello che mi ha scaricato in piazza mi ha detto buona fortuna per il tratto di strada tra la piazza e l’ostello.
Ecco, direi che sono pronta ad andare via.
Bahia/Dispacci #2 e mezzo
Update.
Alle cinque del pomeriggio il gestore dell’ostello ha richiamato tutti gli ospiti e ci ha chiuso dentro, organizzando una cena interna perché non c’è un solo ristorante aperto in città.
Sostanzialmente Bahia è una città fantasma in questo momento, con la gente reclusa in casa e niente di aperto (niente nemmeno i centri commerciali). Non so se riderci sopra o prendermi male…
Bahia/Dispacci #2
Con la consueta fortuna del principiante, sono arrivata a Salvador de Bahia in coincidenza del peggiore greve, sciopero, della polizia in anni. In molti posti del mondo la notizia passerebbe indifferente, da qualche parte potrebbe quasi essere esaltante: qui è un fatto che modifica la geografia urbana e le abitudini di residenti e turisti. Negozi e musei sono chiusi, i viaggiatori restano negli alberghi, caldamente consigliati dai gestori, i taxi non vogliono partire.
Non mi è chiaro se la città sia realmente così pericolosa, è certo che qui si vedono le scene tipiche dei film – bimbi scalzi, elemosina, vita di strada; ma anche una gioia di vivere straordinaria e contagiosa – ed è certo anche che la polizia si da molto da fare. Ieri sera sono finita per caso dentro una retata, improvvisata dagli agenti in un vicoletto appena laterale rispetto alla rua della festa: mi hanno lasciato andare dopo pochissimo, e non avevo nemmeno i documenti con me, immagino soltanto perché sono bianca ed evidentemente turista, ma i ragazzi del quartiere hanno passato una mezz’oretta poco simpatica, anche se immagino abbastanza di routine per loro.
Comunque sia, stamane senza la polizia io sono uscita lo stesso, siglando un compromesso con me stessa: fuori dalle zone turistiche solo taxi.
Bilancio non male. Finora al mercato principale hanno provato a scipparmi (ma me ne sono accorta prima che il ragazzino finisse di aprire la borsa) e il mio fixer non si è presentato dicendo che non può uscire di casa perché il suo quartiere è troppo pericoloso. Almeno dieci negozianti mi hanno fermato dicendo Gringa, greve polizia: muito peligroso, fica em hotel (Gringa, sciopero della polizia: molto pericoloso, stai in hotel) e la tipa del bar in cui stavo mangiando mi ha sequestrato l’iPhone dicendo che è troppo pericoloso che lo tenga io in luoghi pubblici.
Se arrivo a domattina e batto lo sciopero della pula sono un highlander (forse).