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On the asian road_part 1
[avviso ai lettori: il tempo di lettura di questo post è lunghetto. Non lamentatevi, l’ho anche diviso in due parti!]
Sette aerei in venti giorni, quindici chili di zaino sulle spalle, una decina di sveglie all’alba, due notti insonni, centinaia di chilometri su bus scalcinati, la pelle divorata dagli insetti. Tutto per via di una sola persona: il dannato colonnello Kurtz. O, meglio, per quei sette indimenticabili minuti in cui anni fa mi palesò la sua esistenza: le tastiere di Manzarek sull’attacco di The End, il napalm che incendia la giungla, le pale degli apache che vanno in dissolvenza su quelle dei ventilatori in una stanza spoglia, Martin Sheen perso nel delirio di una generazione intera.
“Saigon. Quando ero qui volevo essere là. Quando ero là non potevo pensare ad altro che a tornare nella giungla”.
Il mio immaginario del Vietnam è nato lì, con l’attacco di quel capolavoro inarrivabile della cinematografia che è Apocalypse Now. Un film custode di una storia emblematica, ma prima ancora epigono di un’epoca e di un mondo. Dopo essermi drogata della fotografia di Coppola, è arrivato tutto il resto: Dispacci, Micheal Herr, il libro più bello mai letto sulla guerra e probabilmente uno dei primi dieci in assoluto. Le fotografie di Robert Capa, morto sotto il fuoco di Charlie. Volumi di storia da comporre come un puzzle di geopolitica.
Per arrivare a Saigon siamo passati da Bangkok: meno caro il biglietto, più facile l’adattamento. Bangkok si colloca al confine tra il secondo e il primo mondo: immenso contenitore di uomini, denaro, povertà, acque lerce, mega alberghi, traffico indomabile, templi mozzafiato. Appena atterrati l’umidità e lo smog segano le gambe: ci vogliono un paio di giorni per adattarsi, e anche così a metà giornata la stanchezza appesantisce i pensieri. Dare un’identità a Bangkok è difficile: rigogliosa come la vegetazione che cresce sulle sponde del Chao Phraya, il fiume che la attraversa, è un immenso crocevia di traffici e uomini e mezzi. I grattacieli e l’avveniristico skytrain distano una manciata di minuti da quartieri brulicanti di topi e uomini, ugualmente dimorati in marciapiedi affollati e vicoli stretti. Enormi pentoloni a ogni angolo della strada friggono animali e vegetali di qualsiasi provenienza: l’odore si attacca ai vestiti e alla pelle, satura l’aria umida, fa girare la testa. Nello stesso spazio in cui storpi chiedono l’elemosina e poliziotti distratti fumano oleosi sui propri motorini, i turisti si accalcano per vedere alcune delle pagode più belle di tutta l’Asia: preziosi gioielli di cura maniacale le cui tesserine brillanti splendono da lontano.
I larghi viali coronati da improbabili monumenti di architettura fascista – il più noto quello alla Democrazia, a dispetto del fatto che i thailandesi continuano a essere osservati dall’alto da un Re-divinità di cui non si può parlare male – la fanno assomigliare a tratti a Pyong Pen; il traffico insopportabile all’olfatto e all’udito allontanano però il paragone.
A Bangkok ci si ambienta lentamente, con la fatica connaturata in ciò che per natura è sfuggevole e complesso; Saigon, invece, ti accoglie come uno schianto, con la sincerità di una semplicità che è tutt’altro che ordine.
Siamo arrivati con un volo all’alba; fuori dall’aeroporto, in attesa di un taxi, bandiere rosse con la stella gialla sventolavano essenziali, simili alle palme che fanno loro da cornice. La prima impresa è attraversare la città: dei dieci milioni di abitanti, sette circolano unicamente su motorini. Asserragliati su un van, li abbiamo guardati sfilare per le strade come uno sciame di api: un fiume straripante, che tracima sui marciapiedi, non conosce semafori o segnaletica, sensi di marcia e attraversamenti pedonali. Il motociclo è per gli abitanti di Saigon quello che una volta era il mulo; sopra caricano qualsiasi cosa, oltre i limiti imposti dalle leggi della fisica e del buon senso: bombole del gas, televisori, scatoloni, cassette di frutta, un numero di passeggeri superiori a quelli di un’utilitaria. Passeggiando in centro abbiamo contato 5 persone su un 125: un record battuto solo dallo scooter con sopra tre tizi letteralmente ricoperti da scatole di uova.
Seconda sfida attraversare la strada. Per i saigonesi le strisce, scarse e superflue, sono un decoro del manto stradale: loro tirano dritto, sempre, suonando il clacson per segnalare la propria presenza. Al pedone spetta l’onere di schivarli, dopo aver trovato il coraggio di buttarsi in mezzo alla strada. Dicono che la teoria per uscirne senza ossa rotte sia non guardare mai nella loro direzione, perché se percepiscono che ti stai preoccupando dell’attraversamento non si sentono costretti a fermarsi; altrimenti, invece, mettono un piede per terra quando arrivano a due centimetri da te per non asfaltarti. Il coraggio per provare la teoria ci è mancato; piuttosto, un paio di volte dei bambini sghignazzando ci hanno preso sotto braccio per condurci dall’altro lato della strada.
Nonostante il rumore e lo stordimento dato dal traffico, il primo pensiero che ho fatto su Saigon è che fosse una città essenziale: rispetto a Bangkok, asciugata da ogni ridondanza, con un semplicità che ammalia. La passione, comunque, mi ha colto struggente una volta giunti a Pham Ngu Lao (si pronuncia Fanculao: sorvolo sulle risate adolescenziali che ci ha procurato chiedere indicazioni stradali), il quartiere degli stranieri dove abbiamo trovato alloggio. Per le strade ragazzini vietnamiti offrono con noncuranza ai passanti oppio, estasi, eroina o cocaina; i magnaccia scampanellano sulle biciclette per segnalare l’offerta di prostitute; gli americani si allungano al sole nei tavolini dei bar d’angolo, sorseggiando birra fin da mezzogiorno. Dagli anni 60, quando i soldati lenivano con Lsd e alcol le atrocità della giungla nella città assediata, a Fanculao mi è sembrato non essere cambiato nulla: un fermo immagine di una delle pellicole di Oliver Stone proiettato sulla quotidianità. Mi sono sentita immediatamente a casa, come se il coincidere dell’immagine di Siagon costruita su libri e film con quella che mi scorreva sotto agli occhi me la rendesse immediatamente familiare e comprensibile.
Tutto intorno a Pham Ngu Lao la città brucia di traffici: vendere, non importa cosa, è la principale occupazione dei vietnamiti. Al mercato di Cholon, territorio di influenza cinese, si cammina stretti tra centinaia di chioschi grandi tre o quattro metri quadrati e con la più alta densità di oggetti mai vista: dalle caramelle ai fermagli per capelli, qualsiasi cosa è offerta in decine di migliaia di riproduzioni identiche. I venditori non fanno caso ai pochissimi turisti; chiacchierano tra di loro sdraiati per terra, cercando un centimetro quadrato dove ripararsi dall’afa. Un ragazzo giovane ci ha fermato, sperando di rifilarci qualcosa: “Where are you from?” “Italy” “Oh, so nice, do you know Abbey Road?”. Che ci vuoi fare, tra i Beatles e Toto Cotugno la sfida è persa in partenza.