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Beirut/Dispacci # 8

Sottotitolo: cogliere i segnali.
Siamo di nuovo prossimi al confine sud. Leggo sui giornali di qualche scaramuccia tra Hez e Israele, poi chiama un’amica da Beirut per dirci che alla radio hanno dato la notizia di scontri quaggiù.
Per la prima volta nella vita, mi avvicino all’idea di cosa possa voler dire vivere sempre all’erta, cercare di cogliere i segnali di quello che potrebbe succedere prima che sia già successo: i carri armati sono scoperti? Quanti elicotteri stanno volando? I mezzi Unifil come si muovono? Quante famiglie passano il check point dirette a nord?
È una tensione che si interiorizza, immagino. Ma inedita per chi vive in via Vigevano.
La nostra padrona di casa ride, dice che l’ambasciata le dà 500 dollari al giorno per proteggerci. Sua nipote fa l’estetista: ho fissato manicure e pedicure per domani. Edoardo: fantastico, moriamo sotto le bombe, ma tu sarai elegantissima.

Update: è uno scontro fra eserciti, a 17 km da dove siamo. Hez non c’entra ancora nulla. Quattro morti confermati, tre libanesi e un israeliano; i libanesi dicono ovviamente che hanno iniziato gli altri violando il confine. La gente è ipnotizzata davanti alle tv; questa sera Nasser, capo Hezbollah, decide se entrare o no nel conflitto: alle sei si attende un suo discorso.
Qui la gente dice che tutto dipende da se gli fanno o no recuperare i cadaveri.

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Beirut/Dispacci #7

Glielo ho chiesto due volte al telefono, Cherokee? Is that the cheapest?, e il tizio mi ripeteva tutto convinto, Cherokee, yes yes, the cheapest; così abbiamo imbarcato Marco e Nicola e raggiunto baldanzosi l’autonoleggio. La macchina in effetti era la più economica, solo che si trattava di una Chery-Que, manifattura cinese, simil berlina, leggera come il mio vecchio Zip e con un motore che il Monster in confronto sembra la M1 di Valentino Rossi. I ragazzi erano comunque tutti entusiasti – se poi volessimo aprire un capitolo dal titolo Come trasformare un qualsiasi uomo, meglio se maturo-sensibile-artistico-impegnato-e-poi- certo- giammai-turista-sempre-viaggiatore, in un diciottenne  eccitato come quando rubava la macchina alla mamma semplicemente con due ruote da far sgommare, bè, avrei molte riflessioni da regalare all’umanità – dicevo, tra la gioia dei ragazzi e il traffico più delirante del solito per la presenza in citta dei capi di stato mediorientali e conseguente dispiegamento dell’esercito intero, abbiamo lasciato Beirut in direzione Bekaa.

Con il consueto acume, siamo arrivati a Baalbek, quartier generale di Hezbollah, di venerdì, il giorno del riposo per il mussulmano medio, figuriamoci per quello integralista. Qualsiasi negozio chiuso e sole a picco sulla testa, abbiamo vagato per le rovine archeologiche finché Edo ed io ci siamo messi a importunare coppiette per far loro delle foto. Dietro al sito, in una sorta di grotta di fortuna, Hezbollah ha costruito un grottesco mausoleo con gigantografie di bambini mutilati dagli attacchi israeliani e guerriglieri di cera che imbracciano mitra. Il tutto illuminato da luminarie in stile natalizio e condito da un’affissione dieci per tre in con i nomi delle città israeliane all’interno di mirini, con la scritta If they will be back we will be back. Roba di un certo understatement, insomma.

Tratti in inganno dalla lonely planet, e dalla fame di Marco, abbiamo mangiato nel peggior fast food del Libano, un piatto composito in cui persino il pane era gommoso – il tutto per scoprire dopo venti minuti che mezzo chilometro oltre si apriva un giardino dell’Eden traboccante ristoranti all’aperto e narghilè fumanti: almeno il narghilè comunque ce lo siamo aggiudicati. La situazione ha iniziato a precipitare – per me – quando ai tavolini del bar i ragazzi si sono sostanzialmente dimenticati della mia presenza, e la conversazione è lentamente scivolata dalle magnifiche sorti et progressive del Libano al sesso orale a New York e dintorni, con punte pregevolissime come la teoria dell’insetto (sottotitolo: come liberarsi di una portata a casa da sbronzi la mattina successiva) e la narrazione di epiche scorribande fiorentine – roba un po’ da vecchie glorie, fossi negli uomini rifletterei sul loro lento incedere verso la nostalgica dimensione del ricordo.

In ogni caso, tra una narrazione e l’altra, c’è stato il tempo di incontrare il custode dell’albergo più antico del Libano, un posto assolutamente decadente ma meraviglioso, dove nei momenti migliori soggiornavano De Gaulle e Cousteau, Fairuz e Salazar; abbiamo preso un caffè nel suo giardino con le mattonelle un po’ traballanti, e in una lingua creola tra arabo, inglese e francese siamo riusciti a farci raccontare alcune storielle carine.

Da Balbeek siamo ripartiti l’indomani in direzione Shouf, l’unica riserva naturale del paese. Se Beirut è uno spaventoso conglomerato di cemento, l’interno del Libano è arido e brullo come il deserto: le rocce sono rosse come l’hashish per cui sono famose le sue vallate, e la vicinanza con la Siria rende il paesaggio ancora più esotico, con tribù di beduini che passano il confine e piantano le proprie tende in prossimità dei campi di patate, l’unica coltivazione intensiva. Per vedere i cedri che campeggiano fieri sulla bandiera è necessario raggiungere la foresta, un cinquantina di chilometri sopra la città, un piccolo polmone che farebbe ridere qualsiasi abitante della Valle D’Aosta ma rappresenta un angolo di paradiso per chi da Beirut scappa in cerca di natura. Le strade per raggiungerlo, come d’altra parte quelle dell’intero paese, sono congestionate e totalmente prive di segnaletica: l’ideale insomma perché giovani adulti alla soglia dei 40 anni vogliano dimostrare la propria virilità al volante. Con Delille devastato dal raffreddore – durante il percorso ha creato una sottospecie di molotov di secrezioni nasali infilando a getto continuo fazzoletti fradici in una bottiglietta al mio fianco – il fotografo Pinarelli appena sbarcato da Barcelona ha ingaggiato una competizione a suon di colpi di clacson e freni a mano coi libanesi; spiace ammetterlo ma ci sa fare, quasi riusciamo a farci silurare un paio di volte.

Abbiamo trascorso la notte in un eco-village, un posto carino nonostante le carte di Osho (sic) posizionate in bella vista all’ingresso della mensa; atmosfera un po’ alternowell, con il maestro di yoga che medita in solitudine, un menù vegetariano (la mia conversione è pressoché fatta, devo solo risolvere i conti col pesce), un fiumiciattolo dove fare il bagno e tutto un sentimento ambientalista a 40 dollari a notte: non proprio irrisorio trattandosi del Libano. La capanna sull’albero dove abbiamo dormito mi ha regalato comunque le otto ore di sonno migliori dell’ultimo anno, credo.

Oggi ci siamo infilati in una sagra locale, abbiamo mangiato-sudato-mangiato-ascoltato a massimo volume una cassetta (cassetta!) di musica dance araba comprata l’altra sera, rigorosamente coi finestrini tirati giù e i gomiti fuori, e Marco che tirava il freno a mano ogni volta possibile.

Domani, per calmarlo, lo infiliamo su un minibus per il sud; io ed Edo torniamo sul confine, lui può sfruttare il percorso per un corso accelerato di guida di minivan. Se impara quello, il Libano è nelle sua mani.

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Beirut/Dispacci #6

Così siamo saliti su un bus in direzione sud. Una pletora di soldati dal sapor mediorientale e noi due biondicci. Abbiamo ottenuto un permesso dai militari per superare il checkpoint a metà strada e poi via, nelle mani di un aspirante Schumacher che non ha esitato a deviare su un’autostrada chiusa, con tanto di slalom delle betoniere intente a stendere il cemento, pur di evitare la coda.
E il respiro si è fatto più leggero man mano che le case diradavano e il mare diventava più largo e i colori più ocra e le nuvole più basse, con le casette bianche e i bananeti e piccole piazze brulicanti di uomini e merci a costruire un paesaggio inaspettatamente accogliente.
Venti chilometri dal confine con Israele. Soldati stropicciati ai bordi delle strade, bandiere dell’Unifil, gigatografie di Fadlallah, mezzi corazzati, simboli di Hezbollah, filo spinato, spiaggia, spiaggia, spiaggia, palme, palme, palme.
Accogliente.
Una colonia di bambini panzetti e di bimbe in burkini in un ristorante a cinquanta metri dall’ultimo checkpoint, con un giardino di cemento e piscine d’acqua bassa sormontate da enormi Paperino a mo’ di scivoli – paperini con cappellini verde in onore della milizia, ovviamente; un pranzo lucculiano per due spicci; il profilo della costa da seguire con lo sguardo chiedendosi cosa può mai cambiare, laggiù.
E per scoprirlo abbiamo passato il checkpoint diretti verso un posto di cui tanto ci avevano parlato, piccola oasi naturalistica in mezzo all’inferno del fuoco incrociato. Siamo saliti sulla Mercedes scarnificata di un tizio che ci ha offerto un passaggio; era sbronzo marcio, ma ce ne siamo accorti solo quando ha iniziato a tirare bottiglie di birra fuori dal finestrino e a fare lo slalom tra i tank dell’Unifil, strombazzando e fermandosi e gridando saluti scomposti. Per un secondo ho pensato Siamo due pirla, e più o meno deve essere stato quando si è infilato su una collinetta fuori dalla strada principale e di colpo mi è tornato alla mente il riquadro della lonely planet in cui parlava dei campi infestati da mine e dell’obbligo di non abbandonare mai la strada segnata. Ma era sbronzo, non stupido o cattivo; voleva che andassimo a casa sua a bere con lui. A una manciata di chilometri dal confine Edo ha alzato la voce in modo risoluto, il tipo ha girato la macchina e ci ha portato al nostro appuntamento: una coppia inconsueta che vive immersa in un fazzoletto di natura e sabbia, anche mentre Israele lancia razzi dalla spiaggia ed Hezbollah risponde con mezzi di fortuna. Ci hanno aperto le porte di casa, offerto birre, dato le chiavi del cancello per un angolo di mare in cui gli uomini non hanno mai visto una donna in bikini – don’t you dare swim naked, they’d kill you.
Autostop, ancora, in cerca di un albergo. Ci ha tirato su il proprietario di un albergo. Caro, troppo per noi. Uno dei suoi ragazzi ci ha accompagnato in un vicolino stretto, dove una signora ci ha affittato una camera della sua casa spartana per venti dollari. Cena in un baracchino sugli scogli; orate, verdura, hummus di melanzane, birra, limonata fresca: sette euro cada.
In cerca di storie, oggi ne abbiamo trovata una nel più antico fabbricante di narghilé di Tiro, un posto da ambientazione cinematografica; qualche ora dopo la passeggiata in un cimitero ha portato il ricordo ai bambini martirizzati dall’Iran negli anni della guerra con l’Iraq: utilizzati per camminare sui campi minati, così da far saltare le mine e poterci mandare i carri armati. Due milioni di morti. Edoardo ha visto il cimitero, lo ha anche fotografato; scrivetegli così vi fa vedere le foto, inedite.

Poi pranzo agli stabilimenti per famiglie, un succedersi di sgangherate casette di legno allineate sulla spiaggia, rigorosamente numerate alla maniera romagnola: anche i pasti ricordano l’abbondanza romagnola. Spiaggiata sul bagnasciuga, ho seguito con lo sguardo la linea costiera e pensato che se tutto va bene e riusciamo a fare quello che vogliamo fare, io in Israele ci voglio andare.

Di ritorno a Beirut dopo tre ore di minibus, scossoni e soste ogni quindici metri circa, Nicola ci ha accolti con una pasta allo scoglio resuscita morti. I miei capelli, invece, li resusciterà forse – forse – solo il parrucchiere. Sembro uscita da un video delle bananarama.

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Beirut/Dispacci #5 e 1/2

Due ragazzini, seduti su un taxi con noi.
How old you?
30.
He your boyfriend?
Friend.
Love him?
Somehow, he’s a friend.
Love her?
She is a friend.
Have children?
No, no children.
You have boyfriend?
Mmmh…Boyfriend, emhh. Not for children, no no no.

[Try, just a little bit harder.]

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Beirut/Dispacci #5

La parte meridionale di Beirut è un buco nero scomparso anni fa dalle mappe. E dalle coscienze.
Superata la divisione est/ovest con la fine della guerra civile, una linea netta è stata tracciata sotto Manara e Achrafiye; la contrapposizione non più tra quartieri arabi o cristiani, bensì tra zona Hezbollah e resto del mondo.
Bollivo da giorni nel desiderio di spingermi laggiù, dove un sacco di gente, incluso molti arabi che abbiamo conosciuto, non è mai stata (Domani andiamo nel sud di Beirut. Bello, nella costa, Tiro, Sidone? No, no, nel sud della città. Ah. E cosa ci andate a fare?). Non che sia così strano: si fatica a trovare una ragione per cui chi conosce bene la miseria della storia di questo posto dovrebbe andare a infilarsi laddove oggi si manifesta nel modo più evidente.

Sotto un caldo micidiale, e dopo essermi coperta in modo consono – Edoardo, la mattina: Ecco, magari non ci venire vestita così –, ieri saliamo su un service per Haret Hrek, quartiere generale di Hezbollah. Il paesaggio muta via via che ci avviciniamo, con le case sempre più baracche e sempre più devastate da bombe e granate, bandiere della milizia sciita a garrire fiere, i muri letteralmente tappezzati dell’effige lucidata in photoshop dell’Ayatollah Fadlallah, morto una quindicina di giorni addietro. L’autista ci scarica perplesso a un angolo della strada, e nel momento in cui mettiamo piede fuori dallo scassone, in una scena quasi da cartone animato, decine di sguardi si posano istantaneamente su di noi. Ci avviciniamo a un baretto d’angolo, una casupola di lamiera con un televisore saldamente piazzato sul marciapiede e un capannello di uomini a semicerchio intorno: il caffè arabo scioglie molte situazioni. Nessuno ovviamente parla inglese, salvo un omaccione con una maglietta con su scritto Last night I met a bitch, immagino regalo di un parente simpaticone emigrato in terra straniera. Prima domanda: Siete americani? Biondicci così, in effetti non combaciamo molto con l’immagine dell’italiano pizza-mafia-mandolino per cui il mondo ci rispetta tanto. No, no, turisti italiani. Ci studiano. Il loro chiodo fisso sono le spie: un turista americano abbastanza pirla da girare per il quartiere con una telecamera è stato imprigionato e non si sa cos’altro di recente. Non è che siano cattivi, ma le foto proprio gli fanno girare i coglioni; noi, nel dubbio, abbiamo lasciato a casa persino i taccuini, caso mai pensassero che volessimo appuntarci qualche obiettivo strategico. L’omaccione che ha incontrato la puttana ci fa sedere, ci servono i caffè e iniziano a farci domande, a farle a Edo anzi, ché alle donne si parla non molto. E’ tua moglie? No, amica. In Italia non vi sposate? Il concetto di amicizia tra uomo e donna deve sfuggirgli. La televisione intanto propone immagini di un raduno di Hezbollah, una sorta di convegno: decine di uomini e donne sfilano chiamati da una voce che ha lo stesso tono dei filmati della Tass, l’agenzia di stampa dell’Unione Sovietica ai tempi della Guerra Fredda. Ci chiedono se conosciamo Hezbollah, ci indicano in tele il loro capo sovraeccitati. Noi li ascoltiamo interessati, loro sembrano quasi contenti di aver qualcuno lì, come fossimo il pezzo forte di un circo itinerante. L’ultima volta che un turista deve essere passato per Haret Hrek probabilmente non era ancora caduto il Muro di Berlino.

Dopo il caffè camminiamo per il quartiere. Con la Beirut che ormai ci sembra di conoscere non ha nulla da spartire; i canali di scolo delle fognature confluiscono in strada dove la verdura caduta ai venditori ambulanti è lasciata a marcire, le scritte sono unicamente in arabo, negozietti e mercatini si affastellano su marciapiedi sporchi e sforacchiati, intere costruzioni cadono a pezzi: Gemmayze in confronto sembra l’Ile de France. Soprattutto, qualsiasi edificio,  casa, negozio o locale pubblico, è listato a lutto per la morte di Fadlallah, e le foto dei martiri si rincorrono l’una dietro all’altra, tutte ignobilmente ritoccate per farli apparire più simili a Berlusconi quando annunciò la sua discesa in campo. Ci imbattiamo in quella che probabilmente è la sede locale della milizia, un fortino circondato da barriere con due guardie all’ingresso: tiriamo dritto. Poco dopo, però, ci fermiamo per un altro caffè sotto una casupola di lamiera senza porte né finestre; Edo decide di rompere il ghiaccio chiedendo a qualcuno di giocare a backgammon. La richiesta crea scompiglio; tre o quattro persone si avvicendano sulla seggiola di fronte alla sua – io siedo sempre rigorosamente al suo lato, come una brava habibi fedele – poi il boss indiscusso si fa strada e prende posizione. E’ un tipo con gli occhi più scuri e perforanti che abbia mai visto; guarda Edoardo con una fissità inespressiva, come se lo inchiodasse a distanza di sicurezza. Io osservo la scena senza proferire parola (e con chi, poi?) e quasi prego silenziosamente che Edo perda la partita. Quando una scarica di kalasnikov risuona nell’aria la preghiera diventa quasi esplicita: Edoardo, scusa, era quello che penso io? Sì. Beh magari se lo fai vincere è meglio. Tre minuti dopo un’altra sventagliata. Non che abbia paura di qualcosa in particolare, però proprio proprio a mio agio non mi sento. Edo, dai, fallo vincere. Il tizio, comunque, ci pensa da solo a farci capire chi è il re del backgammon; si aggiudica la mano, poi ci guarda perentorio: Welcome. Ci congeda senza farci pagare il conto e noi ce ne andiamo con onore (Comunque ha vinto per culo, Edo ci tiene a precisare; sarà, ma va bene anche così).

Mentre torniamo nel comfort di Beirut nord stiamo zittini, ognuno a pensare che tutto quello che avevamo creduto del Libano fino a quel momento non è poi così vero. Semplicemente, parlare del Libano come totalità – ma anche della sola Beirut – è un’operazione concettualmente scorretta: qui ci sono almeno due paesi, e probabilmente molti di più, nella stessa striminzita terra.
Domani ce ne andiamo a sud, al confine con Israele; lì, forse, la matassa potrebbe sciogliersi. O magari incasinarsi ulteriormente. In effetti, mi pare più verosimile.

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Beirut/Dispacci #4

sottotitolo: Lezioni da imparare

E comunque voi provateci a dire a un beirutese alle 4 della mattina che volete andare a casa a dormire, ché l’indomani si lavora. Risponderà: Domani c’è la guerra. Non è che sia facile dargli torto.

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Beirut/Dispacci #3 e 1/2

Vi potrei risparmiare il racconto di come ieri notte sbronza di vodke mi sono lasciata trasportare in un locale dove suonano musica araba – certo, dopo aver cantato time after time e bette davis eyes al karaoke ed essermi fatta inserire nella lista nera degli avventori nei secoli dei secoli – e aver accettato che un esercito di strafiche libanesi provasse a insegnarmi a ballare come le odalische insistendo but it’s easy mentre io goffamente provavo a spiegare che sono rigida come un bastone e per me non sarà mai easy; e di come ho comunque provato a ballare per compiacerle ottenendo effetti grotteschi e sentendomi un’idiota totale con un’ingestibile criniera di capelli troppo biondi per il medioriente e intanto il mondo intorno a me si accoppiava e si scoppiava e io restavo a guardare. Ecco potrei risparmiarvelo, ma in fondo perché non rendervi partecipi.

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Beirut/Dispacci #3

Da due giorni Beirut è sovrastata da una cappa di smog e umidità che ingiallisce il paesaggio. Questa mattina alle sette e mezza, mentre raggiungevamo la fermata del bus che ci avrebbe portato a Jbail, quaranta chilometri a nord, mi sentivo già appiccicosa come se avessi fatto il bagno nella colla di pesce: un ottimo modo per presentarsi all’intervista con un promettente musicista alternowell, figlio di una dei più grandi compositori arabi (ma questo l’abbiamo capito una volta lì, vedendo le locadine del suo concerto alla Scala di Milano – ovviamente gli avevo già chiesto, Scusa, Kalif chi?).

I trasporti pubblici a Beirut si chiamano service e sono alternativamente vecchie auto scassone anni ’80 che ti tirano su in qualche parte della città e per duemila lire ti fanno fare un pezzo del tragitto insieme ad altra gente – sorvolo sull’odore di umanità all’interno dell’abitacolo – oppure minivan ancora più scassoni che fungono da bus e percorrono distanze extraurbane. L’autista del nostro bus – canotta bianca, pantolone corto con qualche wrestler disegnato sopra e sigaretta perennemente in bocca – ci ha fatto salire già in corsa, e ha prontamente confermato tutti i sospetti che avevamo macinato sulla guida mediorentiale: l’unica regola è che non esistono regole.  Qualsiasi segnalazione si realizza con il clacson: che si tratti di dire che si parte, si arriva, si gira o ci si immette su un’altra strada, nessuno si ferma, usa una freccia o almeno rallenta: basta suonare. Tra il rombo di vecchi motori che avrebbero bisogno di un po’ di manutenzione e i clacson pigiati senza soluzione di continuità, alle otto di mattina avresti già voglia di infilarti in una camera di decompressione.

A Jbail la casa del nostro ospite, per quanto ricco e famoso, non si discostava in alcuna maniera dai canoni estetici del paese: una colata di cemento con un giardino sostanzialmente di cemento, affacciata su una strada in cui il rumore talvolta sovrastava le nostre voci; quando costernato il giovine ci ha raccontato di quanto si vergogni per il McDonald’s che gli hanno appena costruito in zona, deturpando l’ambiente, ci siamo guardati trattenendo le risate.

Chiacchierata e shooting sono stati comunque gradevoli – sua madre ci ha offerto caffè e acqua di rose da sogno –  e il tizio ci ha gentilmente mollato nei pressi della spiaggia, dove mi sono rapidamente spogliata degli abiti civili e buttata in mare. Nuotata, abbrustolimento, pranzo in un baracchino e poi via su un altro minibus in direzione Beirut, per un altro lavoro – questa volta l’autista decideva arbitrariamente dove e quando fermarsi in base alle proprie esigenze: comprare acqua, fumare una sigaretta, inscenare gag con gli amici che fingevano di buttarsi sotto.

Sono arrivata al secondo appuntamento cotta dal sole; ho guardato Edoardo supplicandolo di fare prima le foto, che non riuscivo ad articolare una frase nemmeno per errore, e mentre lui studiava la location mi sono addormentata cinque minuti sulla terrazza di questi. L’intervista successiva non è stata splendida, ma nemmeno la peggiore che abbia mai fatto.

I prossimi giorni sono pieni di cose: altre foto e interviste, e poi i campi, il viaggio al confine con Israele, un altro nella Beqaa. Mi sto creando un’idea su questo paese, ma aspetto qualche giorno per esprimerla pubblicamente. In ogni caso vorrei scrivere a quelli dell’inserto di viaggi del NYT che a settimane alterne lo pompano come la meta perfetta per un week end da sogno e spiegare loro che non basta avere mangiato in un paio di locali chic di Gemayez per essere stati a Beirut.

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Beirut/Dispacci #2

soundtrack: Everything in its right place

Abbiamo iniziato a lavorare, con una massima in testa: “I soldi non è come li fai, è come li spendi”. Ogni ulteriore interpretazione è lasciata ai singoli (ma senza spingersi troppo in là con la fantasia). Intanto, per spianare la mia carriera e diventare presto la firma di punta del NYT, mi sono assicurata di rompere lo specchio del bagno stamattina. Mentre giravamo per il quartiere alla ricerca di uno nuovo ci siamo imbattuti in una signora preoccupatissima per gli anni di disgrazia che mi sarebbero piovuto addosso; costernata e animata, in un inglese stentato ma gentilissimo, mi ha spiegato che avrei potuto evitarli solo andando in casa e recitando la seguente formula magica: Miciomiciobaubaucasa. Queste esatte parole, dette da una libanese. Io ed Edo ci siamo guardati increduli, traducendo come due cretini per lei: cat cat, dog dog, house house. Ovviamente appena rientrati ho preso in braccio il gatto, Asfur, e ho ripetuto il mantra con massima convinzione. Non sia mai che funzioni.

Beirut mi piace, sempre di più. La mia fascinazione per i posti disordinati e ammonticchiati è portata all’estremo dai palazzi sventrati accostati alle case dei primi ‘900, quelli che valsero alla città il nome di Parigi del Medioriente. I libanesi cavalcano la nomea cercando di usarla da traino per riportare qui i turisti; ho il sospetto che in merito le statistiche ottimistiche distribuite dal ministero mentano, perché se ne vedono davvero pochini, forse tre o quattro finora. Ieri avremo fatto quindici chilometri a piedi, fermandoci a parlare qui e là con personaggi di ogni lignaggio; oggi abbiamo mangiato il miglior felafel della città lungo la green line, la strada che divideva la città in due negli anni della guerra; poi, in un baretto arabissimo Edo ha giocato a backgammon con un libanese, battendolo. Per i cinque minuti successivi abbiamo temuto che tornasse indietro con una pistola per regolare i conti, invece si è limitato a sparire, per non subire l’onta della sconfitta.

In casa l’elettricità salta tre ore al giorno e non si può buttare carta nel water, il che non è proprio simpaticissimo, ma dopo i bagni della Cambogia giuro che non mi impressiona più quasi nulla. Continuo a sperare di incontrare Robert Fisk per strada, e che con un semplice sguardo capisca che potrei diventare la migliore corrispondente che l’Ap abbia mai avuto. Per il momento incontro invece gli sguardi arabi, che non sono propriamente delicati. Ah, la frase del secolo è: War is oldfashioned. Ce l’ha detta un tizio assurdo che vive in una vecchia mercedes dotata di tutti i confort su la Corniche, il lungomare; anche questo temo non sia vero – qui si aspettano un nuovo attacco per settembre – ma di cose serie parleremo più in là.

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Beirut/Dispacci #1

Con un’ora e mezza di ritardo rispetto al previsto, e quattro chiamate senza risposta di Edoardo sul telefono, sono arrivata a Beirut alle 3 di notte. Ad attendermi il tassista che mi aveva mandato a prendere, un tizio di mezza età con un sorriso largo e un po’ molle, incapace di parlare altro che arabo. Il che ha iniziato a essere un problema a nemmeno tre minuti dall’uscita delle porte scorrevoli, quando si è accorto di non ricordarsi dov’era parcheggiata la macchina: girava avanti e indietro per il parcheggio dell’aeroporto emettendo suoni gutturali, mentre io sudavo copiosamente, con 20 chili di zaino sulle spalle, cercando di saltargli dietro. Dopo dieci minuti ho rinunciato e mi sono seduta su un muretto ad attenderlo, salvo poi farmi prendere dal panico quando mi è sparito dalla vista: così mi sono messa a correre anche io, e alla fine sembravamo due pazzi in giro alle 3 di mattina per un parcheggio.

Ma il meglio doveva arrivare. Trovata la macchina, il taxidriver ha imboccato con calma una delle decine di arterie dissestate di Beirut sud, dove le strade non hanno nome (e non è una citazione romantica dagli U2) e ogni cinquecento metri i militari ti fermano a un checkpoint, ché quello è territorio di Hezbollah. Ci ho messo mezz’ora di percorso, e un borbottio crescente, a capire che il bonaccione che avrebbe dovuto portarmi a casa non aveva la minima idea di dove casa fosse, e quando l’ho capito la stanchezza e l’ironia della situazione mi hanno scatenato un riso tra l’isterico e l’adolescenziale, irrefrenabile (nel frattempo Edo era a sbronzarsi a una festa in cui gli ospiti d’onore erano i Gorillaz, così, tanto per dire). Tra un singulto e l’altro provavo a interagire con il buonuomo, in un panarabofrancoinglese che suonava più o meno così: Ecutè monsieur, tu know ou home is? Call, mobile mobile, Inshallah qualcun answers. No surprise, in effetti non ci capivamo. Per farla breve, comunque, alle ore 4.45, e cioè dopo un’ora e quindici minuti esatti – giurosuddio – che vagavamo senza meta, sono riuscita a chiamare un’amica che parla arabo, e abbiamo concordato lo scambio della merce – le mie chiappe sulla macchina degli amici di Edo, trenta dollari a lui per non vederlo mai più – a un benzinaio di Beirut sud. E comunque il tassista era genuinamente dispiaciuto, e mi è parso davvero un’ottima persona: se solo avesse saputo le strade.

Detto questo, Beirut è una città estremamente accogliente e affascinante. Non si può dire che sia bella – un agglomerato di cemento segnato da colpi di mortaio e katyusha, dove è meglio, dove è peggio un agglomerato di cemento e specchi per attirare i miliardi dei sauditi con resort sul mare che i tamarri abboccano meglio che al Billionaire – ma di certo va scoperta. Abbiamo individuato già il verduriere di fiducia, che ha letto la mano di Edo ma si è rifiutato di leggere la mia, dicendomi: “Ho scoperto di amarti”. Chapeau.

Domani iniziamo a scattare e intervistare. Spero di stare qualche giorno a Beirut e poi scendere verso il confine con Israele, o spingerci a est nella Bequaa. Non ho la forza di caricare ora qui le foto, ma un po’ a casaccio le ho buttate su Facebook, aperte a tutti, se vi va di vederle. Ah, ho un numero locale; chiamate ed sms allo 0096 – 1- 701-99425.

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